Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: emme30    06/03/2017    11 recensioni
[Jean/Marco] [Eren/Levi] [AU]
Una volta Jean aveva una dignità, riusciva addirittura a dire frasi di senso compiuto di fronte a chiunque e a non inciampare nei suoi stessi piedi. Ma poi aveva conosciuto il gentilissimo e adorabile maestro Marco e la sua dignità aveva fatto le valigie e un biglietto di sola andata per i tropici.
Una volta Levi non aveva bisogno della sua nipotina per rimorchiare giovani attraenti e un po' pasticcioni. Ma poi aveva conosciuto il fantastico e insuperabile maestro Eren, e aveva capito di dover ricorrere a certi mezzucci, visto che il ragazzo non era poi così sveglio.
Ovvero, la AU in cui Eren e Marco sono maestri d'asilo e sono così adorabili da far venire gli occhi a cuoricino a chiunque, soprattutto a Levi e a Jean.
Genere: Comico, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Di Futuri mariti e Biglietti da Visita
 


L’autobus si fermò al semaforo e Jean alzò gli occhi dal suo cellulare per sbirciare fuori dal finestrino. La prossima sosta era la sua.

Si tolse le cuffiette dalle orecchie e le infilò tutte attorcigliate nella tasca della giacca, ignorando l’auricolare che pendeva fuori. Poi si alzò in piedi, facendo uno sbadiglio.

Premette il pulsante per prenotare la fermata e si sistemò meglio il cappellino di lana rosso che aveva in testa. Riuscì miracolosamente a non finire contro la vecchiettina che aveva di fianco quando l’autobus si bloccò e, con un paio di balzi felini, mise finalmente piede sulla terraferma. Dio, quanto odiava i mezzi di trasporto pubblici.

Cominciò a camminare deciso lungo il marciapiede con le mani in tasca, intento a ripensare alle parole che si stava studiando da un paio di giorni e che aveva ripetuto almeno dieci volte davanti allo specchio la sera prima. Santo cielo, perché era così nervoso? Doveva solo chiedergli un appuntamento, mica fargli una proposta di matrimonio!

Jean arrossì a quel pensiero e voltò l’angolo, deglutendo a vuoto quando vide che era giunto a destinazione: di fronte a lui si stagliava la scuola materna di Shiganshina, ovvero il luogo in cui lavorava il suo futuro marito. Scosse la testa a quel pensiero così audace, quasi come a volerselo togliere dalla mente. Appuntamento, Jean, non grande dichiarazione d’amore con fiori e colombe. Devi solo chiedergli di prendere un caffè con te. Ce la puoi fare.

Per qualche strana ragione, decise di seguire la sua vocina interiore e si fece forza, spingendo le porte di vetro tappezzate di disegni colorati ed entrando finalmente nell’edificio. C’erano già alcuni nonni e mamme seduti nell'atrio ad aspettare la fine della giornata scolastica, ma a Jean non interessavano i bambinetti.

Salutò il custode della scuola e si mise a camminare per i corridoi; sentiva distintamente il cuore rimbombargli nel petto e la propria voce interiore, che tanta forza gli aveva dato prima, affievolirsi sempre di più.

Si bloccò di fronte all’aula C, eppure non entrò; si mise invece a sbirciare dal vetro per vedere se quella fosse la stanza giusta.

Gli mancò il fiato nel petto quando finalmente individuò il suo Marco, come al solito circondato da bambini e con un grande sorriso dipinto sulle labbra.

Era cominciato tutto qualche mese prima, quando Jean era andato a prendere il suo coinquilino, anche lui maestro d’asilo, al lavoro. Si era presentato scocciato nell’aula che gli aveva indicato Eren, ma al suo interno non aveva trovato solo l’amico, bensì anche il suo bellissimo e gentilissimo collega Marco Bodt. Quando gli si era presentato, aveva fatto un sorriso enorme e Jean si era dimenticato il suo stesso nome. Era riuscito a balbettargli qualcosa di indefinito e poi era quasi fuggito dall’aula, trascinandosi via Eren.

