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Autore: Pawa    07/03/2017    1 recensioni
La Grande Era della Pirateria improvvisamente, finì.
I protagonisti perirono e dei frutti del diavolo, dei cyborg che vissero in contemporanea ai dinosauri, del sistema mondiale, dei grandi uomini che conquistarono tutto e di OnePiece, si ridusse tutto ad una leggenda e qualche diceria dei civili sulla terraferma.
Nel 2017, quelle leggende sconnesse e quasi tutte perdute non esistono più.
Perché i viventi di allora si sono reincarnati e un qualche fenomeno ha ridonato loro, improvvisamente, la memoria, i poteri e le dicerie non erano altro che verità.
Il problema?
Semplice, le vecchie personalità creano conflitti interiori autodistruttivi e gli "ex malvagi", che oggi sono oneste persone con amici e famiglie, vengono evitati come la peste, il mondo cade loro addosso e la tentazione di tornare a compiere barbarie è così forte... e nessuno li aiuta a resistere.
Io questo lo so bene, perché paradossalmente rispetto il "vecchio me", ero un giovane piuttosto popolare.
Avevo pure la ragazza.
Ma seppur siano passati quattrocento anni, il nome di Trafalgar D Water Law fa ancora tremare la gente. O meglio, la fa di nuovo tremare. D'altronde, ce lo siamo ricordati da poco.
E che dire di OnePiece? Beh, è tutta colpa sua.
Genere: Avventura, Comico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati di Kidd, Pirati Heart
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE: per coloro che non seguono le scan online e gli episodi sub ita.
 
Nel corso del capitolo, racconto della vita del Law che conosciamo tutti, ma NON vi preoccupate. Non faccio spoiler, ho riassunto in modo molto vago, mi sono concentrata su altri particolari ed ho aggiunto elementi inventati.


ATTENZIONE: per tutti.
 
Quando arrivo a parlare degli imperatori, ho completamente inventato tutto.
Per motivi funzionali per la mia fic, mi sono distaccata dalla trama originaria, dove attualmente siamo in ballo con Big Mom ed il signor Kaido, ma Oda la sta tirando per le lunghe e sinceramente…
davvero vogliamo far battere Big Mom a Rufy, dopo neanche un mese che hanno detto addio a Doffy?
Luffy non n’è ancora in grado, non ne ha le capacità e se Oda se ne esce con un nuovo potenziamento, campato per aria, completamente a caso, con il quale pensa di mettere fine ad un imperatore, allora il decadimento di One Piece raggiungerà il culmine.
 
 
 
Capitolo 1

Il giorno in cui ricordammo tutto...





 
Il martedì di un mesetto fa, si può dire che ero di buon umore.
Mi ero alzato in tempo per radermi e regolare finalmente il pizzetto che stava ormai diventando una barba a tutti gli effetti e per una volta, la mia sorellina Lamy non si era impossessata della giacca della mia divisa scolastica, sostenendo che era più morbida e calda della sua e dunque potei addirittura vestirmi decentemente per quella ventosa giornata di fine Febbraio.

Non che avere un aspetto curato fosse l’unica fonte della mia serenità.

Diciamo che la prospettiva di quel giorno non era per niente male.
Avevo due ore di verifica di chimica sulla termodinamica e questo significava poter evitare due ore di struggente, nonché inutile, spiegazione su argomenti che conoscevo meglio di quell’imbecille del prof Caesar già dai tempi delle elementari. Le restanti materie, avrei potuto sopportarle dando fastidio a Maki, l’amica d’infanzia che dalle elementari  fino al liceo si era trascinata i suoi capelli biondo cenere legati in due alti codini, che le donavano un aspetto tanto infantile.
Secondo me, adorabile.
Non che glielo avessi mai detto, nonostante… beh, rientrasse nei miei doveri in quanto suo ragazzo.

