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Autore: rossella0806    06/03/2017    2 recensioni
Regno di Sardegna, gennaio 1849.
Costanza Granieri si è svegliata per l'ennesima volta spaesata e affranta: da quando si è trasferita in città, lontano dalle sue abitudini e dai suoi affetti, la notte non riesce a dormire.
L'unica cosa che desidera è ritornare alla vita di prima, nel paese di montagna che l'ha vista crescere: la sua sola consolazione risiede nella corrispondenza epistolare che intesse con la nonna materna, influente donna della comunità che ha dovuto abbandonare.
Sullo sfondo delle vicende della famiglia Granieri e dei Caccia Dominioni, in mezzo a personalità nobili e giovani rivoluzionari, va in scena la battaglia della Bicocca, combattuta nelle campagne novaresi il 23 marzo 1849, tra lo schieramento dei piemontesi e quello degli austriaci, nemici giurati di un intero popolo.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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Erano arrivate nella tarda mattinata di sabato 22 marzo 1879, una giornata tiepida e caratterizzata da una brezza mite che preannunciava l’arrivo della primavera alle porte: avevano preso alloggio presso l’Albergo Italia, una costruzione molto elegante e dagli arredi ricercati, che si affacciava sulla piazza del duomo.
Il viaggio in carrozza fino alla stazione di Arona era stato piuttosto breve e per nulla faticoso, mentre il tragitto in treno si era rivelato rumoroso e fin troppo veloce, non permettendo di ammirare al di fuori dei finestrini il paesaggio lacustre che si mescolava a case, alberi e campi, in una danza vorticosa e quasi demoniaca, aggravata dal fumo nero e denso del carbone che usciva dalla ciminiera del locomotore.
Quel pomeriggio, dopo aver pranzato ed essersi riposate, Costanza aveva portato Elena a fare un giro turistico della città: la donna più grande aveva trovato una città completamente cambiata e rinnovata in quasi trent’anni della sua assenza, tanto da non riuscire a riconoscere i pochi posti che avevano fatto da sfondo al periodo in cui aveva soggiornato a Novara.
Palazzo Caccia Granieri era stato venduto molti decenni prima, quando don Armando e donna Luisa si erano trasferiti a Santa Maria Maggiore, dove tutt’ora, all’alba dei settant’anni, vivevano: la dimora di famiglia era passata di mano ad una sconosciuta coppia borghese, le cui trattative di vendita erano state concordate dal primogenito Nicolò; palazzo Caccia continuava a stagliarsi in prossimità del centro, sobrio e signorile come se lo ricordava, ma le appariva estraneo e desolatamente chiuso: nessuna presenza umana, infatti, calpestava da tempo gli eleganti pavimenti di marmo e in parquet, né voce alcuna si sentiva risuonare tra le stanze sapientemente affrescate.
Tutti i bei momenti che ho vissuto lì dentro fanno ormai parte del passato, e non torneranno…
Le sembrava quasi di violare un luogo sacro, divenuto preda dell’incuria e delle cascate di edera rampicante, che sfacciatamente soffocavano i muri, per questo preferì non sostare ulteriormente.
La coppia di turiste proseguì dunque nel loro tragitto, e pochi minuti dopo si soffermò davanti all’edificio che una volta ospitava l’ufficio di don Armando, anch’esso preso in affitto da estranei molti anni prima: già ad una superficiale occhiata, corso Sempione si presentava modernizzato, colmo ad ogni angolo di negozi di pasticceria e di locali eleganti in cui le signore si trastullavano a sorseggiare tè caldo o cioccolata, mentre la chiesa della Santissima Trinità al Monserrato era stata abbellita da un geometrico timpano che ne sovrastava la sommità, e che la faceva apparire ancora più maestosa.
Costanza portò la ragazza in pieno centro: entrarono meravigliate nella Basilica di san Gaudenzio, ora completata dal cupolino che la faceva assomigliare ad una delle moschee orientali, e rimasero sedute ad ammirare la vertiginosa altezza delle pareti e del soffitto magistralmente decorati*.
