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Autore: Marne    05/03/2017    3 recensioni
| Prequel di L'Erede del Male, può essere letta anche da sola |
Dal Testo:
Con delicatezza, Evan le portò l’indice sotto al mento, costringendola ad alzare il viso, e poi, semplicemente, si avvicinò fino a poter poggiare le labbra sulle sue. Un tocco lieve, gentile oltre ogni immaginazione, che si ripeté come se a sfiorarla ripetutamente fossero state le ali di una farfalla. Erano dolci, le labbra di Evan. Dolci come il vino di ciliegie.
«Tu sei la mia Dorcas» le disse, in un sussurro innamorato.

[Attenzione per possibili contenuti forti, la storia non vuole esaltare in alcun modo questo tipo di relazione]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dorcas Meadowes, Evan Rosier
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Malandrini/I guerra magica
- Questa storia fa parte della serie 'Heir Universe'
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Fresia.

 

 

“The way she tells me I'm hers and she is mine
Open hand or closed fist would be fine
The blood is rare and sweet as cherry wine.

[…]

But I want it
It's a crime
That she's not around most of the time”
.



[Hozier – Cherry Wine]

 

 

 

 

Era sempre stato bellissimo.

 

 

Non erano che bambini, troppo giovani per capire le discussioni degli adulti ma troppo grandi per restare nascosti dietro le gonne delle bambinaie. Era sempre così noioso, in quelle grandi magioni del Galles, quando le feste erano precluse e l’ora di andare a dormire era ancora troppo lontana. Lei era la più grande fra i suoi quattro fratelli, eppure non le era ancora permesso restare in salotto ed osservare le dinamiche bizzarre di quella società che si nascondeva dagli altri, ma che amava palesarsi con eccessi continui e feste riservate a pochi. Le piaceva sedersi sulla scalinata, la camicia da notte color panna troppo grande per le sue piccole spalle poiché la nonna continuava a ripeterle che presto sarebbe cresciuta, che l’avrebbe portata con sé ad Hogwarts come aveva fatto la sua mamma. Non le dava fastidio, le sembrava di indossare un abito elegante come quelli che aveva visto nelle foto di famiglia, quasi se fosse stata a sua volta invitata a quegli incontri segreti che i suoi genitori intrattenevano spesso con gli amici.

«Dovresti essere a letto» le aveva detto il bambino, apparendo dal nulla come un fantasma, le mani nascoste dietro la schiena ed i piedi nudi. Era così piccolo e magro da somigliare ad un asticello più che ad una persona. I suoi genitori erano stati invitati alla festa per la prima volta proprio quella sera, per questo ancora non lo conosceva bene. Emmeline aveva detto che le faceva paura, che era strano, ma lei non le aveva creduto. Anche Emmeline, dopotutto, era molto strana.

Si era accigliata, osservandolo con una certa curiosità. «Sono abbastanza grande per restare sveglia, la mia Tata lo sa. Dice che posso restare qui ad ascoltare la musica» gli disse, portandosi un ricciolo dietro l’orecchio. Sua madre avrebbe urlato allo scandalo, se avesse saputo che era finita a parlare con qualcuno senza neppure la vestaglia e con i capelli in disordine. «Tu cosa ci fai qui?».

Il bambino si era stretto a sua volta nelle spalle, aprendosi in un sorriso parzialmente sdentato che le aveva fatto battere forte il cuore. «Volevo provare ad andare di sotto. Non è giusto che loro si divertano mentre noi siamo costretti a dormire. Però sono stato scoperto dall’elfo e sono stato spedito di sopra» le spiegò, facendosi avanti di qualche passo ma senza affiancarla. «Posso restare qui? Voglio sentire la musica anche io» le chiese, indicando lo spazio sul suo stesso gradino. La sua voce si era abbassata, quasi si stesse vergognando, ma lei non ci fece caso.

Scosse il capo, indicando con un cenno il corridoio buio. «Tu non hai il permesso della Tata, non puoi restare qui. Farai meglio ad andare in camera, gli adulti si arrabbieranno trovandoti in giro» gli fece notare, cercando di mostrarsi gentile ma decisa, come sua madre le aveva insegnato.

Il bambino, improvvisamente a disagio, si dondolò leggermente su se stesso, senza tuttavia smettere mai di guardarla negli occhi. Le piaceva essere guardata, la faceva sentire meno insignificante, non più una fra tanti. «Per favore, fammi restare qui con te. Ho paura a tornare indietro, non mi piace il buio».

Lei non aveva più paura, ma ricordava quando aveva costretto sua madre a lasciare un fuocherello perpetuo all’angolo della sua camera. Forse i genitori di lui non conoscevano quell’incantesimo e non sapevano come tranquillizzarlo.

Non poteva certo abbandonarlo a se stesso.

«Siediti pure, allora, poi ti accompagnerò io, tanto fra un po’ dovremo comunque andare a letto» gli disse, sorridendo e dando dei colpetti allo spazio al suo fianco, incoraggiante. «Ai genitori non piace se al mattino siamo tutti mogi per colpa del sonno. La Tata dice sempre che bisogna avere misura nelle cose».

Lui le sorrise ancora, lasciandosi cadere per terra con un tonfo leggero ed avvicinandosi finché i loro gomiti non si toccarono. Dalle loro spalle, un sibilo cattivo spezzò la quiete ed il mormorio allegro proveniente dal piano di sotto, facendoli voltare giusto un attimo prima che una palla di pelo nero tentasse di avventarsi su di lui, spingendolo quasi giù dalle scale.

Il gatto si famiglia si chiamava Faustus, era una bestia sempre docile che non si era mai comportata male con i loro ospiti, in particolar modo se bambini. Quella volta, tuttavia, lei fu costretta a prenderlo per la coda e tirarselo in braccio, spaventata che potesse ferire quel bambino che era già tanto triste e magrolino. Lo rimproverò, quasi lanciandolo lontano, ma si ritrovò costretta a riacciuffarlo almeno un paio di volte prima che sembrasse decidersi a non far del male al suo nuovo amico.

«Non capisco perché faccia così, di solito è tanto buono» rifletté, ricambiando lo sguardo degli occhietti gialli che Faustus teneva ancora puntati su di loro dal suo posto fra le ombre. «Ti sei spaventato? Non ti ha fatto del male, spero».

Uno strano scintillio animò gli occhi azzurri del bambino, che tuttavia scosse le spalle e sembrò riprendersi. «Sto bene, tranquilla. Forse è geloso perché sei la sua padroncina. Molti animali lo fanno» le disse, accennando un sorriso estremamente triste. «Anche io vorrei un animale domestico, ma mio padre non vuole. Dice che io sono l’unica bestia che può permettersi di tenere in casa» aggiunse, con un tono imbarazzato che sembrò quasi spegnersi alla fine, quasi non avesse voluto far sentire le ultime parole.

Qualcosa di gelido si mosse nello stomaco di lei, che si portò una manina al petto mentre l’altra prendeva quella del nuovo compagno. «È una cosa bruttissima da sentire! Perché ti ha detto una cosa del genere? Tu non sei certo un animaletto e la tua famiglia non è povera» mormorò, ricordando le discussioni che sua madre e suo padre avevano avuto sulla famiglia di lui. Erano tanto ricchi, per questo erano stati invitati. Forse avrebbe fatto bene a dire loro di non invitarli più, se davvero il padre era stato tanto cattivo con quel povero bambino.

Lui sospirò, abbassando il capo senza tuttavia smettere di guardarla. «La verità è che non mi vogliono. Nessuno mi vuole» mormorò, con aria particolarmente patetica. «Dicono che sono un mostriciattolo».

Il cuore di lei si accartocciò in una pallina, sentendolo parlare in quel modo. Quale genitore avrebbe mai potuto dire cose simili ad un bambino tanto piccolo e carino? Le sembrava assurdo. Suo padre la chiamava “mio tesoro” e la mamma le ricordava sempre quanto si sentiva fortunata ad avere lei ed i suoi fratelli nella sua vita. Possibile che altri adulti potessero essere, invece, tanto crudeli verso il loro stesso figlio?