Raggiunsi il lampione al quale mi aspettava appoggiata ogni mattina, con le mani giunte dietro la schiena a sorreggere la cartella ed il volto immerso nell’enorme sciarpa rosa confetto che mi aveva costretto a regalarle.
Fermai la bicicletta ad un passo dalle sue scarpe in cuoio della divisa, cosicché, sporgendomi verso il suo viso e scostandole l’orlo della sciarpa, potessi baciarla senza scendere.
“Monta su befana, oggi non possiamo fare tardi”
“Buongiorno anche a te, maniaco della chimica”
Salì, posizionando la borsa in grembo e stringendomi la vita, mentre io avviavo la bici.
“Della chimica non mi frega granché… però può sempre servirmi per la realizzazione di qualche farmaco”
La sentii sbuffare alle mie spalle, divertita e rassegnata da come tutto ciò che dicessi si ricollegasse alla mia amata medicina.
“Beato te che queste cose le capisci subito” alzai un sopracciglio al suo lamento sussurrato, che udii quasi per caso, col frastuono del vento nelle orecchie.
“L’argomento di oggi l’hai capito bene pure tu”
“Sì, dopo che ho passato due interi pomeriggi a studiare col molesto prof Law, qualcosa l’ho capita”
“Molesto?” finsi  di non capire a cosa dovessi quell’aggettivo tanto azzeccato.
Mi alzai per spingere meglio sui pedali, una volta raggiunta la salita a due quartieri dal nostro liceo e lei ne approfittò per pizzicarmi il sedere.
“Ahi! E poi sarei io il molesto?” lei ridacchiò.
“Sai com’è, io non ti ho toccato quel bel culetto per quattro ore, mentre tentavi disperatamente di capire cosa fosse l’entalpia”
“Touche, mon amour”
 
Raggiungemmo poco dopo il deposito delle biciclette della scuola e prima di dirigerci all’ingresso dell’istituto, lei mi afferrò la mano. Mi voltai a fissarla.
“Mi suggerisci, vero?”
La guardai esasperato, cingendole il collo con un braccio, incamminandomi.
“Ti ho detto che questo argomento l’hai appreso. È solo ansia la tua, vedrai che saprai risolvere i problemi. Tieni a mente che a seconda se sei in condizioni standard o no, per delta G devi usare la prima formula, piuttosto che l’altra. Il più è la teoria, quella non te l’ho provata, ma la sai, no?”
“Sì, almeno la teoria me la so studiare da sola…”
“E allora sei a posto! Dai, non deprimerti. Dopo ti porto fuori a pranzo.”
Gli occhi, prima bassi e spenti per l’agitazione, le brillarono, incrociando il mio sguardo, risaltando quel castano chiaro che per qualche motivo mi infondevano un’infinita nostalgia.

E fu allora, che ebbi il primo ricordo.

Fu un istante, infatti, fino a quella sera, pensai di essermelo immaginato.
Vidi di sfuggita e molto sfocato, un volto fine, delicato, labbra laccate di un rosa acceso, capelli castani, ricci e indomati, spuntare da sotto un berretto giallo e soprattutto, intravidi quegli occhi nocciola.
“Che bello, chi tace acconsente!”
Strabuzzai gli occhi, tornando a guardare il viso di Maki, senza darmi troppe noie per la visione appena avuta.
“Come, scusa?” mi ero certamente perso qualcosa in quell’attimo di trans.
“Ti ho chiesto se mi porti al McDonald’s, tu non hai risposto e secondo il buon vecchio Bonifacio VIII, acconsenti a portar mici”
“Non mettere in mezzo i Papi! Il Mc mi fa schifo, lo sai. Tralasciando che è tutto cibo spazzatura, servono solo pane.”
“Uff… chissà cos’hai contro al pane. Un trauma infantile?” domandò, mentre salivamo le scale per il terzo piano, dove nell’ala est, in fondo al corridoio, sulla destra, stava la nostra classe, la quarta A.
“Boh, non ricordo…”
“Cerca di ricordare, amore, è abbastanza preoccupante.”
E me lo sarei ricordato, giusto un paio d’ore più tardi, ma non sarebbe stato quello a preoccuparmi.
 
 
 
***


Finii il compito in classe un quarto d’ora prima degli altri. Dovetti ammettere che non era stato banale. Quasi intelligente. Quasi.

Purtroppo per i miei compagni, ero l’unico a definirlo così e difatti, dando un’occhiata in giro, vidi la disperazione aleggiare nell’aula.
Posai lo sguardo su Maki, sperando che non si fosse scoraggiata con la prima domanda.
Quella era stata davvero bastarda. Era un quesito di logica e teoria, ma era ingannevole. Inoltre, serviva un minimo di conoscenza sui motori delle automobili.
Seguivano vere e proprie domande teoriche e poi cinque problemi. Infine, un vero e falso da giustificare nel caso si negasse un affermazione.
Consegnai i fogli all’insegnante, senza neanche degnare di uno sguardo la sua faccia cadaverica, con quella carnagione pallida da far ribrezzo e le orbite, le sclere e le labbra violacee, manco fosse truccato da drag queen o fosse morto da dodici ore.

Piuttosto mi concentrai su Maki, seduta al banco di fronte la cattedra, in seconda fila.