Uscirono e si incamminarono verso il Circolo dei giovani aristocratici, dove suo fratello Nicolò amava trascorrere intere giornate a discutere di politica: sebbene all’esterno l’edificio apparisse immutato, una sana curiosità le imponeva di affacciarvisi, ma subito si rese conto dell’assurdità di ciò che aveva pensato, dal momento che era un ritrovo ad uso esclusivo degli uomini.
Quando poco dopo si ritrovarono a costeggiare l’albergo svizzero, un brivido scosse le spalle di Costanza: nonostante le pareti si fossero ingrigite e tinte di un indecifrabile giallo rossastro, testimonianza di varie scrostature che avevano danneggiato l’intonaco, la donna manteneva ancora ben vivido il ricordo di quei giorni di marzo inoltrato, quando era andata a supplicare Nicolò di lasciare l’Armata Sarda e di far ritorno a casa; riusciva a rammentare perfettamente il furore e l’alterigia che trapelavano dai suoi occhi, il vociare indistinto e molesto degli ufficiali, i tavolini apparecchiati per l’imminente pranzo, il breve colloquio con il tenente Chiusano… esperienze e ricordi che avevano solamente il potere di incupirla.
“Vi sentite bene?” Elena appoggiò con tenerezza una mano sul braccio della sua accompagnatrice, la quale si sistemò meglio la mantellina marrone e annuì nella maniera più convincente possibile.
Proseguirono a braccetto, soffermandosi davanti a qualche vetrina, quindi oltrepassarono il Teatro Nuovo, vicino al quale era stato costruito nel 1855 il Teatro Sociale, luogo di incontro per ballare: a pochi metri di distanza, il negozio di sartoria della signora Leviani, quello in cui l’ex signorina Granieri aveva comprato l’abito di seta blu cobalto per il suo debutto in società il giorno in cui era stato denunciato l’armistizio tra Piemontesi e Imperiali, si era ingrandito e pullulava di dame che si affaccendavano a scegliere stoffe e accessori da sfoggiare al prossimo ballo che si sarebbe tenuto in qualche dimora altolocata.
Davanti a loro, non troppo lontano, oltre piazza Castello si affacciavano le Regie Carceri Mandamentali, e di nuovo, come era successo di fronte all’albergo svizzero, Costanza ebbe un tuffo al cuore: quel luogo era stato fonte della sua angoscia, quasi quanto l’ospedale* in cui era stato ricoverato l’adorato fratello, un’angoscia profonda e cupa, che nei primi di maggio del 1849 l’aveva fatta sprofondare in un abisso di tristezza.
Erano infatti i giorni in cui il conte Pietro Caccia, il cugino che tanto si era prodigato per lei e la sua famiglia, si trovava rinchiuso nei sotterranei del castello Sforzesco, in balìa di una imputazione per tradimento ai danni del sovrano e della patria, che avrebbe potuto trasformarsi in una condanna assai dannosa per la sua incolumità.
Dopo il duello con Federico, l’altro cugino, il ferimento ad una spalla e ad un ginocchio, Pietro era caduto preda di un torpore durato quattro giorni, un torpore dettato dalla febbre alta, diretta conseguenza delle lievi infezioni che erano derivate dalle ferite subite.
Venerdì 4 maggio, il giorno prestabilito per l’interrogatorio, Pietro era stato condotto dall’infermeria alla stanza adibita a sala udienza, il corpo ancora debole: qui, il tenente della Guardia Civica che lo aveva arrestato e che era stato incaricato di svolgere le indagini, aveva appena cominciato a porgli le prime domande di routine, quando un soldato semplice irruppe nel locale e consegnò una busta sigillata all’ufficiale.
L’uomo guardò l’imputato, al cui fianco si stagliava la figura rassicurante e caparbia di Eugenio Maffucci, amico ed avvocato del conte, quindi ruppe il sigillo di ceralacca e tirò fuori un foglio di carta, che aveva tutta l’aria di essere una lettera.
Passò qualche secondo, forse un minuto, poi il tenente fece cenno al soldato che gli aveva portato la misteriosa comunicazione di avvicinarsi: bisbigliò qualche parola all’orecchio, poi l’altro annuì ed uscì sull’attenti.
