Non andare dove il sentiero ti può portare; vai invece dove il sentiero
non c’è ancora e lascia dietro di te una traccia.
Ralph Waldo Emerson
Non si può scoprire nuovi oceani se non si ha il coraggio di perdere di
vista la riva.
Andrè Gide
La vita è un’avventura da vivere, non un problema da risolvere.
John Keats
A Londra, nella classica
e caotica e ricercatamente eclettica Londra, quattro persone stanno vivendo un
momento topico delle loro vite – due di loro ne hanno una vaga percezione, le
restanti due non sono neppure scalfite dalla possibilità che quella circostanza
si verifichi.
Tre di loro si scontrano
in una rapida successione di fortuiti sincronismi sui gradini di accesso della
banca centrale del Regno Unito. La quarta, pur se non lontana dalla City, in quel momento è impegnata a
sottostare al rigido bigottismo di un capoufficio maschilista (non le riesce
molto bene e, chissà come, i lacci delle scarpe di vernice del signor Ricoletti
si annodano tra di loro in modi misteriosi e sospettosamente magici, facendolo finire gambe all’aria
e con un diavolo per capello).
Una donna minuta, viso a
punta, naso impertinente e lunghi capelli legati in una coda di cavallo,
ascolta con aria grave il discorso di propaganda che una signora vestita di
nero sta tenendo in cima al basamento di pietra su cui si è installata come un
predicatore; la paura e il dubbio che le sue parole impregnate d’odio
instillano nelle menti della piccola folla che le si è adunata attorno e che
presta attenzione al racconto dell’orrore che lei ha imbastito per
l’occasione.
Un uomo alto, zigomi
pronunciati, una selva indisciplinata di ricci nerissimi e un costoso cappotto invernale,
assiste al sermone con le sopracciglia aggrottate, ma un lampo di irritazione
attraversa il suo sguardo tempestoso quando lo posa sul bambino che, ai piedi
della colonna, fissa ad occhi bassi il suolo e che ha tra le braccia il
voluminoso contingente di volantini che gli toccherà distribuire alla fine di
quell’omelia priva di ogni ragionevolezza.
Un altro uomo, biondo e visibilmente
spossato, procede a fatica nella calca assediante, stringendosi al petto una
vecchia borsa da medico di cuoio marrone. Il suo passo è claudicante, ma la sua
postura è quella di un soldato e la sua espressione è fosca e agguerrita e in
qualche modo disperata.
Due uomini, una donna e
due valige fatalmente simili, pressoché indistinguibili.
Due scontri.
Il primo. Spintonata di lato, la donna gli finisce
addosso a causa della scortesia di terzi. In un riflesso involontario Sherlock
la agguanta prima che possa cadere. La sua mano si chiude facilmente attorno
alla spalla di lei, così piccola ed esile da sembrare quella di una ragazzina.
Il profumo che gli solletica le narici ha qualcosa di vagamente esotico e
silvestre, non è quanto ci si aspetterebbe da una esponente del gentil sesso – l’odore della rugiada sui prati poco prima
dell’alba, spezie cinesi e forse chiodi di garofano. Le sue dita tradiscono
un fremito quando la donna rialza la testa e mormora un ringraziamento poco
sentito. Appare immersa nei propri pensieri, i suoi occhi scuri lo fissano
senza soffermarsi su di lui per più di un istante e in quello successivo si sta
già allontanando. Si tratta di un urto accidentale, eppure lui si ritrova ad
inseguire con sospetto il profilo a tinte vivaci di lei mentre qualcosa scatta dentro
di lui e un’improvvisa luce di riconoscimento si accende all’interno della sua memoria.
Il secondo. John impreca quando inciampa in una borsa e
batte le palpebre mentre, rialzandosi, con un sorriso atrofizzato dal disuso
rivolge parole di scuse al proprietario della borsa in questione. La donna
indossa la più improbabile accozzaglia di colori male assortiti su cui abbia
mai posato lo sguardo. Non sa cosa lo intrighi maggiormente: se la sciarpa a
strisce nere e rosa o il cappotto giallo canarino o le scarpe rosse. Forse è
l’insieme di particolari anacronistici e inusuali o forse a catturare il suo
interesse sono i capelli lunghi e il mistero che sembra celarsi dietro il suo
sorriso gentile. John raddrizza le spalle e le dà la schiena, dirigendosi a
passi rapidi verso l’entrata della banca. Il suo appuntamento, dopotutto, servirà
a stabilire la direzione che la sua vita assumerà da quel giorno in avanti.