Si stava arricciando attorno l’indice sinistro il termine di un codino e con la biro picchiettava sulla fotocopia della verifica. Se non vedevo male, da quella distanza, era all’ultimo esercizio.
Fidando nel fatto che avesse svolto correttamente i precedenti, mi diressi lentamente verso il mio, di banco, in terzultima fila, accanto la finestra.
Volevo che se la cavasse da sola, ma sapevo perfettamente interpretare quell’atto di tortura dei suoi capelli: era nel dubbio.
Adocchiai la seconda risposta e la terza essere sbagliate e così, mentre le passavo accanto, tamburellai velocemente prima due dita e poi tre sul margine del suo tavolo. Nello stesso istante, decisi di darle pure le ultime tre risposte e quindi le feci il segno della vittoria. Come immaginavo, di quest’ultimo gesto Caesar se ne occorse e infatti, mi richiamò.
“Trafalgar, cosa stai dicendo a Nakamori?! Vuoi che ti abbassi il voto?” mi trattenni dal ribattere con un: “30 al posto di 30 e lode? Prof, vuole proprio bocciarmi!” che più che rabbia al prof, mi avrebbe messo nei guai con i miei compagni e piuttosto completai il suggerimento, che certamente avrebbe recepito l’intera classe, ad eccezione del pagliaccio che avevamo come insegnante.
“Le ho solo fatto il segno della pace, prof.”
“E perché, illuminami.” gracchiò, con quel suo tono stridulo e saccente.
“Ieri alla quarta ora abbiamo litigato per un problema che lei ci ha assegnato. Alla quinta abbiamo fatto pace e alla sesta lo abbiamo risolto. Insomma, il segno di pace, della vittoria, non so come lo vuole intende-...”
“Ho capito, Trafalgar, ora fa silenzio e torna al tuo posto.” Mi sedetti, mentre il prof borbottava qualcosa ed un paio di miei compagni si giravano per sorridermi. A quanto pare, avevano capito.
I miei suggerimenti erano proverbiali. Tutti sapevano che in quanto immaginazione facevo pena, ma ero furbo. E la mediocrità delle mie palesi, ma fallaci balle, ne erano il risultato.
 


***
 
 

Avvenne alla terza ora.
Non capitò a tutti contemporaneamente, ma la differenza temporale fu questione di un paio di minuti, massimo.
Christ, quella sottospecie di pelato col naso schiacciato ed un sorriso quasi sempre stampato in faccia, mio amico dalla seconda elementare, si stava trascinando alla lavagna, invitato dall’insegnante di inglese, “stranamente” imbestialita dal mancato svolgimento dei compiti da parte dell’alunno in questione.
Prendendo il gessetto in mano, Christian fece una smorfia appena percettibile, ma dopo poco cominciò a lamentarsi ad alta voce. Strinse gli occhi e le dita, spezzando il gesso e cadde a terra a carponi. La professoressa, che alla prima accusa di dolore pensava si trattasse di una farsa, ora era preoccupata e si sarebbe precipitata a soccorrerlo se non fosse stato che pure Maki ed altri tre compagni iniziassero a lagnarsi e se non vidi male, sul viso dell’insegnante stessa si dispiegò un ghigno dolente.
 
Non ci volle molto prima che una fortissima fitta, che partiva dal cervelletto e giurai, potei sentirla scorrere attraverso ogni singola piega ed estroflessione dell’encefalo, per poi farsi strada attraverso tutta la spina dorsale e terminare all’altezza dell’osso sacro, mi annebbiasse la mente.
Fu un dolore allucinante e fugace, terminato il quale, iniziai a sognare.
In quel momento, mentre mi stava succedendo, definii tutto ciò un sogno.
In realtà, semplicemente, nel tempo che impiegai tra lo svenire ed il rinvenire, rivissi la mia vita precedente e così fecero tutti gli esseri coscienziosi del mondo.
 
Certamente rividi tutto velocemente, ma posso giurare, oggi, di sentire il peso di tutti e trentadue gli anni che vissi nella Grande Era della Pirateria.
Ne percepisco la maturità, la saggezza, l’esperienza ed ogni sfumatura psicologica.
Forse anche una certa fatica fisica, ma potrebbe trattarsi di una sensazione alimentata dalla mente, poiché di fatto, il mio corpo di quattrocento anni fa è decomposto da un bel pezzo e quello attuale ha solo diciassette anni e poco più.
 
Eppure, tutto mi sembra così contemporaneo.
Perché mentre ero privo di sensi, fu esattamente come se la mia anima tornasse a quattrocento anni fa e si congiungesse col piccolo embrione nel ventre di mia madre.
 