Dopo innumerevoli prese in giro da parte del suo coinquilino, in seguito Jean era tornato all’asilo e si era presentato a Marco, accampando diverse scuse idiote e poco verosimili riguardo il suo comportamento la prima volta che si erano visti. E Marco, dato che era l’essere più perfetto del mondo, aveva riso e gli aveva detto che era stato comunque molto carino. Fu quello il momento in cui Jean disse addio al suo povero cuore e cominciò a tormentarsi riguardo il bellissimo e gentilissimo maestro Marco Bodt, colui che i suoi pensieri ormai consideravano il suo futuro marito.

Quel pomeriggio, Marco si era seduto su una di quelle piccole sedie colorate e stava facendo vedere ai suoi giovanissimi alunni come pitturare con le dita, il tavolo cosparso di tubetti di tempera e pennelli. Jean non era un tipo che amava molto i bambini, ma quando vedeva quelle piccole pesti attorno a Marco che lo chiamavano, ridevano, lo facevano ridere a sua volta e insistevano a colorargli di tempera le lentiggini che aveva sul viso… beh, Jean faceva davvero fatica a non sciogliersi come neve al sole e a non farsi venire gli occhi a forma di cuoricino.

Incantato com’era dalla figura di Marco, Jean si accorse troppo tardi di Eren intento a ridacchiare dall’altro lato dell’aula. Quando lo notò, si sentì avvampare completamente e gli fece la linguaccia, da vero adulto maturo e responsabile quale era, senza rendersi conto che così facendo aveva attirato l’attenzione sia dei bambini che di Marco, il quale sorrideva divertito dalla sua espressione.

Jean, in tutta risposta, si nascose dietro la porta, viola in volto e ripetendosi più e più volte che era davvero un idiota.

Dopo l’ennesima figuraccia, non oso più riaffacciarsi dal vetro; attese che si concludessero gli ultimi dieci minuti di lezione seduto sulle panche fuori dalla classe. Senza alcun dubbio, i dieci minuti più lunghi della sua vita.

Quando finalmente la porta rossa si aprì, Jean alzò lo sguardo, sperando di incontrare lentiggini e un grosso sorriso, ma si dovette ricredere quando intravide il ghigno del suo carissimo amico.

Eren tenne l’uscio spalancato per far uscire tutti i bambini, i quali andarono a recuperare le proprie giacche dagli appendiabiti accanto alla classe; poi, gli si rivolse, dopo essersi assicurato di non poter essere ascoltato da nessuno.

“Caspita, che sex appeal! Mi domando come Marco possa resistere a tutto questo fascino.”

Jean lo guardò stizzito. “Taci, che è tutta colpa tua.”

Eren rise, aiutando il piccolo Armin a mettersi il giubbottino. “Hai fatto tutto da solo e lo sai. Io non c’entro nulla.” Prese il bambino per mano e porse l’altro palmo a Mikasa, la quale gli si era avvicinata in silenzio. “Comunque, in bocca al lupo,” ghignò, facendogli l’occhiolino.

“Maestro Eren, ma ci sono i lupi? Dove?”

Armin mollò la sua mano e si aggrappò alla sua gamba, guardando intorno spaventato.

Jean ridacchiò ed Eren fece roteare gli occhi, portando una mano ad accarezzare i capelli biondi del piccolo. “No, non ci sono i lupi. E’ una cosa che si dicono i grandi per dire… buona fortuna.”

Armin alzò il capo per guardarlo in faccia, confuso. “E perché gli serve la fortuna?”

Eren sorrise allo sguardo torvo che Jean gli lanciò. “Perché deve vincere alla lotteria,” spiegò, prendendo di nuovo Armin per le dita. “Augurate anche voi buona fortuna a Jean!”

Jean si sforzò di tirare all’insù le labbra quando Mikasa e Armin gli dissero “buona fortuna” con facce speranzose e aspettò che si voltassero per poter mandare a quel paese Eren, mimando le parole con le labbra.