Poco dopo il ragazzetto tornò in compagnia di un capitano, un sessantenne alto e massiccio, e dai folti baffi bianchi: i due ufficiali confabularono ancora per un istante, fino a quando il più anziano si allontanò ed uscì di scena, lasciando la parola al tenente.
Nel frattempo, nel cortile del castello, Costanza e il maestro Paolo Rossini, l’insegnante di musica che era diventato un punto di riferimento per la giovane, attendevano pieni di speranze e di ansia il verdetto parziale dell’interrogatorio: erano ben consapevoli che la difesa preparata da Eugenio non fosse abbastanza solida per scarcerare da ogni accusa Pietro, tuttavia dovevano e potevano aggrapparsi a quell’unica possibilità, ovvero all’arringa del valido avvocato, dal momento che i biglietti che la ragazza aveva trovato nella camera da letto di Federico erano prove insufficienti –se di prove si poteva parlare- da mostrare in un eventuale processo.
In quel mentre, Maffucci uscì da una delle porte in legno massiccio, e sorrise andando loro incontro:
“E’ salvo, è salvo!” riusciva solo a ripetere, mentre abbracciava i due amici.
La missiva che era giunta durante l’interrogatorio, infatti, scagionava Pietro da qualsiasi accusa mossa nei suoi confronti, e lo liberava seduta stante: in realtà, a nessuno fu permesso di leggerne il contenuto, ma tanto bastava per tirare un sospiro di sollievo e preparare il rientro a casa del cugino.
Un’ora più tardi, il conte Caccia, ancora zoppicante e con una lieve febbricola, fu scarcerato: Rossini propose di farlo soggiornare per qualche giorno nel palazzo della nobildonna che lo stava ospitando negli ultimi due mesi, dal momento che l’uomo doveva riprendersi dai recenti avvenimenti e, soprattutto, don Aldo e la contessa Rosa non sapevano ciò che era accaduto al primogenito: lo credevano infatti lontano per questioni economiche circa alcuni possedimenti da amministrare, come Federico aveva abilmente propinato ai genitori.
Sebbene nessuno volesse parlarne apertamente, la ragazza e i tre uomini sospettavano che dietro quell’improvvisa liberazione ci fosse proprio lo zampino di Federico, la stessa persona che aveva denunciato il fratello.
Nonostante fossero passati trent’anni, Costanza continuava a provare verso di lui un’avversione profonda, che rasentava l’odio, l’opposto della dolorosa consapevolezza che aveva spinto il maggiore a cercarlo inutilmente: si erano infatti perse le sue tracce la sera stessa della scarcerazione di Pietro, quando il secondogenito aveva preparato i bagagli in tutta fretta e aveva scritto una lettera ai genitori, in cui diceva loro di non preoccuparsi, che doveva allontanarsi per qualche mese per via di certe questioni amorose che gli erano sfuggite di mano, e che si sarebbe riparato in Svizzera; poi da lì, se fosse stato necessario, sarebbe partito alla volta della Francia, ma avrebbe fatto avere al più presto sue notizie.
A parte la disperazione iniziale dei generosi conti, il figlio scrisse regolarmente ogni mese, senza mai specificare dove si trovasse: la busta, infatti, recava solamente l’indirizzo del destinatario, nessun riferimento al mittente e nessun timbro che potesse far risalire alla città in cui era stata imbucata.
Mentre meditava su tutto ciò, Costanza rifletté che adesso il cugino avrebbe dovuto avere cinquantasette anni, tuttavia dopo la morte del padre, cinque anni prima, nessuno aveva ricevuto altre lettere da parte dell’uomo.
“Possiamo andare?” Elena risvegliò dai ricordi la donna, che fu subito pronta a proseguire verso l’ultima tappa, corso di Porta Genova, dove sapeva da Nicolò che Eugenio Maffucci abitava quando soggiornava in città.
Il palazzo di inizio secolo appariva ancora elegante e ben tenuto, tuttavia il terzo piano aveva le finestre sprangate: Costanza bussò alla porta un paio di volte, ma non vi fu risposta, quindi si allontanò sconsolata, ritornando con la sua accompagnatrice alla vettura che le avrebbe riportate all’albergo.