«Secondo me non sei un mostriciattolo» provò a confortarlo, dandogli dei gentili colpetti sulla mano, che poi lui strinse. Dalle loro spalle, un altro sibilo furioso lo spinse a mollare la presa. «Se vuoi possiamo essere amici, così non ti sentirai solo e potrai venire a giocare con me e con i miei animaletti» propose, cercando di imitare il tono che la Tata usava con lei quando era triste per qualcosa. Il modo in cui lui si illuminò la fece sentire leggera, importante. «Come ti chiami?».

«Io sono Evan. Evan Rosier, sono felice che tu sia mia amica».

«Io sono Dorcas Meadowes. Anche io sono felice che tu sia mio amico».

Estasiato, Evan si piegò di lato fino a poter poggiare la testa sulla sua spalla, ridacchiando fra sé e sé. Stava mormorando qualcosa molto simile ad un “mia mia mia mia cantilenato, ma lei non riuscì ad esserne certa. Faust, uscito dal suo rifugio, tentò ancora una volta di attaccarlo, riuscendo a graffiarlo malamente sulla guancia.

Servì la Tata per staccare via l’animaletto dal bambino, ma gli adulti non sentirono assolutamente nulla ed Evan non pianse neppure una lacrima, nonostante il sangue avesse iniziato a macchiargli la camicia da notte.

Il mattino dopo, nessuno riuscì più a trovare il piccolo gatto. Solamente tre giorni dopo, Morgan, il fratello più piccolo di Dorcas, lo ritrovò impiccato ad un albero e con il corpicino martoriato.

Mascalzoni babbani, fu la risposta dei signori Meadowes.

Forse se lo meritava, aveva aggiunto Evan, con un sorriso crudele, passandosi la punta dell’indice sulla cicatrice che sarebbe rimasta per sempre sulla sua guancia. Poi le aveva sorriso, prendendola per mano. Tanto lei era amica sua, ormai non aveva bisogno di un gatto.

 

 

Bellissimo, come un fiore.

 

 

Le aveva poggiato il capo sulle gambe, mentre riposavano all’ombra di una grande quercia. I giardini di Hogwarts erano immensi, soprattutto per dei bambini del primo anno come loro che, diversamente da tutti gli altri, erano soliti non muoversi in gruppo. Non avevano mai avuto paura di perdersi, avevano esplorato tantissimi posti nei tre anni in cui erano stati amici, avevano trovato tantissimi rifugi segreti e avevano sempre ritrovato la strada di casa.

«Se fossi stata una Serpeverde, non sarebbe successo» le stava dicendo, il tono solo leggermente accusatorio, guardandola negli occhi come era sempre solito fare. Evan diceva sempre che guardandola negli occhi riusciva a capire molto meglio cosa voleva e ad accontentarla, da bravo amico. Aveva ragione, naturalmente: le piaceva essere considerata così tanto, soprattutto da lui. «Alla fine, è tutta colpa tua».

Una fitta di senso di colpa la fece intristire, nonostante fosse consapevole di non essere direttamente implicata in ciò che era successo. Era stato Evan a picchiare quel ragazzo, non lei. Tuttavia, era anche vero che se lei fosse stata una Serpeverde – come lui, come tutta la sua famiglia – lui non avrebbe dovuto parlare con altri e non avrebbe litigato con quel bullo. «Mi dispiace, ma è stato il Cappello a scegliere».

Con un broncio adorabile, Evan incrociò le braccia al petto. «Come hai potuto lasciarmi solo? Credevo fossi mia amica» le disse, sinceramente triste, allungando la mano per darle un pizzicotto al braccio. «Ecco, questo è per penitenza. Così impari a mettermi nei guai. E ancora non ti ho perdonata!» mormorò, tirandosi a sedere per lanciarle uno sguardo cupo da oltre le lunghe ciglia scure.

Senza poterlo evitare, Dorcas si portò una mano al braccio ferito, sentendo ancora il dolore come se lui l’avesse appena colpita. Le aveva fatto male, probabilmente il giorno dopo si sarebbe svegliata con un brutto livido. Perché si era comportato in quel modo? Evan non era mai cattivo con lei, ma solo con chi lo trattava male o lo considerava strano e solo perché doveva difendersi, come tutti. Era stata cattiva con lui, abbandonandolo per seguire le indicazioni del Cappello?

Avevano promesso di stare insieme, eppure lei era andata via.

Gli occhi iniziarono a bruciare a causa delle lacrime che lottavano per fuggire. Era divisa fra l’irritazione verso di lui, che le aveva fatto male per una cosa che non aveva deciso, verso se stessa, perché non era stata abbastanza brava da finire in Serpeverde, e verso quello stupido Cappello, che aveva rovinato tutto. Se Evan non avesse più voluto rivolgerle la parola cosa avrebbe fatto? Non conosceva nessuno, erano stati talmente inseparabili da non voler legare con altri ragazzi delle loro Case.

Quasi spaventato da quella sua reazione, il bambino si fece avanti, abbracciandola stretta per qualche istante e staccandosi solo per poterla guardare negli occhi. Il suo sguardo era sincero, triste ma pieno di affetto. Lei adorava quegli sguardi, perché erano solo suoi. Non erano qualcosa che poi sarebbe toccata anche ai suoi fratelli o a chiunque altro: era lo sguardo speciale di Evan. «Non piangere, Dorcas, va tutto bene. Non dovevo perdere la pazienza con te, tu sei mia amica» la tranquillizzò, pulendole il viso. «Guarda, adesso ti do un bacio così non fa più male. Ho letto in una storia che di solito i Babbani fanno così, non sono divertenti?» provò a rallegrarla, piegandosi fino a poter posare le labbra sullo stesso punto che poco prima aveva pizzicato. «La mia Dorcas non deve mai piangere! Sei così carina quando sorridi» le disse ancora, allungando la mano per darle un buffetto delicato sulla guancia. Il suo sorriso era così dolce da farle stringere il cuore.

Non riuscì a non ricambiare, tirando su con il naso. Non le importava più quello che le aveva fatto, dopotutto era davvero un po’ colpa sua. «Mi dispiace averti lasciato solo, ma davvero io non avevo altra scelta. Saremmo finiti nei guai se non avessi fatto quello che diceva il Cappello» mormorò, tornando ad abbracciarlo per sentirsi, seppur solo in parte, rassicurata. «Tuttavia non dovresti prendertela con gli altri ragazzi, io sono comunque tua amica, non devi per forza stare con loro».

Con una risatina strana, Evan le accarezzò i capelli. Stava canticchiando qualcosa di molto simile ad un “mia mia mia” ripetuto come una litania. Molto strano, ma non per questo fastidioso. «Hai ragione, io posso stare con te» concordò, allegro. «La mia amica Dorcas, l’unica che mi vuole bene davvero e l’unica a cui io voglio bene».

Il cuore di lei sembrò sollevarsi. Evan non era più arrabbiato con lei. Come avrebbe potuto? Era la sua migliore amica. L’unica che non aveva stupidi pregiudizi. «Però dovresti davvero andare a trovare quel ragazzo in infermeria, per vedere come sta. Anche se non potevi sapere che non sapeva nuotare, non dovevi spingerlo nel Lago Nero1».

Il bambino si strinse nelle spalle, allungandosi per strappare via un fiore da poco lontano, probabilmente dei ragazzi del quarto anno lo avevano fatto apparire per esercitarsi in vista del compito di Incantesimi. Era una fresia bianca. «Tieni, questa è per te. Un bel fiore per la mia bellissima migliore amica, l’unica di cui io possa fidarmi» le disse, allungandosi per metterle il piccolo regalo fra i capelli e sorriderle. Il modo in cui la guardava negli occhi le faceva venire i brividi. «Non dirmi più cosa fare, però. Non mi piace, è una cosa che fanno sempre i miei genitori e loro non mi vogliono bene. Vuoi diventare come loro? Anche tu vuoi diventare cattiva?» le chiese, provocatorio, imbronciando le belle labbra. «Allora, Dorcas?».