Il ragazzo alzò le spalle e si avviò con i bambini verso l’uscita. Fu solo in quel momento che Jean si ricordò di chi aveva visto nell’atrio ed ebbe il colpo di genio per vendicarsi finalmente del suo diabolico coinquilino.

“Ehi, maestro Eren!” lo chiamò con un ghigno, aspettando che lui e i bambini lo fissassero. “Mi raccomando, attento al nano!”

Eren avvampò e Jean si poté decisamente ritenere soddisfatto.

“Ci sono i nani, maestro Eren?” chiese la piccola Mikasa, dubbiosa.

“N-no, Mika. Lasciate perdere Jean, non sa quello che dice!” Balbettò Eren, lanciando un’occhiataccia all’amico e trascinandosi dietro i piccoli.

Jean sorrise divertito e si sentì particolarmente fiero di se stesso, almeno fino a quando non si ricordò per quale motivo fosse lì.

Deglutì a vuoto e si sistemò nuovamente il cappellino in testa. O la va o la spacca, pensò, entrando nell’aula.

Marco era ancora accucciato al tavolino, intento a mettere a posto tempere, pennelli e fogli colorati. Jean si guardò un po’ intorno, non sapendo bene come annunciarsi e come attirare la sua attenzione; quindi, pensò bene di assumere una posa figa, magari appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto. Funzionava sempre nei film, Marco sicuro lo avrebbe trovato irresistibile.

Fece quindi un passo indietro, incrociò le braccia al torace e si lasciò andare, certo che dietro di lui ci fosse il sostegno.

Quando sentì invece il nulla, capì che forse aveva sbagliato a prendere le misure.

Si lasciò scappare un singulto e si inciampò nei suoi stessi piedi, finendo per dare una spallata contro la porta che lo fece gemere.

Chiuse gli occhi dal dolore, sperando vivamente che Marco non avesse visto quella pietosa figuraccia.

“Jean, ma che fai? Che botta! Tutto bene?”

Fanculo, karma. Fanculo.

Jean si rimise composto in un attimo, ridendo in modo forzato e facendogli un cenno con la mano. “Ma no, non mi sono fatto niente... era tutto calcolato.”

Penoso, davvero penoso. Una persona qualunque lo avrebbe guardato come se fosse stato un emerito imbecille, ma, dopotutto, Marco non era decisamente uno qualunque. Gli fece un sorriso dolce e sghignazzò divertito, come se Jean avesse appena raccontato una barzelletta simpatica.

“Come stai?” gli domandò, alzandosi in piedi e avvicinandosi alla cattedra. “Ti sei ripreso dopo il brutto virus che ti sei beccato la settimana scorsa? Eren mi ha detto che eri proprio uno straccio.”

Jean nascose dietro un sorriso il desiderio omicida nei confronti del suo coinquilino.

“Certo! Una roba da niente, solo un po’ di stanchezza!”

“Davvero? Eppure Eren mi aveva detto che avevi passato due giorni a rimettere.”

Eren e la sua dannatissima boccaccia. Arrivato a casa, gli avrebbe dato fuoco alla camera da letto.

“Sarei anche venuto a vedere come stavi, ma, purtroppo, anche la mia coinquilina si è presa il tuo stesso virus e ho dovuto prendermi cura di lei.”

Jean alzò le sopracciglia sorpreso, perché, forse, non avrebbe dovuto appiccare un incendio doloso nella camera accanto alla sua.

“Ma figurati…” balbettò, portandosi una mano dietro la testa. “Non avrei mai voluto ti ammalassi anche tu.”

A quelle parole, Marco gli sorrise dolcemente. “Quanto sei carino... ma non preoccuparti, ho anticorpi fortissimi!” commentò, facendogli l’occhiolino e mandando così completamente in tilt il cervello di Jean.

Il ragazzo si ritrovò a ridacchiare senza neanche sapere perché, ancora appoggiato allo stipite della porta e -ne era certo- con un’espressione da ebete.