La traccia dietro di me.
Quando si siede sulla
panca, Molly continua a scrutare nervosamente gli angoli dell’atrio della banca
alla ricerca del suo piccolo amico in fuga.
L’uomo seduto accanto a
lei, lo stesso che è inciampato nella sua borsa una manciata di minuti prima davanti
ai gradini di accesso, fraintende la causa della sua inquietudine. Quando spezza
il ghiaccio chiedendole perché si trovi lì, ovviamente convinto che sia per un
appuntamento con uno degli amministratori, lei si volta per rispondere con un
sorriso di circostanza: “Per il suo stesso motivo.”
Le sopracciglia
dell’uomo si scontrano in un acciglio di stupore e confusione. “Per aprire uno
studio medico?”
Molly riderebbe per la
sua espressione se la situazione non fosse disperatamente complicata. Lui le
sembra un tipo a posto, modi cordiali e un carattere espansivo, una qualità di
adulazione che è lusinghiera in modo piacevole e non fastidiosa come quella di certi
fatui seduttori.
Quando coglie di sfuggita
la sagoma di Toby sotto un carrello che un impiegato sta trasportando verso un
ascensore destinato ai soli addetti e che porta ai piani inferiori di raccolta,
scatta come una molla nella direzione in cui lo ha intravisto. Nella fretta non
si accorge di essersi lasciata dietro un uovo né che l’uomo biondo la stia
chiamando per farglielo notare.
*
Il signor Sebastian
Wilkes è impeccabile nel suo completo grigio antracite. E’ un uomo d’affari
fatto e finito con i suoi capelli impomatati, la candida camicia inamidata alla
perfezione, il fermacravatte e i gemelli d’argento ai polsini.
Il modo in cui espone le
motivazioni per cui è stato deciso di rifiutare il prestito che ha richiesto,
nonostante le raccomandazioni di un loro cliente di fiducia e azionista, il Dottor
Mike Stamford del prestigioso Ospedale St. Bartholomew, è conciso e pragmatico,
ma c’è una nota untuosa e provocatoria di fondo che a John non passa
inosservata.
Si congeda dall’uomo
senza un vero e proprio saluto e senza stringergli la mano.
L’uovo nella sua tasca
comincia a schiudersi non appena mette piede fuori dall’ufficio. Lui si guarda
attorno, nella speranza di individuare la donna dal cappotto giallo e
restituirglielo. Gli pare di adocchiarla, dall’altro lato dell’atrio, di fronte
ai cancelletti dorati delle postazioni degli impiegati di sportello preposti al
rapporto con il pubblico.
Si sbraccia per
catturare la sua attenzione e, pur se visibilmente distratta, lei alla fine lo
nota.
La vede estrarre dalla
tasca interna del cappotto un oggetto sottile e lungo che assomiglia a un
bastoncino di zucchero e di colpo lui si ritrova a percorrere l’intera distanza
che li separa come se una forza invisibile lo stesse trascinando verso di lei,
lui fosse un magnete e lei una calamita.
L’ultima cosa che sa è che
l’uovo si è schiuso nel palmo della mano di lei, ne è uscito una specie di
serpente-anguilla di un azzurro opalescente e che la donna lo sta guardando con
l’espressione amorevole che una madre riserverebbe al proprio figlio. Poi c’è
il caos… essere accusati di svaligiare la banca senza rubare effettivamente
niente, guardie di sicurezza armate, lei che lo afferra alle spalle, scomparire
e riapparire in un vicolo laterale con la testa che sembra straripare come un
fiume in piena per le troppe informazioni contrastanti e lo stomaco che si
ribella all’assurdità della situazione.
La donna è inginocchiata
e sta litigando con un certo ‘Toby’ che non può essere altri che il gatto-lince
che ha inseguito fino al caveau mentre
lo scuote per la collottola e lo infila a forza nella vecchia borsa di cuoio.