I suoi genitori, che lo chiamavano mostro e non gli lasciavano tenere neppure un animaletto.

Scosse il capo così velocemente da far quasi cadere il fiorellino. «Io non voglio essere come loro. Io sono tua amica».

«Sì» si rallegrò Evan, allungandosi per darle un bacio sulla guancia, per poi scivolare con le spalle per terra e la testa di nuovo sulle gambe di lei, che gli accarezzò i capelli. «Tu sei la mia Dorcas».

 

 

Bellissimo, come il peccato.

 

 

«Non dovresti andare in giro con lui, Dor» la voce di Emmeline era gentile, così come il suo sguardo, ma la preoccupazione di fondo era piuttosto evidente. Loro due si conoscevano fin da piccine e prima di andare ad Hogwarts erano state inseparabili, così come con Evan – no, mai come con Evan, nessuno era come lui –, tuttavia cinque anni prima una era stata inviata a Grifondoro mentre Dorcas, con suo enorme raccapriccio, era finita in Tassorosso. Emmeline, però, era stata troppo gentile per rinfacciarle quella separazione: lei mentiva, così come mentivano i suoi genitori quando le dicevano di preoccuparsi perché, in fondo, non era poi una tragedia.

Bugiardi, tutti bugiardi.

«Perché mai non dovrei? È il mio migliore amico» le fece notare, piegando il capo di lato con evidente confusione. Sapeva bene che lei ed Evan non erano mai andati molto d’accordo, non da quella volta in cui lui le aveva tirato le trecce – lei l’aveva insultato, doveva pur difendersi, no? –, ma non riusciva a capire il motivo di quell’affermazione così improvvisa. «Emmie, non sarai forse gelosa?» azzardò, illuminata da quella possibilità, dedicando all’altra un sorriso estremamente divertito. «Anche tu sei la mia migliore amica, lo sai, non dovete fare una gara».

A disagio, la bionda abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Sembrava stranamente spaventata, anche se Dorcas non riuscì a capire il perché. Magari si vergognava di essere stata tanto cattiva verso il povero Evan. «Non è per questo, Dor» mormorò, sospirando e rialzando gli occhi su di lei, armati di una decisione che non aveva mai visto prima. «Lui va in giro con Mulciber, Dorcas. Mulciber. E con quel Piton tutto strambo. Non può essere una brava persona» sbottò, incrociando le braccia al petto e fissandola – non negli occhi, non come faceva lui – con un cipiglio battagliero. «Hai sentito cos’hanno fatto a Berenice Vane? È una cosa crudele, Dorcas».

Se era riuscita a mantenere un’espressione seria fino a quel momento era stato per paura che ci fosse una vera ragione dietro quella preoccupazione. Sentita la giustificazione di Emmeline, però, non riuscì a trattenere una risata che sconcertò l’amica. «Oh, Emmie, non essere sciocca! La storia di Vane è solo una diceria, in realtà lei e Mulciber sono fidanzati, li hanno sentiti scherzare insieme e tutti hanno pensato che lui e gli altri le stessero facendo del male. Ho parlato con Vane, mi ha assicurato che fosse tutto normale» spiegò, scuotendo il capo ed alzando gli occhi al cielo. Evan l’aveva avvertita, erano davvero in pochi a capire certi scherzi!

Emmeline allungò la mano per posargliela sulla spalla, guardandola con un’ansia che lei proprio non riusciva a spiegarsi. «Dorcas, cosa stai dicendo? L’hanno riempita di ferite e l’hanno torturata. Se ti ha detto che è tutto normale è solo perché ha paura, non lo capisci?» le chiese, scuotendola leggermente.

«Paura di chi? Del suo fidanzato e dei suoi amici?» domandò, accigliata ed incredula. Era assurdo che Emmeline credesse a certe sciocchezze, se davvero fosse successo qualcosa di così grave probabilmente i professori sarebbero intervenuti, invece nessuno era stato punito2. «Parli di loro come se fossero dei mostri, Em. Sono solo dei ragazzi, di cosa dovrebbe aver paura?».

Con uno scatto, Emmeline le posò anche l’altra mano sulla spalla, scuotendola con maggiore forza. «Di cosa? Quello che tu chiami suo fidanzato l’ha torturata con chi sa quale stregoneria nera ed il tuo amico l’ha fatta finire in infermeria! Vuoi sapere perché so che è stato lui?» le chiese, aspettando che annuisse prima di continuare. «Perché le hanno trovato petali di fresia dentro le ferite! Chi è l’unico che va sempre in giro con quel fiore attaccato al mantello? Rosier! Perché non capisci? Probabilmente ti sta solo usando per avere una bambolina con cui divertirsi quando non ci saranno altre vittime a disposizione!».

Contrariamente a quanto chiunque si sarebbe aspettato, Dorcas non si scandalizzò e non si spaventò, arrossendo invece con aria piuttosto emozionata. Evan aveva sempre una fresia, con sé, perché le ricordavano lei. Un bel fiore per la sua bellissima Dorcas, così aveva detto. Gli sembrava di averla sempre vicino, così non si sentiva mai solo. La sua Dorcas, che non dubitava mai di lui. Che andava oltre gli stupidi pregiudizi che sembravano perseguitarlo. «Mi deludi, Emmeline».

«Dor?».

«Credere a queste idiozie solo perché io preferisco passare il mio tempo con lui piuttosto che con te… è un colpo basso, soprattutto per una Grifondoro» commentò, sdegnata, liberandosi dalla presa della sua sconvolta ex amica e facendo un passo indietro. «Non rivolgermi la parola finché non sarai rinsavita, non ho intenzione di subire le tue cattiverie» sputò, guardandola con disgusto e recuperando la sacca con i libri.

«Dorcas, fermati! Lui è pericoloso, lui…».

Non ascoltò il resto della sua frase, perché non le importava. Con tutta la velocità di cui era in possesso si lanciò lungo le scale, certa che l’avrebbe trovato nel suo solito rifugio fra gli alberi. Era un posto che avevano trovato insieme ed a cui erano molto legati, nonostante Evan le avesse chiesto di non andarci se non con lui. Avrebbe dovuto evitare quella fuga improvvisa, forse, ma non avrebbe potuto aspettare che arrivasse l’ora di cena.

Ti sta solo usando.

Non credeva alle accuse di Emmeline, naturalmente. Lei ed Evan erano inseparabili, non c’erano dubbi sulla veridicità del loro affetto. Tuttavia il germe del sospetto si era impiantato nel suo cuore ed era certa che solo lui avesse le capacità per estirparlo. Non voleva mostrarsi diffidente, perché dal sospetto si sarebbe potuto sviluppare risentimento e, da lì, l’odio. Non era odio ciò che voleva provare verso di lui.

La prospettiva di arrivare ad odiarlo la spaventava più di qualunque altra cosa al mondo.

L’aria fresca del giardino le solleticò il viso accaldato, mentre correva in direzione del piccolo rifugio. Doveva aver attirato parecchi sguardi – fra cui, se aveva riconosciuto davvero la voce che l’aveva chiamata, quella di Remus Lupin – ma non le importava, perché, dopotutto, nessuno si sarebbe affaticato a seguirla.

«Evan?» chiamò, senza fiato, giunta a pochi metri di distanza dalla piccola radura. «Evan, sei qui?».

Dei fruscii e qualche sibilo nervoso precedettero di qualche istante la comparsa del ragazzo, ormai non più basso e smilzo com’era stato a otto anni ma decisamente più massiccio ed alto, che la guardò con allarme oltre che con rabbia. Forse aveva sbagliato a precipitarsi lì, magari lui era impegnato. E se non fosse stato solo? Avrebbe davvero portato qualcuno nel loro rifugio segreto?