Fortunatamente, Marco ignorò la sua faccia e cominciò a mettere a posto le tempere in silenzio, almeno finché Jean non notò che aveva un orecchio sporco di verde.

“Marco, hai-”

Fece un passo in avanti per avvicinarsi a lui, ma -evidentemente il destino ce l’aveva con lui quel pomeriggio- si inciampò in qualcosa, che poteva essere un giocattolo, i suoi stessi piedi oppure il nulla, e cadde in avanti.

Si vedeva già prendere una sonora facciata sul pavimento e fare l’ennesima figuraccia di fronte al proprio futuro marito, ma, all’improvviso, si sentì afferrare le braccia da una presa forte che gli evitò la caduta.

Invece del pavimento, Jean scorse un mare di lentiggini e uno sguardo divertito.

“Attento,” gli mormorò Marco, senza smettere di sorridere. “Sarebbe davvero un peccato se ti rovinassi il tuo bel viso.”

Jean si sentì diventare rosso, ma decise che non gli importava.

Si rimisero in piedi sogghignando e Jean si ricordò del motivo del suo quasi capitombolo.

“Hai un orecchio verde, deve esserci rimasta un po’ di tempera,” disse, indicandogli l’orecchio destro.

“Davvero? Che sbadato!” Marco esclamò, prendendo poi una delle salviettine umide con cui aveva pulito le mani ai bambini e cominciando a strofinarsi l’orecchio.

“È andato via?”

Jean scosse la testa. “Non ancora.”

“Me lo togli tu?” chiese Marco, porgendogli una salvietta pulita. Jean annuì perché non si fidava di cosa avrebbe potuto ribattere, un qualcosa a metà tra “Certo, mio bellissimo futuro marito” e “Senza dubbio, prossimo padre dei miei figli”.

Si avvicinò a lui e iniziò a ripulirlo, cercando di non pensare al fatto che non erano mai stati così vicini, che Marco da quella distanza fosse ancora più bello e che persino le sue lentiggini fossero affascinanti. Dannate lentiggini.

“Ecco fatto,” sussurrò fin troppo poco tempo dopo, facendo un passo indietro e gettando la salvietta nel cestino.

“Grazie Jean, sei sempre così gentile,” Marco gli fece un altro sorriso e Jean ebbe un cedimento al cuore per quella che era la trentesima volta quel pomeriggio.

“Ad ogni modo, cosa ci fai qui?” domandò Marco a un certo punto, mentre riordinava i suoi fogli sulla cattedra. “Immagino tu sia qui per parlare con Eren.”

Jean deglutì a vuoto e cercò di trovare il coraggio che era sicuro avesse da qualche parte dentro di sé.

“Veramente, sono qui per vedere…” Forza Jean, puoi farcela. “Per vedere te.”

Marco alzò lo sguardo dalla cattedra e lo guardò arrossendo. “Me?”

“Volevo chiederti se…”

“Sì?”

“Setiandavadiprendereuncaffèconmequalchevolta,” Jean biascicò, anche se nella sua testa quella non era una parola unica ma tante separate e, soprattutto, con un senso compiuto. Cielo, che disastro.

“Oh, mi dispiace,” Jean si sentì morire quando udì quelle parole e il tono dispiaciuto di Marco. Stranamente, però, non riuscì a trovare nulla da dire, almeno fino a quando Marco non continuò la frase.

“Non bevo caffè, però, sai… mi piace il sushi. Che ne dici di venerdì sera alle otto?”

Jean lo guardò imbambolato per un paio di attimi, aspettandosi di veder uscire delle candid camera dall’armadio dei peluches.

Poi, però, si rese conto che Marco era serio e gli stava davvero chiedendo di uscire a cena insieme a mangiare sushi; si ritrovò ad annuire così forte da farsi quasi venire un crampo al collo.