In realtà, a distanza di un anno dagli avvenimenti narrati, l’uomo si era trasferito a Firenze e poi a Torino, dove si era affermato come magistrato; nel 1877, inoltre, a cinquantotto anni, si era sposato con una donna molto più giovane di lui, che assomigliava incredibilmente a Costanza: l’ex avvocato, infatti, aveva avuto un debole per la ragazza fin dal loro primo incontro, ma non le si era mai dichiarato apertamente, tanto che quando nel 1852 la sorella di Nicolò si trasferì definitivamente a Santa Maria Maggiore e prese ad abitare in un’ala di palazzo Mellerio insieme all’adorata nonna Maria, l’uomo lo prese come un gesto del destino, e lasciò perdere ogni interesse fisico nei suoi confronti.
Quello stesso anno, la signorina Granieri divenne la baronessa Andreoli, dal momento che sposò il barone Elia Andreoli, un nobile di un paio d’anni più grande di lei: nel 1854 nacque la loro prima figlia, Margherita, nel 1856 fu la volta di Odoardo e nel 1861 di Elena, la terzogenita che aveva portato con sé in quel viaggio della memoria.
Adesso Costanza aveva quarantotto anni, era una donna raffinata e generosa, presidentessa delle medesime istituzioni caritatevoli che aveva fondato la marchesa Maria, deceduta dieci anni prima: si poteva definire largamente soddisfatta dell’esistenza che aveva vissuto e che stava vivendo, tuttavia avrebbe voluto che tutti i suoi affetti non si fossero allontanati come invece era accaduto.
A partire da Nicolò, ormai cinquantacinquenne, che era diventato un discreto scrittore a Parigi, dove si era trasferito nel 1851: dopo mesi, infatti, aveva recuperato completamente la vista, grazie anche all’intervento a cui era stato sottoposto in una clinica privata svizzera, si era riavvicinato al suo amico ed ex commilitone Stefano Gardina, e aveva continuato ad interessarsi di politica, sebbene in maniera meno diretta e pericolosa.
Non si era mai sposato, anzi, ancora viveva come un libertino parsimonioso ed idealista, ma amava sinceramente la sua famiglia –soprattutto la sorella- e non aveva perso di vista Eugenio Maffucci, con il quale sovente si incontrava.
Lo stesso aveva fatto Pietro, un sessantenne scapolo sempre in giro per il mondo, con la passione per la natura, tanto da diventare esploratore: si era trasferito anni prima in Inghilterra, dove aveva conosciuto un certo Charles Darwin, con cui aveva svolto studi sull’evoluzione ed era partito alla volta di numerose quanto esotiche destinazioni.
Al rientro in albergo, il sole ormai stava calando: affacciata alla finestra della camera, mentre Elena si preparava per la cena, Costanza proseguì a ritroso il viaggio che si era imposta di fare, e subito ritornò a pensare a Pietro: erano quasi tre anni che non lo vedeva, da quando era tornato dall’India.
Dal momento che palazzo Caccia era stato venduto dopo la morte di don Aldo e della contessa Rosa, avvenuta rispettivamente a novantatré anni nel 1874 e a ottantotto anni nel 1878, il cugino era stato invitato a Santa Maria Maggiore, a palazzo Andreoli, per una cena in suo onore.
Vi era stato un tempo in cui la baronessa era convinta di provare una forte attrazione per l’uomo, quasi una passione amorosa, e anche nei rari momenti in cui avevano la fortuna di continuare ad incontrarsi, le appariva difficile sostenere lo sguardo limpido dei suoi occhi azzurri.
Parlavano di letteratura, di pittura e di fiori, sentendosi perfettamente a loro agio, ed era naturalmente affascinata dalla padronanza e dalla scioltezza con cui narrava le abitudini e i popoli di terre lontanissime e sconosciute, tanto da permetterle di sfiorare con la mente quei luoghi.
Ma quelle erano state solamente delle convinzioni giovanili e passeggere, aveva cercato di convincersi, che non erano sfociate in nulla di fatto.
