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Autore: Alaide    04/06/2009    3 recensioni
Fu allora che l’immobilismo finì. La bambina corse [...], singhiozzando rumorosamente, dicendo parole sconnesse. Si fermò di botto [...]. Le cadde dalla mano il ramoscello di ciliegio che aveva colto in giardino solo pochi istanti prima di intrufolarsi nella stanza.
one-shot ambientata nel Giappone del 1604.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Giappone feudale
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Note dell'autrice:
L'idea di scrivere una one-shot che si svolga in Giappone è dovuta al contest indetto da _ayachan_ intitolato I tre samurai e mezzo!.
Non ritengo di essere un'esperta in storia giapponese, né di conoscere tutto circa i costumi del periodo Edo. Mi sono documentata più che ho potuto e questo è stato il risultato.
Ora smetto di chiacchierare e vi lascio alla lettura.


Petali di Ciliegio

La bambina era immobile, timorosa di fare il ben che minimo rumore. Sapeva che non avrebbe dovuto trovarsi lì, ma aveva sentito delle voci e la curiosità era stata troppo forte.
Le era sempre piaciuto sentire parlare suo padre con Kenshin, forse perché le sembrava che dicessero parole molto sagge. Ed era orgogliosa di poter dire alle altre bambine quanto fosse felice di essere la figlia di Nabuyuki Inoue E non perché fosse un uomo importante, ma per la sua sapienza, la sua lealtà e il suo coraggio.
Suo padre era un samurai, un vassallo del daimyō[1]Akiyama.
Ma la bambina era troppo piccola per comprendere quanto fosse importante essere legati al daimyō Akiyama che, si diceva, fosse imparentato alla lontana con lo shogun che governava il Giappone da Edo [2].
Per lei suo padre era semplicemente un eroe.
La bambina si sporse leggermente da dietro il paravanto dalle decorazioni austere, ben diverso da quelli dorati e dipinti con scene di vita di corte che stavano in altre parti della casa. Suo padre era inginocchiato, davanti a lui stavano la katana e il wakizashi[3]. Le lame erano illuminate dall’unico raggio di sole che penetrava nella stanza.
«È ora, Nabuyuki.» disse l’altro uomo, di qualche anno più giovane, che stava in piedi e che alla bambina parve stranamente nervoso.
«Sono pronto, Kenshin.» affermò solennemente il samurai.
«Eppure Nabuyuki, io so che…»
«Non dire altro, Kenshin. - lo interruppe bruscamente Nabuyuki - Abbiamo già discusso di tutto quello che c’era da discutere. E tu sai che non c’è altra scelta.»
Kenshin chinò il capo verso il suolo. Improvvisamente, e per un solo breve istante, il bushidō[4] gli parve ingiusto, una via sbagliata, ma, si rimproverò, sapeva perfettamente che quello che stava per accadere non era a causa del bushidō, ma di chi si faceva beffe di questo.
«Eppure credo che non vi sia giustizia in quello che sta per accadere - disse Kenshin, rompendo il silenzio - I suoi genitori sono stati orgogliosi a chiamarlo Makoto. La completa sincerità è diventata la più totale insincerità.[5]»
«Non v’è nulla da discutere. Il daimyō ha dato…»
«È stato ingannato e tu la sai meglio di chiunque altro.» lo interruppe impazientemente Kenshin, perdendo la compostezza che lo aveva caratterizzato fino a quel momento.
Nabuyuki non disse nulla, chiudendo gli occhi, come se volesse riflettere. L’uomo più giovane rimase immobile, osservandolo. Non riusciva ad accettare quello che stava per accadere. Eppure sapeva che non c’era altra scelta o possibilità. O, forse, si disse, l’amico non voleva averne.
Avrebbero potuto presentare le prove della falsità di Makoto, avrebbero potuto implorare Setsuko di intercedere per Nabuyuki, ma nessuna delle due alternative era onorevole, anche se in quel momento l’onore gli sembrava quasi deplorevole.
Un pensiero non degno di lui, non degno di un samurai.
«Lo so, Kenshin, ma questo non cambia nulla.»