“Venerdì è perfetto,” riuscì a dire. “Ti passo a prendere io, tanto so già dove abiti… nel senso che me l’ha detto Eren! Mica sono uno stalker io…”

Marco scoppiò a ridere per la sua parlantina imbarazzata, lanciandogli un altro sorriso dolcissimo, prima di recuperare la sua roba e mettersi affianco a lui.

“Ci vediamo venerdì, allora.”

“Venerdì,” fu l’unica parola che riuscì a dire Jean, prima di voltarsi e guardare Marco uscire dalla classe.

Dopo essersi assicurato di essere solo almeno dieci volte -aveva già fatto troppe figuracce quel pomeriggio-, Jean alzò le braccia al cielo entusiasta. Vittoria!

 

*

 

“Maestro Eren, sei sicuro che non ci sono i nani?”

“Sì, Mika, stai tranquilla,” la rassicurò nuovamente Eren con una piccola risata, cercando di nascondere l’imbarazzo della battuta di Jean di poco prima.

La bambina sembrava ancora dubbiosa, ma, prima che potesse dirle qualcosa di divertente, entrò nell’atrio e gli si azzerò il cervello, come un corto circuito istantaneo.

Nonostante fosse qualcosa che succedeva praticamente tutti i pomeriggi, Eren ancora non si era abituato alla vista dell’affascinante signor Ackerman, il quale si presentava all’asilo come se fosse sulla passerella di una sfilata, con quei completi eleganti così attillati e quello sguardo così intenso.

Non aveva mai avuto il debole per gli uomini più grandi di lui, ma c’era qualcosa nel signor Ackerman che gli faceva diventare le gambe molli ogni singolo giorno in cui veniva a prendere la nipotina dall’asilo. Marco e Jean lo prendevano in giro quasi costantemente, sin dalla prima volta in cui si era presentato a prendere la piccola Mikasa all’asilo al posto della madre ed Eren aveva balbettato per tutto il tempo imbarazzato.

Da quel giorno, il signor Ackerman era sempre andato a prendere la nipote tutti i pomeriggi alle quattro, ed Eren aveva ringraziato più volte tutte le divinità del creato che Mikasa gli stesse sempre così appiccicata. Così, poteva accompagnarla lui dal suo bellissimo zio, scambiare qualche parola con lui e solitamente dire qualcosa di inappropriato.

Quel pomeriggio, Eren notò che Levi o, meglio, il signor Ackerman, fosse addirittura più bello del solito, come se questa potesse essere una cosa umanamente possibile; nonostante fosse almeno quindici centimetri più basso di Eren, aveva una grazia e un portamento che lo facevano risaltare qualunque cosa indossasse.

Eren gli lanciò un breve sguardo prima di accompagnare Armin a suo nonno e scambiarsi qualche convenevole con lui, ignorando gli occhi che sentiva puntati sulla nuca.

Dopo aver salutato Armin e averlo rassicurato per la quarta volta che no, non c’erano lupi in giro, si avviò con Mikasa per mano verso lo zio, il quale lo squadrò mantenendo comunque un’espressione neutra.

“Ciao zio,” lo salutò Mikasa, porgendogli il disegno che teneva nell’altra mano. “Guarda cosa ci ha fatto fare il maestro Eren oggi!”

L’uomo distolse lo sguardo dagli occhi di Eren, dandogli quindi modo di tornare a respirare e far arrivare sangue al cervello, per dedicarsi alla nipote. “Un’opera d’arte,” commentò, facendo un piccolo sorriso. “Buon pomeriggio, maestro Eren.”

“Buon pomeriggio, signor Ackerman,” rispose, cercando di essere cordiale e di non farsi scappare nulla di inappropriato almeno nei saluti.

“Sei stata brava oggi con il maestro Eren?”

Mikasa guardò lo zio stizzita. “Io sono sempre brava con lui.”

Eren ridacchiò quando le si attaccò a una gamba, come a voler rimarcare il concetto. Le accarezzò i capelli scuri dolcemente e si rivolse di nuovo all’uomo. “Mikasa è sempre bravissima, è vero.”

“Questo perché sono la tua preferita, maestro.”