E per la prima volta da quando aveva deciso di partire, Costanza non riusciva a confessare a se stessa il motivo sottinteso che l’aveva spinta a ritornare a Novara: certo, il giorno dopo ci sarebbe stata l’inaugurazione della Piramide monumentale, lo aveva letto sul giornale del marito la settimana precedente, tuttavia la verità era che ciò che era accaduto in quella stessa città nei giorni di fine marzo 1849, l’aveva talmente scossa da non riuscire a condividerne il ricordo con nessuno, solo con la carne della sua carne, appunto con la piccola Elena, anch’ella diciottenne come lo era lei durante le settimane burrascose di trent’anni prima.
Era un evento che sentiva di appartenerle intimamente, al punto tale di aver ingannato il buon Elia, al quale aveva detto che sarebbe andata a trovare un’amica di vecchia data: in ventisette anni di matrimonio, non aveva mai mentito al consorte, e questa consapevolezza la destabilizzava non poco.
Improvvisamente si sentì stanca, affranta, disorientata, tanto da domandarsi se avesse fatto la scelta giusta a ritornare nei luoghi che le stavano provocando così tanta sofferenza.
“Madre, io sono pronta… Andiamo?”
Elena le toccò con delicatezza una spalla: Costanza si voltò e ammirò la figlia in tutto il suo splendore, dimenticandosi dei dubbi che l’avevano assalita pochi istanti prima.
Notò con soddisfazione che somigliava a lei alla sua età: gli stessi capelli lunghi e ricci, il medesimo volto affilato e la stessa bocca carnosa, solamente gli occhi non erano verdi ma tendenti al grigio, come quelli del padre.
La abbracciò, scostandole una ciocca rimasta fuori dall’acconciatura, poi uscirono mano nella mano, orgogliosa della ragazza e felice che non avesse dovuto patire ciò che lei aveva subito.


Alle dieci della mattina seguente, le due donne avevano già raggiunto la sede della manifestazione nel quartiere della Bicocca, un’area colma di campi coltivati, distese d’erba e cascinali per il ricovero di cavalli e contadini, innaffiata dalle sorgenti del torrente Arbogna.
Vi era una nutrita folla che sostava in piedi, perlopiù formata da ufficiali, soldati e commilitoni ora in congedo, che discutevano animatamente tra di loro; uno sparuto gruppo di rappresentanza stava intrattenendo gli ospiti illustri, ovvero il Prefetto, il sindaco, il vescovo e parte degli esponenti del Consiglio provinciale, oltre ad una delegazione proveniente da Roma, la capitale**.
I giornali davano per certo l’arrivo del duca Genova, Tommaso Alberto Vittorio di Savoia, nipote del defunto Vittorio Emanuele II**.
La baronessa si guardò intorno, alla ricerca di qualche volto amico, rendendosi conto di quanto fosse vuota quella speranza, dal momento che in quella città non frequentava più nessuno da molti, forse troppi anni.
Lei e la terzogenita si fecero largo in mezzo ad un gruppetto di nobildonne, probabilmente le mogli degli ex soldati, e si avvicinarono ai cannoni con il vessillo del Regno d’Italia posto alla sommità, pronti a sparare a salve al momento opportuno.
Le armi erano protette da alcuni membri della Guardia Civica a cavallo, fieri nelle loro alte uniformi, e sorvegliavano con impassibile ed immutato sguardo le mosse di Elena, che ammirava la lucentezza di quei pezzi di artiglieria.
Costanza ne approfittò per avvicinarsi di qualche passo in direzione della solenne costruzione a forma di piramide, l’Ossario monumentale, che conservava i resti umani dei caduti piemontesi ed asburgici della battaglia del 23 marzo 1849. Dalla sua postazione, riusciva ad intravedere l’aquila in bronzo con due corone di alloro tra gli artigli, che sovrastava la porta di ferro e vetro che fungeva da ingresso: vi era anche una scritta collocata su una tavola in marmo, ma la distanza non le permetteva di leggerne le parole***. 