Aspettai circa nove mesi, durante i quali non ricordò granché, finché iniziai a vedere un bagliore e gli occhi mi bruciarono, i polmoni mi si stapparono e qualcosa l’inondò con prepotenza, spaventandomi.
Mi misi a piangere.
Ero nato.
 
Vissi i primi anni della mia vita dimostrando fin da subito un carattere tutto pepe e un’intelligenza precoce. Nacque la mia sorellina, per la quale avrei fatto di tutto.
 Iniziai ad andare a scuola, ma papà, che era il miglior medico della città insieme alla mamma, mi aveva già insegnato a leggere, scrivere, fare i calcoli e circa un terzo del corpo umano.
 
Facemmo la foto di classe, in terza, quando avevo otto anni.
Io ero in piedi di fianco a Christian, e accanto a lui c’era Maki, disgustata dalla mia ranocchia. Quella povera bestiola, come l’aveva definita la Sorella, si chiamava Esperimento Numero 26.
Ero già diventato un bravo dissezionatore.
 
Fu l’ultimo momento felice con i miei compagni.


Flevance fu messa in quarantena, i regnanti scapparono e la gente morì di una fine orrenda.
Il Piombo Ambrato, lo vissi e rivissi fin troppo bene.
Terribilmente e maledettamente bene.
 
È un veleno.
Inizia col soffocare le prime cellule con cui entra in contatto, appena si inibisce. Per questo compaiono le macchie in punti differenti su uno stesso corpo e da una persona all’altra.
E quelle cellule soffocate, le senti morire. Percepisci perdere qualcosa dentro di te e ti chiedi perché l’impulso nervoso parte dal cervello o dal midollo e non termina da nessuna parte. Allora che fa? Sta fermo, crea un ingorgo, torna indietro? Semplice, impazzisce e fa impazzire il terminale nervoso ed esso relativo, creando un effetto a catena, che termina con un disagevole collasso di massa di una consistente parte neurologica.
La zona morta, è dunque cadaverica, ma appartiene ad un organismo in parte vivente, quindi non si decompone, seppur s’impegni a far marcire il resto.
Finisce per abbandonare le proprie funzioni, si isola dal resto del corpo, crea lacune neurologiche e fisiologiche che causano traumi psichici, motori e funzionali e decade, perdendo colorito, com’è giusto che faccia qualcosa di morto.
E fa male avere una percentuale crescente di cadavere che costituisce il proprio organismo.
Fa un male, che neanche quando morii quasi trent’anni dopo, percepii un dolore simile.
 
La malattia del Piombo D’Ambra, però, mi portò anche qualcosa di buono.
Dopo aver visto essere uccisi i miei genitori e mia sorella e molti, moltissimi altri miei concittadini, giurai vendetta al Governo Mondiale e alla Marina, di cui, nel corso degli anni, avrei compreso la struttura ed i segreti, riguardo la fondazione, gli antichi Re, i Draghi Celesti e tutto ciò che appresi da Doflamingo e sull’isola di Zou ed il paese di Wa.
Nascosto sotto i cadaveri dei miei amici, tra i quali quelli di Maki e suo padre, che seppur lievemente, ancora per qualche minuto respirò, scappai dall’inferno che pochi giorni dopo fu raso al suolo e mi unii alla ciurma di colui che, di lì a qualche anno, si sarebbe fatto chiamare “Joker”.
 
Vissi anni terribili, con la costante convinzione di star morendo e di dover morire e commisi i miei primi crimini.
Delle atrocità.
 
Quando Cora-san mi fece, dannato lui, tornare la voglia di vivere, l’89% del mio corpo era morto da tempo.
In qualche modo e pure male, funzionavano ancora i legamenti ed il cuore riusciva, anche se terribilmente lento, a pompare il sangue sufficiente a nutrire il cervello.  Gli occhi sì, ci vedevano. Giusto ogni tanto, quando la luce non era troppo forte… o meglio, quando non c’era luce. La malattia mi aveva decolorato le iridi, rendendole trasparenti e qualsiasi tipo di bagliore, anche flebile, mi faceva lacrimare sangue.
Una volta guarito, avrei riacquistato un minimo di melanina, ottenendo delle iridi grigiastre.
Oggi, le ho azzurro chiaro.
 
Il fegato, penso avesse perso la maggior parte delle funzioni, anche se non quelle basiche.
Tutto il resto, era deceduto.
Non mangiavo o vomitavo, incapace di digerire, non bevevo a sufficienza, perché sentivo il fegato gridare pietà e non mi muovevo, se non in casi estremi, causandomi emorragie interne e lesioni dove ancora c’era un po’ di tessuto vivo.
Eppure, Cora-san mi voleva far vivere, era il suo sogno ed io mi costrinsi a realizzarlo.
 