Eren rise un po’ più forte a quella frase, per poi accucciarsi per poter essere alla stessa altezza della bambina e sistemarle la sciarpa rossa attorno al collo.

“Vero, ma lo sai che non lo devi dire a nessuno.”

Mikasa gli fece un piccolo sorriso e si portò una mano davanti al viso, porgendogli il mignolino. Eren la imitò, stringendolo con suo.

“Promesso?” le chiese, cercando di sembrare serio.

“Promessissimo!”

Eren rise di nuovo e, dopo averle accarezzato i capelli, si rimise in piedi, cercando gli occhi dell’adulto che aveva di fronte a sé.

Di certo, non si aspettava uno sguardo di pura adorazione, o un grande sorriso a illuminare ancora di più il volto dell’altro uomo. Così come non si aspettava la frase che gli arrivò alle orecchie.

“Mika, mi aspettesti in macchina mentre parlo con il maestro Eren? È parcheggiata qui fuori.”

La bimba annuì, tirando la mano di Eren per farlo guardare in basso. “Ci vediamo domani, maestro.”

Eren le sorrise, cercando di nascondere la sua confusione. “A domani, Mika.”

Rimasti soli, Levi gli fece un cenno col capo per indicargli di mettersi in disparte dal baccano di bambini e genitori.

Eren lo seguì in silenzio nella parte dell’atrio un po’ più tranquilla.

“Ci sai proprio fare con i bambini,” commentò l’uomo dopo poco, scatenando un sorriso sulle labbra del ragazzo.

“Me lo dicono in tanti,” confessò, portandosi una mano a grattarsi la nuca. “Ma non posso farci nulla, li adoro.”

“Si vede.”

Eren si obbligò a non indugiare su come l’uomo avesse aperto la giacca elegante e aveva infilato le mani nelle tasche dei pantaloni. Non indugiò nemmeno sulla sua camicia attillata che nascondeva ben poco. Non lo fece assolutamente.

“Desiderava parlarmi di qualcosa?” chiese, cercando di distrarsi da quel corpo scolpito e di essere serio e professionale.

“Sì, in effetti,” l’uomo sospirò, quasi annoiato. “Mia cognata voleva sapere se fossi disponibile a fare il babysitter alcune sere a settimana o qualche week end,” spiegò, portandosi una mano tra i capelli scuri. “Mikasa non reagisce bene ad altre persone, e visto che sembra così legata a te…” Sorrise e alzò le spalle. “Valeva la pena chiedere.”

Eren lo guardò sorpreso e forse anche un po’ deluso, ma annuì. “Certo, ogni tanto mi capita di farlo.”

“Molto bene,” sussurrò l’uomo, per poi tirare fuori un cartoncino dal taschino della giacca e porgerglielo.

Eren lo prese e si rese conto che si trattava di un biglietto da visita. Subito lesse il nome della madre di Mikasa e il suo numero di cellulare, scritti a penna in una grafia elegante. Stava quasi per ringraziarlo, quando notò che il biglietto da visita era quello del signor Ackerman, o meglio, di Levi, come aveva scritto a penna con la stessa grafia ordinata sotto il suo cognome e accanto al numero di cellulare.

Spalancò occhi e schiuse la bocca dalla sorpresa, rendendosi immediatamente conto di quel gesto. Alzò il capo e sorrise, provando a salvarsi in corner. “Grazie, contatterò io la signora Ackerman.”

Levi gli fece un piccolo sorriso. “Non c’è solo il numero di mia cognata su quel biglietto.”

Eren deglutì a vuoto, cercando di ricordarsi come si facesse a parlare. “Sì, ho visto.”

“Perfetto. Usalo.”

“Va bene...” rispose Eren, chiedendosi se fosse il caso azzardare un pochino. “Lo farò, Levi.”

Il sorrisetto che comparve sulle labbra dell’uomo gli fece capire di aver fatto centro.

Levi gli fece un cenno e si avviò fuori dall’atrio, lasciandolo lì a stringere tra le mani quel preziosissimo pezzetto di carta.
 