Forse fu a causa della paura di essere rimproverata che le sembrò che il suo sorriso fosse tutto tranne che sincero. «La mia bella Dorcas! Cosa ci fai qui? Sai che non devi venire, se non siamo insieme» le disse, in un sibilo che non sembrò molto amichevole ma che tuttavia riuscì a mantenere la stucchevolezza che lo caratterizzava sempre, quando parlava con lei. Quando la guardò negli occhi, si irrigidì. «Dorcas, stai piangendo?» domandò, facendosi avanti per posarle le mani sulle spalle, proprio come aveva fatto Emmeline, e scuoterla con forza. Nella sua voce la rabbia era sparita ed era stata sostituita da preoccupazione. «Dimmi cos’è successo! Chi ti ha fatto piangere? Ti sei fatta del male? È stato Black, non è vero?» ringhiò, stringendo con tanta forza da farle male. Le sembrò quasi che avesse intenzione di strapparle via le braccia, tanto ferrea fu la sua presa.

«Evan… mi fai male» provò a dirgli, in un pigolio, sospirando sollevata quando lui allentò la morsa in cui l’aveva incastrata, senza smettere di scuoterla. Naturalmente non si sarebbe fermato finché lei non gli avesse risposto. «Non mi hanno fatto del male, ma…» in un attimo di dubbio – atroce dubbio, sapeva che avrebbe vinto prima o poi – preferì non dirgli nulla riguardo l’identità della sua interlocutrice precedente. «Delle persone hanno detto cose molto brutte sul tuo conto e su ciò che è successo alla Vane e io… io…». Singhiozzò, portandosi le mani al viso per nascondergli i suoi occhi. Non voleva che lui notasse la sua incertezza e pensasse che il suo affetto per lui fosse meno che sincero.

Dolcemente – forse troppo dolcemente – Evan le spostò le mani dal viso, carezzandole la guancia. «Cosa ti hanno detto? Sai dirmi chi è stato?» le chiese, dolce, accennando uno di quei sorrisi che l’avevano sempre fatta sentire preziosa. «La mia Dorcas non deve mai piangere, voglio sapere chi ti ha fatto del male così potrò far capire loro che non è una cosa che apprezzo».

Fu tentata di rivelargli tutto, davvero, ma il tarlo del dubbio era solo cresciuto da quando lui aveva iniziato a scuoterla. Non era una cosa sensata, lei sapeva che Evan non fosse cattivo, ma non riuscì a dire nulla su Emmeline. Era comunque una sua amica, non voleva che lui la prendesse ancora di più in antipatia. «Non so chi fossero, non li ho visti. So che non dovrei credergli, ma…» lasciò cadere le spalle, sconfitta, sentendosi sempre più sciocca per aver prestato attenzione a quelle stupidaggini.

Il dolore alla guancia arrivò con qualche istante di ritardo rispetto al rumore dello schiaffo e, per un momento, Dorcas si ritrovò a chiedersi cosa fosse successo e perché il suo viso si fosse ritrovato improvvisamente rivoltato dalla parte opposta. Le lacrime, che ancora non si erano asciugate sulle sue guance, tornarono ad affollarle gli occhi senza che quasi se ne rendesse conto. Poi, senza esitazione, le braccia di Evan la circondarono in una stretta dolcissima, un conforto immediato per un dolore che lui stesso le aveva inferto.

«Adesso siamo pari. Tu non ti sei fidata di me ed ora sei stata punita, così non dovrai più sentirti in colpa» le disse, con un sorriso immenso, piegandosi leggermente per posare le labbra sullo stesso punto che aveva colpito. «Ti conosco, mia bella Dorcas, so che probabilmente ti saresti scervellata per il rimorso, così ti ho aiutato. Sono stato gentile, vero? Adesso hai la coscienza pulita».

Questo è sbagliato, una voce di lei sembrò insorgere, stimolata dall’intorpidimento della guancia ferita. È sbagliato, strillò ancora, suonando pericolosamente simile alla voce di Emmeline poco prima, quando aveva tentato di spingerla a dubitare. Ma a cosa l’aveva portata, seguire le maldicenze dell’altra ragazza? L’aveva portata a stare male. Evan, invece, l’aveva aiutata, voleva che il suo malessere si concludesse. Evan la stava guardando negli occhi, lo sguardo colmo di quella sincerità che nessun altro sembrava volerle dare.

«Grazie» si ritrovò a mormorare, un sorriso che stancamente si affacciava alle sue labbra. «Scusa se ho dubitato, sono stata una sciocca» aggiunse, vergognandosi di se stessa e fissandosi le mani, indecisa su come comportarsi. Era stata perdonata? Erano ancora uniti come prima?

Con delicatezza, Evan le portò l’indice sotto al mento, costringendola ad alzare il viso, e poi, semplicemente, si avvicinò fino a poter poggiare le labbra sulle sue. Un tocco lieve, gentile oltre ogni immaginazione, che si ripeté come se a sfiorarla ripetutamente fossero state le ali di una farfalla. Erano dolci, le labbra di Evan. Dolci come il vino di ciliegie.

«Tu sei la mia Dorcas» le disse, in un sussurro innamorato. Lei si sentì cedere le ginocchia, tanto aveva atteso quel momento. «Mia, mia, mia» cantilenò ancora, stringendola a sé con maggiore forza, le mani improvvisamente non più sul suo viso ma sui suoi fianchi, sotto la camicia.

Avrebbe voluto allontanarlo, chiedergli di rallentare. Ma Evan non sapeva esprimere il suo amore se non con il suo corpo e lei non avrebbe mai potuto negargli qualcosa. Soprattutto, non avrebbe mai potuto negargli se stessa.

Importava davvero che dimostrasse le sue emozioni a parole oppure con il suo corpo? Un bacio, uno schiaffo… erano dolci allo stesso modo, per lei.

Il giorno dopo, Emmeline notò i segni sul suo collo e sui suoi polsi, ma non le disse nulla.

Non erano affari suoi.

 

 

Bellissimo, come il diavolo.

 

 

«Sei forse impazzito?» la sua voce salì di diverse ottave, mentre lo osservava giocherellare con una fresia che aveva appena fatto apparire in un vaso abbandonato, probabilmente superstite delle lezioni dei ragazzini del quarto anno. Lo aveva trascinato nell’aula vuota nel momento stesso in cui era riuscita a separarlo dai suoi amichetti del cuore. Erano passate ore da quando aveva saputo, ma solo negli ultimi venti minuti aveva trovato il coraggio di prenderlo da parte e fargli quel discorso che aveva elaborato nei minimi dettagli durante la lezione di Storia della Magia.

Come se nulla fosse, Evan le sorrise, incantevole, avvicinandosi per accarezzarle il viso e baciarla, dopo averle messo il fiore fra i capelli. Quando lei si scostò, lui si irrigidì, afferrandole il viso con forza per costringerla a star ferma. Non gli piaceva che lei rifiutasse le sue dimostrazioni d’affetto. «Cosa ti succede, Dorcas? Sei arrabbiata con me, anche se so di non averti fatto nulla» le disse, con voce melodiosa, rilasciando la sua mascella per sfiorarle la guancia con la punta delle dita. «È stato ancora il giovane Black? Ho detto a quel ragazzino di non importunarti più con le sue richieste, ma forse dovrò ripetermi, anche se odio farlo» mormorò, pensieroso, con un’espressione talmente strana da farla rabbrividire.

L’emozione che la colpì la sorprese per un istante, perché finalmente riuscì ad identificarla come paura. Terrore, addirittura, poiché finalmente riusciva a capire, a vedere cosa ci fosse dietro tutto il meraviglioso amore che lui le dedicava. «Non mettere in mezzo Regulus, lui non c’entra nulla» gli intimò, provando ad arretrare ma ritrovandosi bloccata dalle braccia di lui intorno alla vita. «Evan, dobbiamo parlare, fermati» gli disse, cercando di sfuggire ai baci con cui lui aveva iniziato a tappezzarle il collo. Il fastidio dato dallo sfregare dei denti di lui contro una zona particolarmente sensibile – c’era un livido in quel punto, nascosto dalla camicia, di cui lei si era vergognata incredibilmente e che aveva tentato in ogni modo di non far notare alle compagne – la aiutò a mantenersi abbastanza rigida da fargli perdere qualunque desiderio.