In mezzo a tutta quella folla che la sfiorava appena e l’accarezzava con sguardi disinteressati, Costanza si sentì all’improvviso sperduta ed estranea: avrebbe tanto voluto che accanto a lei ci fosse almeno Nicolò, ma aveva compreso il suo desiderio di non partecipare alla manifestazione, per timore che ciò rappresentasse un rinnovato dolore a rivivere quel fatidico giorno.
Nel mentre, le sembrò di scorgere la figura nera e dinoccolata del maestro Rossini, ora ottantenne e ricoverato in un ospizio per ex musicisti, e sorrise tra sé e sé a quell’idea assurda: era da quasi un mese che non andava a trovarlo, e decise seduta stante che appena rientrata a Santa Maria Maggiore sarebbe andata a fargli una visita ad Orta, dove appunto soggiornava da una decina di anni.
Costanza stava andando a recuperare la figlia, dal momento che le fanfare stavano risvegliando l’attenzione dei presenti per indurli a mettersi sull’attenti al momento dell’esecuzione dell’inno, quando la baronessa si sentì toccare un braccio, una vibrazione gentile, quasi timida.
La donna si voltò e si rese conto di trovarsi di fronte ad un volto che aveva già visto, ma che ormai da decenni non incrociava: gli occhi erano sempre neri, profondi, interrogativi, forse un po’ più acquosi di come se li ricordava; i capelli erano più corti e meno neri, però quei baffetti irriverenti –seppure ingrigiti dal tempo- restavano inconfondibili nella sua memoria.
Costanza sorrise al nuovo venuto, gli strinse una mano, e poi si abbracciarono, mormorando l’uno il nome dell’altra: in mezzo alla confusione che stava velocemente scemando, cercarono di parlare sottovoce per non disturbare.
L’uomo le chiese se fosse venuta da sola, ma la baronessa gli rispose che era in compagnia della figlia Elena, a pochi passi da loro.
“Io invece non ho accompagnatori: la mia dolce metà è rimasta a Torino, così non so con chi trascorrere il resto della mattinata… A proposito, cosa ne dite se più tardi andiamo a pranzo insieme? Mi fermerò in città per qualche giorno e mi farebbe piacere riprendere la nostra vecchia amicizia, cara Costanza”
“Non chiedo di meglio: abbiamo molte cose di cui discutere, e sono contenta di poter passare del tempo con voi”
“Molto bene! Allora portatemi a conoscere la vostra Elena: Nicolò mi decanta la bontà e l’intelligenza dei nipoti come se fossero suoi figli!”
Lei gli sorrise ed annuì orgogliosa e felice: era da tanto tempo che non incontrava un volto amico.

 

 

NOTE STORICHE E DELL’AUTRICE


Costanza si ritrova a passeggiare per le vie di una città molto diversa da come se la ricordava.

Nel 1854, ad esempio, venne costruita la caserma Perrone, intitolata al generale deceduto nella battaglia della Bicocca, e sempre nello stesso anno la stazione ferroviaria, all’interno di un’arena immersa in un giardino.
Tra il 1856 e il 1864 venne ampliato l’ospedale: l’architetto Antonelli mise mano alla costruzione di una nuova e imponente ala, grazie alla generose elargizioni da parte dei cittadini più abbienti.
Nel 1858 venne fondato il Civico Istituto Brera, voluto per opera del maggiore Fedele Brera, per dotare la città di una scuola musicale.
Tra il 1854 e il 1863 venne costruito il porticato esterno del Duomo; tra il 1864-69 venne ricostruito l’edificio portante del Duomo, dopo che era stato volutamente distrutto, ad eccezione del presbiterio e del coro: nel 1876 venne completato il cupolino, tuttavia il cantiere terminò solamente nel 1888, alla morte dell’Antonelli.
Nel 1865 ci fu la delibera da parte del Consiglio provinciale per la creazione del manicomio cittadino, i cui lavori cominciarono nel 1870 grazie all’intervento economico delle opere pie e del municipio; venne inaugurato nel 1875 in concomitanza con una grande mostra agraria.
Infine, nel 1871 nacque la Banca Popolare di Novara, che inglobò la Banca del Piccolo Credito Novarese, chiusa nel 1869.