Così, dopo il suo assassinio, m’impegnai a padroneggiare il frutto Ope Ope  e in un momento di disperazione, attivai la mia prima Room. Compresi abbastanza in fretta quali sensazioni dovessi provare per utilizzare i poteri di un frutto del diavolo e quando conobbi Bepo, Shachi e Penguin, ero già in via di guarigione. Anche se l’appellativo di “foca maculata”, dato anche dal mio cappello di pelliccia, rimase finché fu sostituito da “Captain”.
 
Mi feci un nome, una casa sommergibile e diciamo pure una famiglia, un’adorabile ed impareggiabile famiglia, composta da venti uomini ed una donna.
Donna che, fu la mia vita.
 
La salvai dal suo clan di deviati mentali, che l’aveva fatta concepire solo per, un giorno, sacrificarla ad un qualche dio per riportarlo in vita e seppi per certo che lei s’innamorò subito di me.
Lo seppi, perché mi diceva “Ti amo” come fosse un saluto.
Praticamente ogni giorno, ogni volta che mi vedeva, arricciando le sue labbra rosee in un dolce sorriso e catturando il mio sguardo glaciale con il suo nocciola.
Fatto sta, che m’innamorai anche io di lei, seppur glielo confessai giusto tre volte in tutta la nostra vita.
Ero il terribile Chirurgo della Morte, avevo una reputazione ed un orgoglio da difendere.
 
Divenni in pochi anni l’incubo degli uomini di “giustizia” e mi godetti ogni singola vita corrotta dalla sete di potere o altre cazzate, che stroncai.
 
Compii la mia vendetta, alleandomi con Mugiwara-ya e sconfiggemmo Big Mom dopo un mese di inseguimento navale ed una battaglia nautica durata altri tre, ancora reduci dalla guerra contro la Doflamingo Family.
Il mio sottomarino, per gli assalti a sorpresa, fu fondamentale e ne andai molto fiero.
 
Combattemmo per circa un anno contro Kaido e la sua ciurma e ne uscimmo davvero malconci.
Mugiwara-ya perse una mano. Io un occhio.
Però vincemmo e con due posti vacanti per il titolo d’imperatore, potemmo aggiudicarceli noi due capitani.
 
La battaglia contro Barbanera si protrasse per anni.
 
Dovevamo pensare a lui, alla ricerca di One Piece, che ormai avevamo in pugno, con tre dei quattro Rod Pogne Greef, alle vere e proprie famiglie che stavano sbocciando nelle nostre ciurme e a chi, tra me e Rufy, sarebbe diventato Re dei Pirati.
Ognuno di noi ambiva a quel trono ed aveva valide ragioni per reclamarlo, nonché una vita di avventure e sventure che meritava riscatto col requisito più onorevole per un corsaro.
Non volevamo scontrarci, ma non c’era altra scelta.
Certo, non l’avremmo fatto in quel frangente.
Prima di tutto, avremmo ucciso Teach.
Poi avremmo dovuto pensare al Rosso e questo era un altro problema, dato il rapporto che aveva con Mugiwara-ya.
 
Al culmine della guerra con Marshal D Teach, durante un loro bombardamento, Nami e Bepo trovarono posizione geografica e rotta per Raftel.
 
Stremati dagli scontri ed euforici per la scoperta, cause anche del fatto (forse)  che dei miei ultimi mesi ho solo frammenti e flash, non ci rendemmo nemmeno conto che l’altro Yonko ci stava pedinando a qualche lega di distanza.
 
L’ultima isola era davanti a noi, seppur riesca a rammentarne solo la sagoma e l’imponenza, oltre l’emozione che provai nel vederla.
Raftel.
La sede di tutto.
Tutta la conoscenza, tutta la ricchezza, tutti i sogni degli uomini.
Tutto il potere.
 
One Piece era lì, era nostro, era talmente vicino… e mai lo raggiungemmo.
 
Morimmo a centoventisette metri dalle coste di Raftel.
 
Tutti noi.
I Mugiwara, gli Heart Pirates, i pirati di Barbanera, delle altre Supernove, i tre ammiragli e tutte le loro flotte, che ci avevano pedinato a cento leghe ad est-nord-est da noi.
Anche il Grand’ammiraglio, i pirati  del Rosso…
 
Tutti i marinai in mare, quel giorno, morirono.
 
Come venni abbracciato dalla morte, mi sentii strappare il corpo e la mia anima tornò al presente, fine Febbraio del 2017, nel liceo scientifico della mia città natale, nella mia classe, nel mio attuale corpo.
 