Evan la voleva reattiva. Fare l’amore con un manichino con gli interessava.

«Cosa succede, mia Dorcas? Che mi tocca fare per sapere cosa ronza per la tua bella testolina?» le chiese, con un sorriso che stentava a nascondere la sua irritazione. Le picchiettò un paio di volte sulla tempia, come a voler sentire se dentro ci fosse qualcosa. Era un modo di fare fastidioso che aveva preso da Mulciber, cosa che la indispose ancora di più.

«Cosa avete fatto a Mary McDonald? 3 Non provare a negare, vi ho sentiti riderne!» sbottò, facendo un passo indietro di prepotenza e mettendosi le mani sui fianchi. Non si illuse, naturalmente: sapeva di essersi potuta allontanare solo perché lui l’aveva permesso. «Cosa ti aveva fatto? Lei è una brava ragazza».

Evan si accigliò, per poi ridere. «È tutto un’esagerazione, Dorcas, rilassati. Non le abbiamo fatto niente di che, solo uno scherzetto innocente. Ma sai come sono quelle come lei, non riescono mai a divertirsi un po’» le disse, scuotendo il capo e liquidandola con un gesto della mano.

Per una qualche ragione, quella sua tranquillità le mandò il sangue alla testa. «Quelle come lei? E cosa sono, di grazia? Perché io non capisco a cosa tu ti stia riferendo» sibilò, incrociando le braccia al petto. La rabbia le faceva pulsare il cuore in modo strano, chiudendole lo stomaco come se fosse stata sul punto di vomitare. Non capiva come il suo Evan potesse mostrarsi tanto crudele verso qualcuno. Doveva esser colpa di quella compagnia assurda che si era trovato.

«Le sanguesporco» rispose lui, parecchio più irritato di prima. «È solo una sanguesporco, Dorcas, non capisco il motivo di questa tua reazione. Ci stavamo solo divertendo, come abbiamo sempre fatto. Fino ad ora non hai mai avuto problemi, mentre adesso stai diventando antipatica» la rimproverò, con il broncio, fissandola negli occhi con astio. «Lo sai che non mi piaci quando sei antipatica, smettila subito».

L’istinto le urlò di obbedire, di piegarsi ancora, perché lui non poteva essere arrabbiato con lei, non poteva smettere di volerla. Perché se lei non era di Evan, allora non sapeva cosa essere. Ma le urla di Mary erano ancora nitide nelle sue orecchie, così come la risata di Mulciber e di Piton e di Evan.

«Solo perché è una sanguesporco non merita di essere trattata in quel modo» gli disse, cercando di ingoiare l’orrore verso se stessa per quel suo ribattere in modo tanto scontroso. Non era normale, non era da lei, ma non poteva più farne a meno. «È una strega! Proprio come me! Non merita certo di essere torturata. Quando vi annoierete di lei cosa farete, verrete a torturare me?».

Gli occhi di Evan sembrarono congelarsi e, quando si fece avanti per prenderle il viso fra le mani, lo fece con uno scatto veloce e violento, facendole male. «Nessuno può alzare un dito su di te, Dorcas» forse voleva rassicurarla, ma non ci riuscì neppure un po’, facendola sentire come un animale in trappola. «Tu sei mia, solo io posso toccarti. Tu mi appartieni, non sei come quelle altre. Tu non sei sacrificabile». Si chinò per baciarla, passionale, quasi animalesco, strattonandola contro il muro.

Dorcas rabbrividì, per la prima volta mossa solo dal terrore più puro ed assoluto. Si sentì fragile, debole. Nella sua mente, le parole di lui si ripetevano come un mantra, non più con la stessa dolcezza con cui le avrebbe intese anni prima ma con quella stessa mania possessiva che gli altri dovevano aver sempre sentito e riconosciuto in lui. Lo allontanò, spingendolo via con abbastanza forza da coglierlo di sorpresa. Prima di staccarsi, le morse con forza il labbro inferiore, facendolo sanguinare.

Il dolore, per un istante, le fece tremare le ginocchia.

«Io non ti appartengo, Evan» mormorò, spaventata, arretrando velocemente fino a ritrovarsi con le spalle alla porta. «Come puoi dire una cosa simile? Come… sacrificabili? Per te le altre vite non valgono davvero nulla?» gli chiese, mentre le lacrime le appannavano la vista, colando copiose lungo le guance pallide. Tutti i lividi sul suo corpo iniziarono a dolerle insieme, quasi si fosse appena risvegliata da un torpore che le aveva impedito di percepirli, di comprenderli.

La furia che gli oscurò lo sguardo fu improvvisa e talmente dirompente da risultare dolorosa. «A cosa servono tutti gli altri? Io ho te, mi basti per essere felice. Nessun altro è necessario» sbottò, facendosi avanti di un paio di passi ma fermandosi quando si ritrovò la bacchetta di lei puntata contro il petto. La osservò, ferito, quasi lei lo avesse appena tradito. «Non capisci? Quando prenderemo il potere, tu sarai al mio fianco e saremo felici. Nessuno ci riderà dietro, nessuno tenterà più di separarci» le disse, la speranza appena percepibile dietro la furia più cieca.

«Il potere? Prenderemo?» ribatté invece lei, portandosi una mano a coprire la bocca, quasi avesse temuto di dire qualcosa di orribile. «Vuoi diventare uno di loro, non è vero? Vuoi diventare un Mangiamorte? Vuoi… vuoi combattere per Tu-Sai-Chi?».

Il mondo intorno a lei aveva iniziato a girare troppo velocemente, era come se qualcuno le avesse sottratto il suo centro di gravità personale, lasciandola a fluttuare senza alcun controllo, senza alcun potere. Tutti gli avvertimenti, tutte le suppliche che Emmeline le aveva rivolto… tutto aveva un senso.

Era tutto vero.

Ti sta solo usando!

No, quella era una bugia. Lo sapeva che era una bugia. Evan la amava, solo così avrebbe potuto spiegare tutto l’orrore nel suo sguardo, tutta quella disperazione nel sentire quanto lei fosse lontana dal suo pensiero.

«Il Signore Oscuro non ha pregiudizi, lui non ci separerà mai, non farà come tutti gli altri» le disse, allargando le braccia come se le avesse voluto mostrarle il mondo. «Nessuno ci riderà dietro. Saremo liberi, saremo felici e saremo insieme, nessuno si metterà in mezzo, cosa c’è di male in questo? Perché non è quello che vuoi?» le chiese, esasperato e distrutto, il tradimento come un peso calato sulle sue spalle. Sembrava tornato ad essere lo stesso bambino spaventato di cui lei si era perdutamente innamorata. Un bambino che aveva perso la strada e non sapeva più come tornare indietro.

Poteva salvarlo. Poteva aiutarlo. «Ti prego, Evan» lo supplicò, trattenendo a stendo un singhiozzo. «Non devi stare fra quei pazzi, non devi venderti a quel mostro. Emmie… Emmeline mi ha detto che il Preside potrà aiutarti, se lo vorrai…».

«Emmeline, dovevo sospettarlo» sibilò lui, balzando avanti per prenderla per le spalle e scuoterla con violenza. «Ti ha avvelenato la mente! Ti ha portata dalla loro parte» le disse, la voce ferita di chi avesse perso tutto. «Avevi promesso che non mi avresti mai lasciato solo, perché mi stai facendo questo? Potremmo essere felici!».

«Questa è una strada che io non posso seguire4» fu tutto ciò che lei gli disse, liberandosi della sua presa e risollevando la bacchetta per impedirgli di avvicinarsi. Aprì la porta, senza neppure guardare dove stesse mettendo i piedi. «Mi stai spezzando il cuore, Evan4».