** Nei trent’anni che dividono la narrazione, le guerre per l’indipendenza non cessarono.
Il 26 aprile 1859 scoppia la Seconda Guerra d’Indipendenza: l’Austria dichiara guerra al Regno di Sardegna, le cui truppe vengono comandate da Napoleone III, grazie all’alleanza tra Piemonte e Francia.
Le principali vittorie franco-sabaude si riscontrano a Montebello, San Fermo (grazie alla guida di Garibaldi), Palestro e Magenta, che apre la via per la capitale del Lombardo Veneto, Milano.
L’8 giugno infatti i Piemontesi entrano a Milano, e qualche settimana più tardi gli Imperiali vengono sconfitti a Solferino.
Dopo sette mesi di guerra, il 10 novembre viene firmata la pace di Zurigo: la Lombardia entra ufficialmente a far parte del regno di Sardegna.
Il 5 maggio 1860 parte da Quarto (Genova) la spedizione dei Mille capitanati dal generale Garibaldi: sbarcheranno a Marsala l’11 maggio.  
Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino proclama il Regno d’Italia: Vittorio Emanuele II diventa primo re d’Italia.
Nel 1865 la capitale del Regno passa da Torino a Firenze, mentre l’8 aprile 1866 ha inizio la Terza guerra d’indipendenza.
Il 24 giugno 1866 l’esercito italiano viene sconfitto a Custoza e il mese successivo al largo dell’isola di Lissa.
Grazie a Garibaldi, in valle Bezzecca (Trentino), le sorti si invertono, e i Piemontesi vincono una battaglia decisiva: dopo sei mesi di guerra, il 3 ottobre viene firmata la pace di Vienna, che permette all’Italia di ottenere il Veneto.
Nel 1871, dopo Firenze, diviene capitale Roma, liberata dal potere temporale del papa il 20 settembre 1870 dai bersaglieri, con la famosa Breccia di Porta Pia: il Papa rifiuta ogni contatto con lo Stato italiano, dichiarandosi suo prigioniero.
Nel 1878 muore Vittorio Emanuele II, a cui succede il figlio Umberto I.


*** Domenica 23 marzo 1879 viene inaugurato l’Ossario dei Caduti: l’edificazione fu voluta da un comitato di cittadini che lanciò una sottoscrizione, dopo che si seppe che a Custoza, teatro della pesante sconfitta da parte dell’esercito italiano nel 1866, era stato costruito un monumento analogo. Tra i 38 progetti presentati, venne scelto quello dell’ingegnere Broggi, che prevedeva una piramide realizzata in pietra dura di Sarnico e alta diciotto metri.
Tuttavia non mancarono le polemiche: in primis, per l’assenza di simboli religiosi (nel 1901 venne apposta una croce in marmo bianco) e in secondo luogo per la forma della struttura, considerata un simbolo massonico.
Sotto la porta d’ingresso vi è una tavola in marmo con la seguente iscrizione: AI CADUTI- NELLA BATTAGLIA DI Novara- IL XXIII MARZO MDCCCXLIX.
Nel 1910 fu collocato il trittico con le effigi in bronzo di Carlo Alberto e dei generali Perrone e Passalacqua.
Il sacrario ospita i resti militari di entrambi gli eserciti.


Buonasera a tutti!
Siamo arrivati alla conclusione di questo lunghissimo racconto, durato più di un anno: è stato faticoso scriverlo, mi riferisco soprattutto alle parti storiche, ma sono piuttosto soddisfatta, anche se rileggendo i capitoli ho già modificato alcuni punti!
Ci tengo molto a ringraziare tutti i lettori, soprattutto i recensori fissi: grazie infinitamente, davvero, siete stati preziosissimi, puntuali e gentilissimi! Un grazie anche ai recensori che mi hanno lasciato un loro parere solo una volta: mi ha fatto tanto piacere lo stesso.
Ringrazio anche le persone che hanno inserito la storia in una delle liste: siete state tantissime, grazie di cuore anche a voi! 
Insomma, grazie a tutti coloro che mi hanno sostenuto: spero di ritrovarvi in qualche altro mio e/o vostro racconto.
Un abbraccio

   
 
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