La bambina non riusciva a comprendere di cosa stessero parlando suo padre e Kenshin, ma era un discorso che non le piaceva. C’era qualcosa di sinistro nelle loro parole. Eppure, si disse, a suo padre, a quell’uomo rispettato da tutti, non poteva accadere nulla di male. Il suo papà, pensò convinta, era un eroe e gli eroi sono invincibili.
«La verità è, Nabuyuki, che non riesco a capacitarmi che tutto questo stia accadendo a te, al migliore tra noi, al più illustre.»
«Forse avrei dovuto essere meno illustre. - affermò amaramente l’altro samurai - Forse quello che sta accadendo ora è una giusta punizione. Ho ottenuto troppo.»
«Unicamente per tuo merito, Nabuyuki. Non vi è mai stata cupidigia in te.»
L’altro uomo non disse nulla. Stava solo riflettendo, pensando a come potesse essere giunto a quel punto.
Era stato semplicemente uno stolto.
Se fosse stato più accorto non sarebbe mai caduto in quella trappola, ma, d’altro canto, se fosse stato più saggio non sarebbe mai stato così orgoglioso per la posizione a cui era giunto.
Scosse appena il capo.
Non c’era tempo. Era inutile biasimarsi per quello che era accaduto.
«È inutile indugiare ancora, Kenshin.» disse infine con fermezza.
«Eppure dovrebbe esservi un modo, amico mio. Non posso accettare che tutto questo accada.» ripeté quasi fosse una cantilena
Sapeva che stava parlando al vento ed era cosciente che era insensato ed inutile tentare di convincere Nabuyuki ad agire diversamente. In fin dei conti, se fosse stato al suo posto si sarebbe comportato esattamente come lui. Eppure non riusciva ad accettare il destino dell’amico e questo non era un pensiero degno di lui. Certo, se Nabuyuki avesse effettivamente fatto quello di cui era accusato sarebbe stato tutto più semplice, ma l’amico era innocente. Tutto, si disse Kenshin, era iniziato un mese prima, quando si erano recati al palazzo del daimyō. Ed era incredibile che una giornata così bella fosse stata il preludio per tale immensa tragedia. Forse se Setsuko Akiyama, la moglie del daimyō, non avesse chiesto di incontrare Nabuyuki nulla sarebbe accaduto. Oppure Makoto avrebbe trovato un altro modo per insinuare il dubbio in Takeshy Akiyama?
Quella era una domanda a cui non avrebbe mai potuto dare risposta. L’unica cosa di cui era certo era che non riusciva a scacciare dalla mente quanto era avvenuto un mese prima. Setsuko aveva confidato a Nabuyuki la sua forte preoccupazione per il comportamento del marito che sembrava stesse macchinando qualcosa, con un altro daimyō, ai danni dello shogun Ieyasu Takugawa. La moglie del daimyō era una donna saggia e assennata e aveva chiesto a Nabuyuki di aiutarla a convincere lo sposo a non tentare una strada folle che l’avrebbe privato delle sue terre e reso i suoi samurai dei ronin.
Nabuyuki aveva accettato.
E Makoto, samurai del daimyō Akiyama, aveva mostrato un volto leale, quando il suo unico scopo era la slealtà, aveva finto sincerità quanto tutti in lui era falso.
«Perché ti ostini a discutere, Kenshin? - disse Nabuyuki, interrompendo il corso dei pensieri dell’altro uomo - Il tempo passa e più trascorre più il pensiero di chi lascio diventa opprimente.»
La bambina sussultò appena. Cosa voleva dire suo padre? perché voleva lasciarla? O forse stava parlando di qualcun altro e lei non doveva preoccuparsi? Doveva essere così, si disse, ma non ne era realmente convinta.
«Setsuko potrebbe intercedere per te.» sbottò Kenshin, perdendo quel poco di compostezza che gli restava.
«E come? - chiese l’altro samurai alzando il capo verso l’amico - Sai perfettamente che questo comporterebbe solo dolore a lei e al daimyō.»
Kenshin sospirò frustrato. Nabuyuki aveva ragione, ovviamente.
Coinvolgere la donna avrebbe unicamente peggiorato le cose e, forse, avrebbe significato condannarla a sua volta.