Quando fuggì via, sentì distintamente il rumore di qualcosa che veniva distrutto, seguito da urla terrificanti.

«Sei mia! Sarai sempre mia!».

La fresia che lui le aveva messo fra i capelli, prima che tutto il mondo le precipitasse addosso, perse tutti i suoi petali mentre lei si lasciava andare fra le braccia dell’unica amica che le era rimasta.

 

 

Bellissimo, come la Morte.

Era suo, proprio come lei era sua.  

 

 

Sapeva di non essere semplicemente brava. Fra i suoi amici dell’Ordine, lei era l’unica a non aver mai riportato ferite di guerra, l’unica che sembrava non essere vista dai Mangiamorte. Sirius si era congratulato, dicendole che doveva essere meravigliosa per incutere un tale timore nei seguaci di Voldemort, ma Dorcas sapeva, non poteva fingere di non capire. Non era di lei che avevano paura, ma di chi si era eletto a suo eroe personale, dirigendo dei fili invisibili che avevano tessuto una tela di intoccabilità fra lei ed il mondo.

Durante la sua prima missione l’aveva incrociato, riconoscendolo nonostante la maschera. Aveva sentito il suo sguardo sulla nuca mentre scappava ed aveva sentito il suo urlo belluino quando qualcun altro – che poi aveva scoperto essere un Selwyn – l’aveva quasi colpita con un anatema. Tre giorni dopo, un gufo le aveva consegnato la bacchetta dell’uomo, con tanto di fiocco regalo e di fiore come firma. Nessuno avrebbe mai potuto evocare una fresia tanto bella in quel periodo dell’anno.

Naturalmente non aveva parlato con nessuno di quel suo piccolo segreto. Chi avrebbe capito? Emmeline avrebbe urlato, il Preside probabilmente avrebbe provato ad usarla per mettere in trappola Evan. Nonostante tutto, nonostante i titoli di giornale ed i cadaveri che lei stessa aveva riconsegnato alle famiglie, quella possibilità le sembrava assurda, poiché, anche se separati, l’idea che lui fosse vivo era ciò che la spingeva ad alzarsi dal letto la mattina. Non le importava che fossero su facce opposte della stessa medaglia, la sua esistenza era tutto ciò che le interessava.

Poteva ancora amarlo, seppur da lontano.

Evan non si era mai rassegnato alla loro separazione. Oltre a proteggerla, era solito mandarle piccoli regali, mai accompagnati da note scritte poiché, infondo, sapeva benissimo che non fossero necessarie. Che le mandasse dei fiori o i trofei dei suoi omicidi era irrilevante, era il modo in cui lui sapeva dimostrarle il suo amore e tanto le bastava.

«Dopo ciò che è successo ai Prewett, preferirei che nessuno di voi si spostasse da solo, formate delle coppie» ammonì Malocchio Moody, zoppicando per la stanza. La sua gamba era stata presa da un Mangiamorte misterioso quasi tre mesi prima. Dorcas aveva la sua scarpa nascosta sotto al letto, spaventata che lui potesse trovarla e ricollegarla a ciò che Evan gli aveva fatto. Avrebbe potuto costringerla a confessare ciò che sapeva o, peggio, avrebbe potuto arrestarla.

Se l’avessero rinchiusa, Evan sarebbe andato a prenderla con la forza.

«Siamo dispari» notò James Potter, indicando tutti gli altri. «Dorcas, puoi venire con noi, se lo desideri! Merlino sa se abbiamo bisogno di una bacchetta come la tua, in una situazione come questa» propose, allegro nonostante stessero andando praticamente nella tana dei cattivi, indicando se stesso e Sirius. Quest’ultimo, impegnato a sistemarsi i capelli guardandosi nello specchietto che portava sempre con sé, si limitò ad annuire leggermente. Dorcas non aveva stretto un grande rapporto con lui, le ricordava troppo Regulus e la brutta strada che aveva intrapreso e, naturalmente, le ricordava Evan. Diversamente da lei, Sirius era pronto a tutto contro il suo stesso fratello, mentre lei non riusciva a sopportare l’idea che qualcuno facesse del male all’amore della sua vita.

Moody grugnì qualcosa, scuotendo il capo. «Tre? Non si ottiene nulla uscendo in tre» disse, burbero. «Meadowes, scegli uno di quei due, l’altro andrà da solo» sbottò, indicando Potter e Black come se fossero stati due manichini in un negozio d’abiti. «Oppure puoi andare tu da sola, dopotutto sei la migliore».

«E non hai una moglie incinta a casa che morirebbe se ti succedesse qualcosa» si intromise Sirius, ridacchiando e dando una pacca sulla spalla al migliore amico. «Quanto a me, Alastor caro, posso sempre andare da solo» aggiunse, facendo l’occhiolino al vecchio Capo Auror, che gli lanciò uno sguardo a dir poco spaventoso.

«Tu non andrai da nessuna parte da solo. Meadowes, ti sta bene? Non dovrebbe esserci nessuno lì dentro, quindi non dovresti correre alcun rischio» ringhiò, voltandosi verso di lei con un qualcosa, negli occhi, che sembrava quasi una supplica. Dorcas ricordava il disastro che Sirius aveva combinato l’ultima volta in cui era stato mandato in missione da solo: uno come lui non dovrebbe mai essere lasciato a se stesso, la follia scorreva nella sua famiglia, gli sarebbe bastata una scintilla per diventare come sua cugina Bellatrix.

«Posso andare da sola» confermò lei, stringendosi nelle spalle. Dopotutto, si trattava di una semplice visita al vecchio maniero di Agatha Lestrange, abbandonato da quando il nipote più giovane – Rabastan – si era unito alla causa di Voldemort. Moody sospettava che in quel postaccio fossero state lasciate delle armi segrete del Signore Oscuro, armi così potenti da dover essere tenute separate da tutte le altre e che addirittura solamente Lui avesse la possibilità di avvicinarvisi senza rischiare nulla. Era un’occasione più che ghiotta per l’Ordine, soprattutto mentre la maggior parte dei Mangiamorte venivano attirati dall’altra parte del Paese, in una imboscata preparata mesi prima.

Moody annuì, soddisfatto, facendo cenno a tutti gli altri di disporsi sulle varie entrate. Dorcas sarebbe entrata per prima dalla porta principale, a detta sua la meno protetta e quindi la più sicura, ma avrebbe avuto tutti gli altri alle spalle, pronti ad intervenire in caso di necessità. «Sapete come contattare i vostri compagni, nel caso in cui doveste trovare qualcosa di interessante. Non fate gli eroi, non ne abbiamo bisogno» ammonì, fermandosi per poter evocare un incantesimo d’avanscoperta. Quello che sembrava essere un buffo animaletto peloso uscì dalle profondità della terra, avviandosi tutt’intorno al vecchio maniero insieme a tanti altri piccolini, che si diressero alle diverse entrate.

Quando niente saltò in aria, seppero con certezza che fosse giunto il momento di farsi avanti.

Silenziosi, i vari gruppetti iniziarono a sistemarsi alle spalle di Dorcas che, con un sospiro, si fece avanti per prima. Sapeva che gli altri sarebbero stati pronti a proteggerla, nel caso qualcosa l’avesse attaccata non appena aperta la porta, ma l’ansia fu comunque difficile da controllare. Dopotutto, non si fidava di nessuno di loro. Non era grazie all’Ordine se era ancora viva.

Raggiungimi, quando sarai pronta. Io ti aspetterò.

Erano state le uniche parole che Evan le aveva detto negli ultimi tre anni. Le uniche che aveva ritenuto abbastanza importanti da essere condivise a voce, sfidando qualunque rischio ed il buon senso. E lei ci aveva pensato, a quelle parole. Le aveva ripetute nella sua mente come un mantra, riflettendo su quanto le sarebbe piaciuto poter stare con lui, poter essere di nuovo insieme come da bambini. Ma come? Si era unita all’Ordine per combattere colui che considerava il peggiore dei mostri, l’amore per Evan non poteva essere superiore al suo senso del dovere. Non credeva in quella causa che lui aveva scelto di sostenere e la vita di centinaia di streghe e maghi valeva più del suo amore.