Quando lei si volta, offrendogli
la sua completa considerazione e poggiandogli le mani sulle spalle per
guardarlo dritto in faccia con una sorta di severa solennità, John la scansa di
malagrazia, arraffa la borsa da medico e scappa via come se dovesse
ripercorrere daccapo il campo di battaglia per ritornare dietro la zona di apparente
franchigia della trincea.
*
Molly si spazzola il
retro del cappotto e osserva il davanti del vestito, in cerca di eventuali
danni. Intanto prova ad elaborare una soluzione per salvare il rimediabile.
L’uomo ormai è solo una
testa bionda in una moltitudine infinita di teste tutte uguali. Lei si china a
raccogliere la borsa insolitamente silenziosa, mormorando parole di
rassicurazione e di monito, proprio nel momento in cui la figura di un uomo
alto ed elegante si delinea all’imbocco del vicolo, apparendo dal nulla.
Lei inspira dal naso
rumorosamente, scrolla la testa e decide di provare a superarlo con
disinvoltura. Quando è certa di averla fatta franca, però, lui la afferra per
il gomito e insieme scompaiono nel risucchio della Smaterializzazione.
*
Si Materializzano sul
marciapiede del War Office. Sherlock Holmes, questo è il nome dell’uomo scontroso
dagli occhi di un blu magnifico, la scorta con malgarbo attraverso le porte
girevoli e poi verso l’ascensore sferragliante, probabilmente esimendosi dallo
strattonarla più per noia che per reale galanteria.
Nelle orecchie di lei risuona
ancora la sua ramanzina sulle innumerevoli effrazioni che ha trasgredito e che
lui le ha elencato come i capi d’accusa di un arrestato. Molly lo segue,
furente e recalcitrante, senza avere altra scelta. Ogni resistenza sarebbe
vana, lui le ha assicurato con un freddo sorriso di repertorio.
“Salve, Shezza!”
Sherlock rivolge un
impercettibile cenno di saluto al goblin dinoccolato nell’ascensore,
spingendola all’interno. “Buongiorno, Bill.”
Bill la occhieggia con
sfacciata curiosità e il suo sguardo si sofferma sulla mano che Sherlock le ha
poggiato sulla schiena, all’altezza dei reni. “Perciò,” sogghigna con sguardo
saputo, “lei è la tua ragazza? Bill Wiggins,” si presenta, “ma preferisco ‘The
Wig’. E’ come mi chiamano.”
Molly, che per tatto aveva
finto di non notare il vistoso parrucchino che Bill indossa, ora non può sottrarsi
alla tentazione di una discreta sbirciatina.
“Non badargli,” Sherlock
scandisce a denti stretti e poi, rivolto a Bill: “Non è la mia ragazza. E’ in
stato di arresto. La sto portando all’Ufficio Indagini Rilevanti.”
Bill scuote la testa e
d’un tratto si incupisce. “Non ti lasceranno entrare, lo sai. Non dopo lo
scandalo di quello che è successo con il caso dei ragazzini Bruhl.”
“Faranno un’eccezione,”
lo interrompe Sherlock, perentorio e se non fosse così arrogante Molly
proverebbe un moto di solidarietà perché finalmente crede di aver capito cosa
sta succedendo. Lei non è un capro espiatorio, ma un tentativo per rientrare
nelle grazie di qualcuno. Di chi, ad ogni modo, resta ancora da vedere.
*
Invitati ad andarsene dalla
Madama Presidente in persona, tal
Lady Elisabeth Smallwood, Molly si ritrova a ripercorrere all’inverso il
tragitto con Sherlock.
L’ascensore, questa
volta vuoto e meno sferragliante, apre le sue porte su un bugigattolo privo di
finestre e ingombro di scartoffie sistemate sommariamente in schedari
fluttuanti, archivi e sifoni che si dipartono ad intervalli regolari dal
soffitto troppo basso. Sembra una stanza delle caldaie. Il ritmico rumore delle
macchine da scrivere è assordante.
Molly segue Sherlock
fino alla sua scrivania, oberata da origami architettonici e riproduzioni
fedeli dei quadri di Escher realizzate con la carta. Inclina la testa su un
lato e cerca di non sorridere, indicandole. “Brutta giornata, eh?”
Con un movimento solerte
della bacchetta e un’aria truce, Sherlock disfa gli origami che tornano ad
essere foglietti quadrati di colori differenti e brillanti e si ammucchiano in
pile ordinate nei raccoglitori ai lati della scrivania.