A quel punto, potevo sollevare la testa dal banco, sul quale era crollata con un forte tonfo dopo che persi i sensi e tornare alla mia nuova vita.
 
Peccato che non ero più Trafalgar Law, il giovane prodigio della medicina propenso ai diciotto anni, la sorella in terza media, i genitori primari dell’ospedale e la fidanzata per la quale festeggiavo addirittura San Valentino.
 
Ora ero, nuovamente, Trafalgar D Water Law, il Chirurgo della Morte, con una mente abituata alla vita del 1600 e forgiata da un’esistenza infernale, che però aveva a che fare con nuovi ricordi ed una nuova e giovane vita, disgustosamente pacifica, serena e addirittura dolce.
 
Io sapevo di aver vissuto nel diciassettesimo secolo, lo avevo rivissuto, ne ero consapevole, cosciente, non avevo bisogno di altre prove.
Sapevo cos’era successo dopo il mio decesso.
Il me attuale l’aveva studiato nei libri di storia.
Al me di allora sarebbe bastato pensare al futuro.
 
Il mondo era andato avanti.
 
Di cosa pose fine alla Grande era della Pirateria ci si limitò a fare supposizioni, poiché tutti quelli che assistettero al fenomeno, perirono e pure io, che fui uno dei protagonisti, per qualche motivo non ricordo granché.
 
Ciò che non comprendo, è il perché.
 
Cosa ci succedette e perché diamine non lo ricordo?
 
Ho la concezione perfetta e completa di tutta la mia vita, così come la ricordavo all’epoca e forse anche con delle memorie di gioventù in più, fino ad un paio di anni dall’inizio della “Guerra dei tre Imperatori”.
Per qualche motivo, dai trent’anni in poi, non riesco a ritrovare tutti i ricordi che mi servirebbero per ricostruire quelli che furono gli anni d’oro della mia carriera di pirata.
Grossomodo rammento gli eventi principali che mi condussero fino a quei fatali centoventisette metri dalle coste di Raftel.
Ma non riesco a capire cosa mi uccise.
 
 
 Oggi in biblioteca si legge che gli Heart Pirates ed i Mugiwara (che fino a quando recuperammo le memorie passate, era tutto ciò che si conosceva di due delle ciurme che dominarono nel ‘600) scoprirono One Piece e questo si vendicò di loro, perché cercarono di rubarlo portandolo in mare, quindi lui maledisse il mare stesso.
Così facendo, tutti i marinai morirono.
 
Ovviamente, non andò secondo questa favola e anche i libri non mancano di sottolineare che i fatti riportati non hanno fonti e prove certe.
 
Dunque, mentre ero ancora semi incosciente, mi concentrai sul mistero della mia morte.
Decisi che, se volevo delle risposte, dovevo innanzitutto svegliarmi.
 
C’era però, ancora il problema dell’identità.
 
Non posso dire che il “me” attuale sia morto o sia stato sostituito col ritorno del “vecchio me”, perché d’altronde, anche se è difficile da concepire, non siamo due persone distinte.
 
Sono sempre io, solo in epoche diverse.
 
Probabilmente, se non avessero abbandonato Flevance al suo destino e si fosse trovata la cura per l’epidemia, già allora avrei vissuto una realtà molto simile a quella attuale ed avrei temprato un carattere più pacifico e sereno.
Sarei diventato il medico più importante del Mare Settentrionale, forse sarei stato famoso anche nel Nuovo Mondo ed avrei vissuto nella mia città, passando la gioventù tra i miei compagni di classe e la Chiesa ed avrei sposato Maki.
Periodo storico a parte, nulla di diverso da quello che sto facendo ora o che realizzerò.
 
Allo stesso tempo, se nel ventunesimo secolo mi fossero capitate disgrazie su disgrazie, per le quali sarei stato orfano e incapace di tornare nella mia città, con ogni probabilità mi sarei spostato altrove, alla ricerca di giustizia (chissà, forse anche di vendetta, ma i tempi sono molto cambiati, magari avrei trovato altre alternative al divenire un criminale con tendenze suicide) e di qualcuno che mi facesse tornare il sorriso.
Magari, avrei incontrato Shachi e Penguin.
 
Dunque, il capitano degli Heart Pirates non eliminò il secchione della quarta A.


Le mie vite si accettarono, si capirono, si fusero.
 