Però faceva male, così male che spesso la notte si era ritrovata piegata in due nel suo letto, come se qualcuno le avesse voluto strappare via il cuore dal petto.

La porta cigolò leggermente, quando la aprì, ma oltre a quel lieve rumore non ci fu nulla. Si voltò, per fare un cenno affermativo agli altri ed attese che sparissero tutti, prima di fare il suo ingresso, la bacchetta stretta in pugno e ben alta, per la prima volta consapevole che avrebbe dovuto difendersi da sola da qualunque pericolo fosse in attesa.

L’interno non era nulla di ciò che lei si era aspettata, poteva garantirlo. Era stato tutto tirato a lucido, i mobili non erano luridi e distrutti ma semplici e nuovi, il camino all’angolo acceso. Tutto era stato pulito alla perfezione, come se i padroni non fossero morti anni prima ma fossero ancora vivi e vegeti, presi dalle loro azioni quotidiane.

«Sei qui».

Nel tempo che impiegò per voltarsi in direzione del rumore, le labbra di Evan furono sulle sue in un bacio appassionato, innamorato come mai era stato prima d’allora e lei si sentì morire. Non era cambiato nulla fra loro, la stessa dolcezza che si erano scambiati da ragazzi era ancora lì, nascosta nella profondità dei loro cuori, in attesa soltanto di un momento come quello per poter fuggire, espandendosi nel loro petto come un veleno dolcissimo ed aspro al tempo stesso.

«Non credevo che avrebbe funzionato davvero» le disse ancora lui, spostandosi dalle sue labbra per poter strusciare il naso contro l’incavo del suo collo scoperto. «Silas5 mi aveva assicurato che sarebbe stato un giochetto da ragazzi, ma non mi sono fidato» continuò, così felice da sembrare tornato bambino, allontanandosi per poterla guardare negli occhi ma senza staccare le mani dai suoi fianchi. La bacchetta di lei era caduta, abbandonata nel momento stesso in cui aveva sentito la sua voce.

Era debole, con lui. Lo era sempre stata.

Con un lamento strozzato provò a liberarsi della sua presa, ottenendo solo che lui la stringesse di più. «Cosa… cosa vuoi dire? Silas? Mulciber è qui? Perché tu sei qui?» chiese, consapevole di non essere riuscita a riordinare le sue priorità in modo corretto. Avrebbe dovuto essere terrorizzata, eppure sembrava solamente curiosa, se non addirittura felice.

Gli occhi di Evan brillarono di entusiasmo. «Vi abbiamo attirati noi qui» le disse, allegro, allargando un braccio per indicare ciò che li circondava. «Sapevo che avrei dovuto accettare tutto il gruppo, pur di avere te. Non preoccuparti, gli amici si stanno occupando di tutti gli altri, ho detto di avere dei… conti in sospeso» le spiegò, accarezzandole la guancia. «Tranquilla amore mio, non abbiamo fretta. Possiamo stare qui quanto desideriamo, così potrai prepararti bene per conoscere l’Oscuro Signore e prestare giuramento. Sarà felicissimo di averti con noi, ne sono sicuro».

Dorcas, per vari istanti, non riuscì a far altro che fissare l’uomo in modo inespressivo, la sua mente faticava a tenere il passo, il cuore batteva così velocemente da sembrare quasi che non stesse battendo affatto. Alla fine, pose l’unica domanda che fosse riuscita ad elaborare. «Come facevi a sapere che sarei venuta qui? Che avrebbero mandato me da sola?».

Il sorriso di Evan crebbe. «Come ti ho detto, tutto merito di Silas. Moody è molto più debole di quanto non voglia far credere, quando si tratta di controllo mentale. Convincerlo che fosse una buona idea mandarti qui da sola è stato facile, per Mulciber, praticamente un gioco da ragazzi. Comunque io ero pronto a tutto, non ci avrei messo molto a liberarmi di qualche idiota» provò a rassicurarla, stringendola di più a sé. «Sapevo che saresti tornata da me, prima o poi. Ti sono piaciuti i miei regali?».

Regali.

Il peso di tutto ciò che aveva accettato, nel corso di quegli anni, si riversò improvvisamente su di lei. Bacchette, vestiti, souvenir di ogni sorta si erano accumulati sotto al suo letto, come i regali di un gattino discolo alla sua padrona. Lei li aveva accettati, senza pensare, senza capire cosa potessero davvero implicare.

«Evan, no» provò a dirgli, allontanandosi di un solo passo. Sapeva di essere impallidita, sapeva di avere l’espressione di un animale ferito, sapeva che lui non si sarebbe arreso per nulla al mondo. «Non posso seguirti. Io non sono venuta qui per te».

Lui sembrò non capire, continuando a fissarla come se avesse detto un’assurdità. «Certo che sei venuta qui per me. Non sei così stupida da credere che questa missione avesse un senso» le disse, piegando il capo di lato, come a volerla osservare meglio. «Mi chiedo come abbiano fatto gli altri a non notare che Moody si stesse comportando diversamente dal solito… se non morirà stanotte, sono certo che perderà del tutto la testa» si rallegrò ancora, stringendosi nelle spalle ed allungando la mano verso di lei, in un chiaro invito. «Coraggio, mia bella Dorcas, non fare quella faccia. Non devi aver paura, nessuno ti farà mai del male e nessuno ti obbligherà a far qualcosa che non desideri fare. Quando ti deciderai, sono sicuro che sapremo usare i tuoi talenti al meglio e allora non ti sentirai più fuori posto».

Ti sta solo usando, le aveva detto un giorno Emmeline, ma lei non le aveva creduto. Continuava a non crederle, con una parte del suo cuore, ma il dubbio ormai era stato piantato ed il dolore al petto non sarebbe passato neppure se lui avesse improvvisamente deciso di porre fine a quella follia e seguirla sulla giusta strada. Si era spinta troppo in là, non c’era più salvezza. «Evan… no» provò a dirgli ancora, sentendo un peso crescerle nel petto fin quasi a soffocarla. «Non posso unirmi a te, io non posso» sussurrò, portandosi una mano sulle labbra per impedire ad un singhiozzo di sfuggire al suo controllo precario. Sapeva che scappare sarebbe stato inutile, oltre che un gesto stupido. Pur di averla, lui aveva stregato il più grande Auror degli ultimi trent’anni ed aveva condotto a morte certa metà dell’Ordine della Fenice. Nulla lo avrebbe più fermato.

La presa ferrea sul suo collo arrivò nell’istante stesso in cui gli diede le spalle, fermandola in quel tentativo vano di salvare la vita che, in realtà, aveva perso anni prima, quando sulle scale di casa sua aveva incontrato quel meraviglioso e strano bambino. Lui la strattonò, avvicinandola al suo corpo così che le sue spalle aderissero al suo petto. Era un abbraccio unico nel suo genere, il miglior modo per rappresentare l’amore che c’era sempre stato fra loro due. Con un gesto brusco, la costrinse a camminare verso una stanza adiacente, dove era evidente lui avesse programmato di consumare quella passione che negli ultimi anni doveva aver soffocato a causa della lontananza: un meraviglioso letto di fresie rosse e bianche svettava nel piccolo spazio, circondato da candele.

Le si strinse il cuore a quella vista. C’era stato un momento in cui nessuno sarebbe stato più felice di lei, a quella vista.