Ricordava perfettamente che era stata Irumi, la bella sposa di Nabuyuki, a proporre a Setsuko di parlare con il marito di quello che l’inquietava. Forse il problema stava proprio nel fatto che l’uomo era diventato il samurai più importante tra tutti quelli del daimyō Akiyama. Era per quello che Makoto aveva lavorato. Un uomo colmo di cupidigia con il volto dell’amicizia. Era amicizia che aveva mostrato a Nabuyuki prima di tradirlo.
Makoto aveva infatti detto a Nabuyuki che l’avrebbe aiutato, che anche lui si era reso conto che il daimyō sembrava star prendendo una strada sbagliata e rischiosa. Nabuyuki si era fidato. Ma come poteva non fidarsi del suo fratello di latte, dell’uomo con cui, un tempo, aveva condiviso i giochi? Aveva messo al corrente Makoto di ogni cosa, di come stesse pensando di parlare apertamente davanti al daimyō.
Un gesto coraggioso che era stato impedito da un vigliacco.
«È il momento, Kenshin. Non indugiamo oltre. - sembrò che non avesse altro da dire, ma aggiunse subito dopo, voltandosi verso l’amico, palesando un’espressione tesa, tirata, per nulla calma com’era la sua voce - Ricorderai quello che hai promesso?»
Nabuyuki sentiva riluttanza a compiere il suo dovere in quel momento. Si sentiva, come mai era accaduto prima, legato in maniera quasi spasmodica a tutto ciò che lo circondava, a tutto quello che avrebbe dovuto lasciare. Forse era per quello che aveva posto quella domanda. Per posticipare il momento.
Una scelta sciocca, si disse.
Forse sarebbe stato meglio non parlare così a lungo e conservare a quel modo una maggiore fermezza, un maggior coraggio. Invece, in quel momento, provava soltanto paura e rimpianto.
«Non dubitare, amico mio. Li difenderò a costo della vita.» disse fieramente Kenshin.
Non avrebbe permesso a Makoto di nuocere anche a Irumi, alla piccola Katsuro e al piccolo Hoshiko. Quell’uomo aveva già agito in maniera crudele, aveva già tradito chi era stato suo amico e, facendo questo, aveva tradito la sua anima di samurai. Aveva ingannato Nabuyuki, dicendo al daimyō che l’uomo stava congiurando con Setsuko per prendere il sopravvento su di lui, assassinarlo e governare sulle sue terre. Aveva costruito false prove per tutto quel mese e il daimyō gli aveva creduto, condannando Nabuyuki, ingiungendogli di morire con onore.
L’amico era riuscito solamente a scagionare d’ogni colpa Setsuko, facendo ricadere tutto su di lui, accusandosi di quel finto complotto.
«Spero che non debba accadere. - disse Nabuyuki, portando lo sguardo sul wakizashi, quasi cercasse in quel modo di scacciare il timore. Gli sembrava che gli rimanesse una sola consolazione: la sua coscienza era in pace con se stessa. E questo non poteva dirsi per Makoto. - Ti auguro una vita lunga e felice, amico mio. - fece una breve pausa - E che questo sia veramente il momento, Kenshin.»
All’altro uomo non restò che annuire. Rimase immobile, mentre Nabuyuki allungava la mano verso il wakizashi e ne impugnava l’elsa. La bambina sentì come qualcosa cambiare nell’aria, come se il tepore di quella giornata primaverile del diciottesimo anno del regno di Go-Yozēi[6] fosse scomparso e tutto fosse diventato improvvisamente freddo. Rabbrividì appena, tenendo gli occhi fissi sul padre. Da dove si trovava non riusciva a vederne bene i gesti. Aveva solo notato che prendeva in mano l’arma e che Kenshin lo stava fissando.
Poi, improvvisamente iniziò a vedere il sangue.
Fece qualche passo avanti, uscendo da dietro il paravento, incurante di essere vista. Non registrò subito quello che stava avvenendo. Voleva forse pensare, credere che suo padre si fosse semplicemente tagliato. Poi la verità la sconvolse. Capì che il sangue veniva dal ventre. Sapeva cosa volesse dire. Tutti lo sapevano in Giappone.
Seppuku.
Suo padre si era appena squarciato il ventre, uccidendosi.
Avrebbe voluto urlare, correre da lui, ma l’orrore, troppo grande per una bambina di otto anni, l’aveva immobilizzata. Come in un incubo che non voleva finire vide il padre cadere in avanti. Osservò Kenshin andare a prendere la katana e recidere con un colpo netto il capo del padre.