*

 

La saletta che utilizzavano i maestri dell’asilo era quasi deserta a quell’ora del pomeriggio. La classe di Eren e Marco era una delle poche che faceva il tempo pieno e tutti i maestri erano già andati a casa.

Marco stava finendo di organizzare il lavoro per il giorno dopo, quando sentì dei passi veloci nel corridoio. Alzò il capo, incuriosito, chiedendosi se si trattasse di qualche bambino tornato nell’asilo perché aveva dimenticato qualche gioco, ma gli sfuggì il sorriso non appena vide Eren sbucare dalla porta con il fiatone.

“Marco!” Lo chiamò andandogli incontro di corsa. “Guarda, guarda, guardaaa!”

Marco non ebbe neanche il tempo di chiedergli cosa stesse dicendo e perché fosse così agitato, che l’amico gli mise sottomano un foglietto di carta che assomigliava ad un biglietto da visita.

Lesse il nome e il numero di cellulare e fissò Eren sconvolto. “Non ci credo! Come ci sei riuscito?”

Non aveva mai visto Eren sorridere in quel modo e si ritrovò ad imitarlo e ridacchiare.

“Non lo so! Ma guarda, ho il suo numero!”

“Questo lo vedo,” commentò Marco, restituendogli il biglietto da visita, che Eren si portò drammaticamente al cuore mentre fissava l’infinito con sguardo sognante.

Marco lo osservò per un paio di attimi divertito, per poi alzarsi e avvicinarsi alla caraffa del tè che aveva messo in infusione poco prima. “Hai presente che dovrai anche utilizzarlo per scrivergli, vero?”

A quelle parole, riuscì a vedere il terrore sbiancare i lineamenti di Eren, il quale sembrò rendersi conto solo in quel preciso istante di cosa comportasse possedere il numero di cellulare del tipo dietro a cui sbavava da un paio di mesi.

“Marco!” Si lamentò lasciandosi andare su una sedia. “Perché devi sempre riportarmi alla realtà e ricordarmi che sono un adulto?”

Marco gli sorrise dolcemente mentre versava il tè in due tazze e tornava a sedersi al tavolo.

“Mica è la fine del mondo, sai? Non è mai morto nessuno mandando un messaggio.”

Eren lo guardò stizzito, portandosi la bevanda calda alle labbra. “Lo so, ma cosa dovrei dirgli?”

“La verità?”

“Che vorrei strappargli quei completi eleganti di dosso farmelo su ogni superficie piana del mio e del suo appartamento per una settimana di fila?”

Marco sospirò, sconsolato. “Che ti piacerebbe conoscerlo e che potreste uscire per bere qualcosa, ogni tanto.”

Eren mugugnò qualcosa che assomigliava a un “La fai facile, tu”, mentre memorizzava il numero sul proprio cellulare, anche se Marco sapeva benissimo che lo aveva già imparato a memoria.

Marco voleva tanto bene ad Eren: era uno dei suoi più cari amici e, visto che lo conosceva così bene, sapeva benissimo come comportarsi in quelle situazioni. Attese quindi che Eren lasciasse incustodito il suo cellulare sul tavolo e si dedicasse al suo quaderno, prima di prenderlo e aprire l’icona dei messaggi.

Eren se ne accorse quasi subito, ma, prima che potesse dire o fare qualcosa, Marco aveva già premuto il tasto invia e gli aveva restituito il cellulare.

Marco,” Eren lo guardò terrorizzato. “Ma cosa hai fatto?”

Marco sorrise e gli fece un cenno col capo. “Guarda cosa gli ho scritto.”

“Ho paura.”

“Eren.”

“Va bene, va bene... ora ci guardo.”

Sbirciò lo schermo del cellulare come se potesse divorarlo vivo, ma Marco era davvero un ottimo amico, quindi l’espressione terrorizzata di Eren si tramutò subito in una adorante.