Il sorriso di Molly si
spegne in un attimo. Non riesce a capire quest’uomo dal carattere insoffribile,
cupo e taciturno. E’ come andare a sbattere contro un iceberg di cui è visibile
solo la punta di diamante, che sotto il pelo dell’acqua ghiacciata nasconde
l’enigma della sua vera conformazione.
E’ molto probabile che
lui sappia che lei gli abbia mentito sulle ragioni che l’hanno convinta a
recarsi a Londra. Deve averlo
dedotto. Non c’è altra spiegazione per il sospetto che gli indurisce gli occhi
e la linea della bocca.
Con un altro movimento
fluido della bacchetta Sherlock fa levitare la catasta di libri che occupava la
sedia, in un inequivocabile invito – ordine implicito – ad accomodarsi. Ed è
così, circondata da tubi di rame che sputano bizzarri origami di animali, che
Molly, suo malgrado, subisce lo scorno di un secondo interrogatorio.
*
C’è un ulteriore
incidente e ha a che fare con un uomo persino più indisponente di Sherlock.
Quando lo sente arrivare, urlando a gran voce il suo nome, Sherlock mormora a
mezza voce un’imprecazione irripetibile.
“Holmes!”
“Anderson,” Sherlock lo
saluta con un tono che lascia molto poco all’immaginazione. E’ evidente che
detesti cordialmente quest’uomo e non si dà pena di dissimularlo, al contrario
il sorriso pungente e acrimonioso con cui registra il suo arrivo è un chiaro invito
a ritornarsene da dove è venuto e a lasciarlo in pace.
“Holmes, se credi
davvero di continuare indisturbato a fare i tuoi comodi quando sei stato
affidato alla mia supervisione-” L’uomo pone un freno alla sua sfuriata,
inquadrando Molly e accorgendosi della sua presenza per la prima volta. “E lei
chi sarebbe?” domanda, scorbuticamente. “Cosa ci fa nel mio dipartimento?”
Molly batte le ciglia e
sorride angelicamente. Al di sopra della testa di Anderson, Sherlock le rivolge
un significativo cenno di avvertimento. Le piacerebbe dire che nei pochi minuti
che hanno preceduto la comparsa di Anderson, lei e Sherlock siano arrivati ad
una specie di intesa, ma non è così. Molly lo considera uno degli uomini più
villani e seccanti che le sia mai capitato di incontrare e nonostante la sua
ovvia intelligenza, come se ne trova una su un milione, complessa e multiforme
come argento vivo, il contraltare del suo pessimo carattere lo rende
affascinante quanto la prospettiva di una partita a Gobbiglie (non un
complimento dal momento che lei è una pessima, pessima giocatrice).
Certo, la sua prestanza
fisica è innegabile, si ritrova a concedere sinceramente a se stessa.
Longilineo, di un’altezza svettante e con quegli occhi di un colore
impareggiabile tra il verde e l’azzurro, non c’è da meravigliarsi che,
nonostante tutto, le risulti attraente. E anche se la metà delle volte che apre
bocca, lui lo fa per dire cose orribili, si tratta anche di cose indiscutibilmente
vere e denotano un certo acume.
“La signorina Hooper,”
Sherlock la introduce con prontezza di spirito di fronte al suo prolungato
silenzio. “La sua branca di professione è la Magizoologia.”
Anderson non pare
particolarmente colpito dall’informazione. “Questo non spiega cosa ci fa nel mio dipartimento,” rimbecca.
Sherlock fa una smorfia
tediata e Molly è tentata di fare altrettanto. Non le è passato inosservato che
l’astio di Sherlock sia ampiamente ricambiato né il modo il cui Anderson abbia
sottolineato la parola ‘mio’. Non c’è da sorprendersi che Sherlock abbia la
faccia di qualcuno che ha appena ingurgitato dell’Ossofast. Chi mai aspirerebbe
al posto di capoufficio dell’Ufficio Permessi per Bacchette Magiche? Anderson,
evidentemente, soprattutto se la mansione gli permette di avere una carica di
grado superiore a quella di Sherlock e di spadroneggiare, facendo il bello e il
cattivo tempo.