Fu allora che l’immobilismo finì. La bambina corse verso il cadavere, singhiozzando rumorosamente, dicendo parole sconnesse. Si fermò di botto accanto al corpo senza vita, insanguinato. Le cadde dalla mano il ramoscello di ciliegio che aveva colto in giardino solo pochi istanti prima di intrufolarsi nella stanza.
Alcuni petali caddero sul corpo di Nabuyuki. Kenshin, avvicinandosi alla piccola Katsuro, si disse che almeno l’amico, caduto vittima di un inganno, aveva avuto quell’omaggio.
La bambina lasciò che l’uomo la allontanasse dal cadavere del padre, che la abbracciasse stringendola con forza per confortarla. Era completamente inerme, annientata. I suoi occhi continuavano a vedere, anche in quel momento che stava piangendo contro Kenshin, il padre che si uccideva.
L’uomo cercò di confortare la bambina meglio che poteva, ma chi poteva dissipare il dolore di una giovane mente, di un giovane cuore che ha dovuto perdere il genitore? Anche quel dolore ricadeva sul capo colpevole di Makoto. Se avesse potuto l’avrebbe ucciso nella maniera più atroce per vendicare l’amico, ma quello non sarebbe stato il desiderio di Nabuyuki, il quale non avrebbe mai voluto che lui infrangesse a quel modo il bushidō a causa sua.
Nemmeno Nabuyuki l’aveva mai infranto. Era stato onesto e giusto, coraggioso, compassionevole, cortese, completamente sincero, colmo di onore, leale e fedele al suo dovere fino alla fine.
Eppure era morto in quel modo.
La cupidigia di Makoto per la sua ricchezza l’aveva condannato. Lui era giusto ed era caduto vittima di un’ingiustizia. Lui che aveva mostrato compassione per la sorte di più di una persona era stato tradito senza compassione per i figli e la sposa che lasciava. Aveva sempre agito realmente con onore ed era stato tradito disonorevolmente.
Katsuro continuava a piangere, aggrappandosi alla veste dell’amico del padre, a quell’uomo che aveva accompagnato silenziosamente la sua infanzia. C’erano momenti in cui credeva che tutto fosse un incubo, ma Kenshin era troppo reale, e troppo reale era il ricordo della morte del padre.
«Mio padre non può esser stato un cattivo samurai, Kenshin.» disse la bambina quando il pianto, quietandosi un poco, le permise di parlare. «Era il migliore samurai che io abbia mai incontrato.» rispose l’uomo.
«Allora perché ha dovuto morire?» domandò Katsuro.
«Al mondo esistono uomini malvagi. Tuo padre è stato vittima di uno di questi.»
Katsuro non disse nulla. Era rincuorata nel sapere che suo padre non aveva cessato di essere l’eroe che era stato, ma nessuno l’avrebbe più creduto ormai, questo lo capiva perfettamente nonostante i suoi otto anni.
Anche i pensieri di Kenshin seguivano quella strada. Tutti avrebbero creduto che Nabuyuki aveva tradito il daimyō e che questi gli aveva dato la possibilità di morire con onore. Nessuno, se non lui, Katsuro, Irumi e il piccolo Hoshiko, avrebbe pensato che Nabuyuki era stato l’immagine stessa del bushidō.
Questo fu l’ultimo pensiero mentre usciva dalla stanza per accompagnare la bambina da Irumi.
Durante la sua breve assenza il sole illuminò il cadavere di Nabuyuki ed i fiori di ciliegio intorno a lui.


Note:

[1] Nome che indica la carica feudale più importante in Giappone tra il XII e il XIX secolo. I samurai erano vassalli del daimyō.
[2] Antico nome dell’attuale Tokyo.
[3] Spada a lama più corta (lama lunga tra i 30 e i 60 cm) che veniva portata sul ventre e che insieme alla katana era l’arma caratterizzante del samurai.
[4] È il codice comportamentale dei samurai, basato su sette principi.
[5]Il gioco di parole di Kenshin deriva dal significato della parola Makoto che vuol dire per l’appunto sincerità ed è, oltre ad essere un nome, uno dei sette principi del bushidō.
[6]Si tratta del 1604 secondo il nostro calendario.

  
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