«Lo avevo preparato per noi» le disse, con un sibilo cattivo, lasciando che le sue labbra le sfiorassero il lobo dell’orecchio prima di morderlo con rabbia, strappandole un rantolo di dolore. «Doveva essere il nostro rifugio, saremmo stati felici qui. Ma tu te ne vuoi andare» continuò, furioso, spingendola in avanti per farla cadere ai piedi del basso materasso ricoperto di fiori. Finalmente Dorcas riuscì a guardarlo negli occhi e, con sorpresa, notò quanto fossero annacquati. Evan stava piangendo per lei. «Io non voglio farlo, amore mio. Ma tu puoi impedirmelo» disse, cadendo in ginocchio davanti a lei, con la disperazione di un amante rifiutato. Le sue mani, quando le toccarono il viso, lo fecero con gentilezza infinita, come se stessero toccando la gemma più preziosa del mondo. «Fermami. Dimmi che hai cambiato idea, che resterai con me e che saremo felici. È tutto quello che abbiamo sempre voluto, non è vero? Che il mondo vada all’Inferno, finché saremo insieme nulla conterà davvero» mormorò, speranzoso, gli occhi come due stelle luminose. Ti prego, sembrava pensare. Ti prego, salvaci entrambi.

Ma Dorcas aveva già fatto la sua scelta.

Si avvicinò fino a baciarlo un’ultima volta, riversando in quel contatto tutto il rimpianto e la dolcezza che a voce non sapeva più come comunicargli, consapevole del rischio di poterlo illudere ma altrettanto certa che lui avrebbe capito ed avrebbe agito di conseguenza. Non c’era altra via di fuga, non per loro, non in quel mondo in cui sembravano esser destinati a fare tutte le peggiori scelte possibili.

Le sue labbra erano come il vino, inebriante e dolce, tuttavia aspro e pericoloso al tempo stesso. Lasciò che lui sfogasse tutta la sua disperazione, che approfondisse il contatto con rabbia, con fame, tirandole i capelli e mordendola come un animale ferito. Mia, mia, mia! Evan avrebbe potuto urlarlo, se avesse avuto la forza di separarsi da lei. Se avesse avuto la forza di guardarla negli occhi come aveva sempre fatto.

«Sarai sempre la mia bellissima Dorcas» le disse, quando si separarono, mentre puntava la bacchetta contro il suo petto. «La mia meravigliosa Dorcas, l’unica capace di capirmi. Mia e di nessun altro» mormorò, muovendo la sua arma ma senza dover pronunciare alcun incantesimo, avendolo usato così tante volte e su così tante vittime da farlo sembrare semplice, quasi una sciocchezza.

Abbiamo trovato altre vittime, tutte soffocate con delle fresie!

Fu doloroso, ma cosa poteva mai importarle? La ferirono di più i gemiti di Evan, un pianto senza lacrime costante come il lamento di una Banshee, l’addio di un amante all’unico amore della sua via. Mia, mia, mia! Continuava a ripeterlo, in una cantilena. Mia, mia, la mia Dorcas, si lamentava, e lei non poté far altro che ringraziarlo, mentre la vita le veniva strappata via da delle fresie che crescevano nel suo petto, appropriandosi del suo ossigeno.

Le ultime parole che avrebbe sentito sarebbero appartenute a lui. Le braccia che l’avrebbero compagnata nell’aldilà sarebbero appartenute a lui.

Lui, che era suo.

 

 

Quando Alastor Moody fece irruzione nella piccola stanza, Evan Rosier era ormai più che impazzito. Lo guardò, ridendo di se stesso o forse del fallimento di quel piano strampalato che aveva messo in atto al solo scopo di riabbracciarla per l’ultima volta.

«Ho ucciso l’amore della mia vita su un letto di fresie ed ora mi lascerò uccidere da te».

 

 

Il rapporto consegnato al Professor Silente e poi alla famiglia Meadowes spiegava come Lord Voldemort in persona avesse colto i membri dell’Ordine di sorpresa, uccidendo la giovane donna che era sempre sembrata intoccabile6. Non c’era riferimento alla tragica storia d’amore che Malocchio7 aveva visto consumarsi su un letto di fiori, non c’era riferimento ai regali trovati sotto al letto di Dorcas.

Evan Rosier, ricercato per svariati omicidi e sevizie, venne consegnato morto alla sua famiglia quella sera stessa, con il pugno chiuso su una fresia bianca macchiata di sangue non suo.

 

 

 

 

»Marnie’s Corner

 

Bentrovati e bentornati, cari amici di EFP!

 

Prima di tutto, ho una pagina facebook! Seguitemi per futuri aggiornamenti!

 

 

La tematica che ho scelto di trattare in questa One-shot (partecipante al Contest “When love is not enough” || an Hozier&tropes indetto da LVdevotee sul forum di Efp) è particolarmente attuale, così come particolarmente pericolosa.

La realtà in cui Dorcas vive è distorta, intossicata dalla presenza di Evan che, come spero si sia capito, è tutto tranne che sano di mente. Lei è debole, perché con lui finalmente è l’unica, non ci sono altri amici o fratelli con cui dividere l’attenzione e quella sensazione l’ha avvelenata fino a creare un muro fra ciò che gli altri vedono e ciò che lei vede.

L’amore fra lei ed Evan è un amore sincero, a modo suo, ma non per questo meno malato o meno pericoloso e mi auguro di esser riuscita a rendere bene entrambi gli aspetti!

La canzone, Cherry Wine, è stata fondamentale nella scelta del tema, considerando che essa stessa faccia riferimento a questo tipo di relazione abusiva.

 

Come spero sia ovvio, questa one-shot non vuole in alcun modo esaltare relazioni di questo tipo. Non è una storia alla Romeo e Giulietta, in cui gli innamorati vanno compatiti. Evan era malato e pazzo, Dorcas aveva problemi gravi. Ricordate, questo non è vero amore.

 

Punti importanti:

 

» 1 – Dopo la morte del gatto, la seconda grande cattiveria di Evan è stata quella di picchiare a sangue un ragazzo più grande e poi tentare di affogarlo nel Lago Nero. Non l’ha semplicemente “fatto cadere” in acqua ma ha usato la magia per impedirgli di riemergere. Non ci sono state prove, quindi Evan non ha ricevuto altro che una punizione.

» 2 – Il caso di Berenice Vane è fondamentale per la long-fic (L’Erede del Male) a cui è collegata la One-Shot. Berenice è stata la vittima prediletta di Mulciber e dei suoi amichetti, costretta ad essere la sua fidanzatina e, naturalmente, minacciata affinché non parlasse. Le prove delle torture non c’erano perché quei ragazzi erano fin troppo furbi per farsi scoprire. Berenice Vane ha sposato Mulciber ed ha partorito sua figlia, Elladora. È morta pochi anni dopo in circostanze che vengono rigorosamente nascoste dal Ministero.

» 3 – Stesso episodio che poi Lily userà contro Piton. Evan, Dorcas e Mulciber sono al settimo anno, mentre Severus è ovviamente più giovane. Nessuno sa con esattezza cosa abbiano fatto a Mary, ma non sono stati puniti perché troppo bravi a nascondere le loro tracce.

» 4 – Citazione più o meno libera da Star Wars – Episodio III, fatta da Padme ad Anakin su Mustafar.

» 5 – Silas è il nome di battesimo di Mulciber, che è un bravissimo Legilimante con una disgustosa passione per la tortura mentale, cosa che gli farà guadagnare la sua buona parte di fama. In parte è da qui che inizierà a guadagnarsi il nomignolo di Sandman.

» 6 – Voldemort non ha davvero preso parte a quell’imboscata. Mentre gli altri membri dell’Ordine affrontavano dei semplici Mangiamorte, Moody si è liberato ed è andato a cercare Dorcas. Scoprendo quel terribile segreto, ha preferito raccontare che ad ucciderla fosse stato Voldemort, salvandole la reputazione.

» 7 – Malocchio perché, come Moody stesso dirà, Rosier gli porterà via anche l’occhio prima di essere ucciso. Quindi se fino a quel momento era solo “Alastor Moody”, poi è diventato ufficialmente Malocchio. Come Evan aveva pronosticato, l’esser caduto vittima del controllo mentale di Mulciber l’ha reso completamente folle e paranoico.

 

Per altre comunicazioni/anticipazioni/esaurimenti nervosi, vi aspetto su facebook!

 

 

Grazie ancora a chiunque leggerà,

-Marnie

 

   
 
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