“Allora?” Anderson
incrocia le braccia sul petto scarno, sfidandolo con occhi fiammeggianti e
ostili. “Sono in attesa di una spiegazione, Holmes.”
“Come lo sono anch’io,”
si intromette svogliatamente una voce roca alle sue spalle e prima di voltarsi
a controllare l’identità del nuovo arrivato, Molly osserva il volto di Sherlock
rischiararsi e il sorriso compiaciuto che gli si appunta sulle labbra.
Anderson, al contrario,
sembra sgonfiarsi come un palloncino bucato da un ago.
“Lestrade,” Sherlock lo
accoglie a mo’ di benvenuto e il la sua voce è quasi amichevole. Il modo in cui si fronteggiano parla di trascorsi
e di un rapporto confidenziale, di cameratismo, perfino di stima reciproca,
anche se è pronta a giurare che Sherlock non lo ammetterebbe mai.
L’uomo ha capelli sale e
pepe e anche se di ottima fattura, indossa i suoi vestiti da mago con la
trasandata noncuranza di un adolescente che ci sta crescendo dentro. Il suo sorriso
è tirato, le palpebre cerchiate da ombre di sonno arretrato. Molly lo riconosce
come uno degli Auror che erano presenti nell’Ufficio Indagini Rilevanti,
l’unico che abbia davvero ascoltato quello che Sherlock aveva da dire e non
finto educatamente di farlo, l’unico che, quando Madama Smallwood li ha mandati
via, li abbia seguiti con lo sguardo mostrando un’espressione di comprensione e
rammarico.
Sherlock parla di una
bizzarra creatura nella sua borsa che lei avrebbe introdotto clandestinamente e
illegalmente sul suolo britannico e del trambusto che ha causato nella Banca
d’Inghilterra; parla con certezza del suo viaggio nel Paese del Sol Levante,
anche se lei è più che sicura di non avergliene accennato. Parla e la
stanchezza sul volto grigio di Lestrade si acuisce fino diventare un peso
insostenibile. “Vediamo la creatura,” dice alla fine del resoconto e Sherlock assomiglia
ad una iguana del Guatemala.
Senza che lei possa
evitarlo, lui le sfila – ruba – la borsa e con fare drammaticamente plateale,
la apre. L’espressione dei presenti muta in maniera drastica: quella di
Anderson si contorce in una di maligna soddisfazione; quella di Lestrade in una
perplessa che presto cede il passo ad una di disappunto; quella di Sherlock è
frustrata; quella di Molly è una di orrore per le tremendamente problematiche
implicazioni che la nuova scoperta comporta.
Perché la sua borsa non
è affatto la sua borsa e l’interno
non custodisce il carico prezioso delle sue creature magiche, ma un set
standard di strumenti medici.
Oh, per tutti gli Ippogrifi!
N/A:
So cosa vi
state chiedendo. Siete lì davanti allo schermo e state meditando sul tempo
perduto e questioni sulla stessa falsariga. Cosa ho appena letto?
Per farla
breve, quello che è successo è questo. Due settimane fa ho visto per la prima
volta Animali Fantastici e dove trovarli. In quel periodo stavo scrivendo
contemporaneamente un paio di storie Sherlolly, i personaggi erano talmente
fissati nella mia immaginazione che, pur godendomi il film, il mio pensiero
ritornava continuamente e testardamente a loro. Ci pensavo, ci ripensavo e tra
me e me ho cominciato a fantasticare (e sì, quando comincio a farlo, i danni
sono assicurati) a un possibile crossover che poi è diventato invece una
trasposizione del film con completa sostituzione dei personaggi e
dell’ambientazione.
Nel caso in non
fosse chiaro, ecco un breve riassunto degli scambi avvenuti
Newt Scamander: Molly Hooper
Tina Goldstein: Sherlock Holmes
Jacob Kowalski: John Watson
Queenie Goldstein: Mary Morstan
Per gli altri,
mi dispiace, ma dovrete attendere i prossimi capitoli. Non voglio rovinarvi la
sorpresa ;)
Come sempre
incrocio le dita, sperando vivamente che questo tentativo pasticciato sia tutto
sommato qualcosa di gradevole da leggere e che vi abbia strappato un sorriso.
Un saluto a
tutti voi, vi auguro un fine settimana avventuroso!