Certo, non posso dire che lo stesso avvenne immediatamente con le mie personalità.
Ci ho impiegato l’intero mese di Marzo per raggiungere un equilibrio nel quale non sembrassi bipolare, nonostante a grandi linee, il “vecchio me” e quello attuale non sono poi così in disaccordo, ma certo, ci sono molte divergenze.
Il Law di un tempo era folle, spesso apatico, autoritario, calcolatore, manipolatore, con disturbi ossessivi - compulsivi e pure leggermente necrofilo.
Quello odierno presentava una buona dose di instabilità mentale, ma quasi tutta orientata e sfogata nella scienza (ahimè, sembra che non ci sia epoca in cui non soffra di disturbi psichiatrici) era molto più emotivo e meno subdolo e crudele.
Oggi, teoricamente, sono l’esatto mix di questi due comportamenti, anche se…
tutt’ora, a seconda delle situazioni e dello stress, tendo a far prevalere la mia parte sociopatica, piuttosto che il carattere che ho assunto nel nuovo millennio.
 
Comunque, quel maledetto martedì, personalità a parte,  sapevo chi ero stato e chi potevo essere.
Queste furono le mie riflessioni e le giuste conclusioni a cui giunsi, mentre ancora dormicchiavo contro il banco.
 
Mugugnai indolenzito, corrucciando le sopracciglia e sollevai lentamente il capo dal tavolo. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte prima di mettere a fuoco le pagine del libro di inglese che avevo stropicciato, cadendo e dormendoci sopra.
Alzai lo sguardo, rimanendo un attimo confuso dall’assenza dell’alunno seduto davanti a me.
Mi guardai attorno, notando come i banchi di chi si era già ripreso fossero vuoti ed i miei compagni che trascinavano via dalle loro sedie, chi ancora dormiva.
 
“È sveglio…” sentii mormorare alla mia destra, con un tono vagamente tremante. Seguirono altri brusii e pure uno squittio spaventato.
Volsi la mia attenzione alla parete opposta alla quale mi trovavo io.
 
Capii immediatamente.
 
Non ero stato l’unico ad intraprendere un “viaggio spirituale”.
 
In quell’istante, il Chirurgo della Morte volle prendere il controllo della situazione e lasciarmi totalmente indifferente alla vista di quelli che consideravo degli amici, rannicchiati agli antipodi dell’aula rispetto a me, terrorizzati da me.
Pensai di analizzare la situazione, le loro reazioni, i loro volti distorti da smorfie di paura ed i loro corpi sorpresi da spasmi e brividi. Così avrei saputo stilare la lista di chi poteva essere considerato feccia, chi un inetto, chi era quasi degno di essere umano e di coloro che, sebbene avessero ricordato che avevano innanzi un pluriomicida, avevano impedito agli altri di scappare dall’aula, perché desideravano capire con chi davvero avevano a che fare. 
Non che questo, in quel momento, mi giovasse in alcun modo.
Mi sentivo totalmente freddo e distaccato, nonostante il mio migliore amico e la mia ragazza mi stessero fissando con sguardi vuoti. Spettrali. Certamente avevano ricordato l’inferno di Flevance e la loro morte, con tutte le sofferenze che sopportarono. Probabilmente i nostri compagni di classe avevano raccontato loro che io ero l’unico sopravvissuto della nostra città ed ero diventato un mostro assetato di sangue ed affamato di morte.
Chissà, forse si sentivano scossi per la loro tragica fine e forse provavano rancore nei miei confronti.
Come biasimarli?
Perché dovevo proprio essere stato io, l’unico a non crepare? Perché non si erano salvati pure loro?
Avrei dovuto confortarli, spiegar loro che nonostante la storia della D, non era stato il destino a salvarmi, ma un miracolo e non è che non fossi stato riconoscente di aver potuto vivere, ma ero diventato un fuorilegge in un momento di disperazione. Poi, non potei tornare indietro.
Avrei dovuto fare qualsiasi cosa per loro, in quel frangente… invece, stetti inerme.
Non dissi loro niente per interminabili istanti, finché la voce della mia insegnante mi ridestò dalla mia contemplazione.
 
“N-non muoverti, Trafalgar e dicci chiaramente che intenzioni hai”. Il suo timbro era basso, pacato, ma trasudava orrore e difatti, lei era titubante e balbettava. Allo stesso tempo, però, aveva un tono deciso e austero. Da soldato.
 
Fu con quest’ultima analisi che mi resi conto di star affrontando il tutto con l’approccio sbagliato.
La mia cazzutissima prof di inglese, aveva paura anche solo di guardarmi e temeva le mie azioni, seppur cercasse di mostrarsi spavalda.
 
Era davvero giunto il momento di far chiarezza nella mia testa.
 