Mi ha fatto piacere parlare con te oggi, dovremmo farlo più spesso,” lesse il messaggio ad alta voce e Marco lo vide tornare sulle nuvole come poco prima. “Oh, Marco, ti adoro!”

“Lo so,” commentò il ragazzo, sorridendo e portandosi la tazza di tè alle labbra.

Neanche un attimo dopo, il cellulare di Eren vibrò e il ragazzo si illuminò come un albero di Natale.

“Mi ha risposto, mi ha già risposto!” Eren esclamò elettrizzato, afferrando il cellulare, toccando lo schermo e schiarendosi la voce. “Sono d’accordo. Si potrebbe fare anche senza mocciosi in giro.

Marco si ritrovò a ridere divertito dall’entusiasmo di Eren; in quel momento, assomigliava moltissimo a uno dei loro bambini.

“Visto? Te l’avevo detto,” commentò Marco, sicuro che però Eren non lo stesse ascoltando, visto quanto intensamente stava fissando lo schermo del cellulare.

“Che giornata da sogno,” mormorò Eren dopo aver risposto al messaggio e aver abbandonato il cellulare sul tavolo. Marco arrossì, trovandosi incredibilmente d’accordo, lasciando che le sue guance porpora tradissero i suoi pensieri.

“A proposito di giornate da sogno…”

Marco si grattò il naso e ingoiò un paio di sorsate di tè sotto lo sguardo inquisitore di Eren. “Dimmi un po’, ce l’ha fatta a chiedertelo?”

Marco rise. “Quasi.”

“Cosa vuol dire ‘quasi’? Ieri sera ha passato mezz’ora a esercitarsi davanti allo specchio.”

“Che stronzo che sei, non dovresti dirmi queste cose.”

Eren alzò le spalle, divertito. “Cosa vuol dire ‘quasi’?”

“Che voleva andassimo a prendere un caffè. Dai, cosa siamo, quindicenni?”

Eren rise. “E quindi? Gli hai detto di no?”

“Dopo mesi che aspetto che si faccia avanti, secondo te gli dico di no? Venerdì sera andiamo a mangiare sushi.”

A quella risposta, Eren alzò le braccia in aria. “Sia lodato il cielo, ce l’abbiamo fatta! Venerdì allora vi lascio casa libera, non si sa mai.”

In tutta risposta, Marco avvampò. “Eren! E’ solo un appuntamento!”

“Sì, come se non ti fossi già fatto film in testa sui vostri prossimi quindici appuntamenti e sul viaggio di nozze.”

Marco si portò la tazza di tè alle labbra per cercare di nascondere le guance porpora; in quelle occasioni non gli piaceva che Eren lo conoscesse così bene.

“Quanto avrei voluto essere presente… chissà che disastro è stato.”

“Non dire così, è stato così carino. Era super imbarazzato! Non potevo non dargli una spintarella.”

Eren fece una smorfia. “Le parole Jean e carino nella stessa frase non funzionano.”

Marco gli diede una gomitata. “Non dire così, Jean è un gran bel ragazzo.”

“Se ti piacciono i cavalli…”

I due ragazzi si guardarono e scoppiarono a ridere, entusiasti delle proprie rispettive conquiste.

“A proposito di cavalli,” mormorò Eren, guardando l’orologio appeso al muro a forma di testa di cavallo sorridente. “Il mio equino mi starà aspettando in macchina per andare a casa.”

“E cosa ci fai ancora qui?”

Eren alzò le spalle e si portò di nuovo la tazza alle labbra. “Credo che lo farò aspettare ancora un po’.”

I due ragazzi si guardarono e scoppiarono nuovamente a ridere, ricominciando a chiacchierare e decidendo di comune accordo che Jean avrebbe potuto attendere in macchina.

Almeno per un altro po’.

 


Le mie amikette volevano la fic con Eren e Marco maestri d'asilo con Levi e Gianni Jean che gli morivano dietro, quindi non potevo non accontentarle. Ho adorato scrivere questa fic, spero davvero che sia piaciuta anche a voi che avete letto <3
   
 
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