Allora, l’apatia se ne poteva andare a fare un giretto a Fanculandia e pure l’assurda ossessione di psicoanalizzare tutto e tutti, poteva farle compagnia.
La saggezza che avevo plasmato in trentadue anni, forse era eccessiva per il contesto scolastico, ma la fermezza che caratterizzava entrambi i “me”, mi occorreva per non permettere alla mia parte ancora infantile e immatura di degenerare la situazione.
L’emotività era essenziale e potevo pure farne un eccesso, perché tanto, troppo sentimentale non lo ero mai stato neanche in questa vita e dovevo controbilanciare e vincere la freddezza della scorsa esistenza.
 
Finalmente, sebbene poi mi sentii uno straccio, ebbi un tuffo al cuore.
 
“Cosa intende, prof?”
 
Alcuni studenti sussultarono al suono della mia voce e ciò mi rattristò.
Era stata la mia voce, l’ora prima, a farmi guadagnare due sinceri sorrisi per aver suggerito nel compito di scienze.
 
“Non fingere di non saperlo. T-ti conosco bene, ero una marine. So che tra tutti i pirati, tu eri il più astuto, q-quindi è impossibile che tu non abbia inteso cosa voglio dire.”
 
Ecco a cosa dovevo quell’aria autoritaria tanto familiare. Era stata un militare. Una marine.
Forse, era proprio la scorsa personalità della mia docente a starmi parlando. Per quanto stramba fosse la “lei” attuale, non penso avrebbe avuto il coraggio di rivolgere la parola e pretendere risposta da un ex pluriomicida. Invece, un soldato, per quanto debole potesse essere stato rispetto a me o qualunque altro pirata, l’avrebbe fatto.
Se c’era una cosa, una sola che non mi schifava della Marina, era il senso d’onore dei suoi soldati.
 
La fissavo e lei ricambiava leggermente turbata, ma sicura di sé, mentre stava dietro al mio capoclasse, stringendogli le spalle.
Lui era bianco come un lenzuolo e sudava freddo.
Sperai che non gli fosse venuto un infarto. A diciassette anni e mezzo, sarebbe stata davvero una sfiga.
 
“Ciò che abbiamo appena ricordato…” incalzai il discorso, notando come, ancora una volta, i presenti sobbalzarono nel sentirmi parlare. E pensare che quella mattina, appena entrato in classe, cinque o sei di loro avevano finto di deprimersi, perché mi ero scordato di rivolgergli il buongiorno.
 
“… è sicuramente la vita che vivemmo nel diciassettesimo secolo. Io non fui certo uno stinco di santo, ma stiamo parlando di quattrocento anni fa. In qualche modo, ci siamo reincarnati ed abbiamo tutti un’esistenza molto diversa da allora. Quindi, sinceramente, non so dove vuole andare a parere, professoressa.”
 
Giusto per il tempo che impiegò a pronunciare le parole che seguiranno, la paura nei suoi occhi fu sostituita dall’odio più profondo che avessi mai visto da quattro secoli.
 
“Io… io ero uno dei marine che tu uccidesti all’arcipelago Sabaody. Mi provocasti uno squarciò dalla giugulare al fianco destro e mi decapitasti.” Alcune delle ragazze gridarono sgomente. Maki sgranò impercettibilmente gli occhi, continuando a tenerli su di me. 
“Trafalgar D Water Law” sorpassò il capoclasse, stringendo i pugni, cercando il mio sguardo, che non voleva allontanarsi da Maki e Christ, ma era giusto che le prestassi attenzione.
La guardai.
“Io pretendo di sapere cosa diamine hai intenzione di fare.”
Era palese che la mia prof stesse facendo prevalere i sentimenti della vecchia se stessa e non avesse minimamente considerato il nuovo contesto in cui vivevamo.
Non che gliene facessi colpe.
Il suo animo era scombussolato innanzitutto dal ricordarsi di una vita precedente, in secondo luogo dal conflitto interno tra le sue personalità e, ciliegina sulla torta, dalla sua morte violenta, da parte di (attualmente) un suo alunno.
Ricordavo perfettamente di averla ammazzata. Quel giorno, fuori dalla casa d’aste, c’era una flotta quasi esclusivamente composta da uomini. Le donne soldato saranno state neanche una ventina.
Inoltre, mia brutta vecchia abitudine, m’impegnavo a ricordare tutte le persone a cui strappavo la vita.
Non so se fosse un altro dei miei disturbi ossessivi - compulsivi o se lo facessi per senso di colpa. D’altro canto, io non ero nato demonio, lo ero diventato e se la crudeltà non ce l’hai nel DNA, spesso è capace di divorarti lo spirito e tenerti sveglio la notte.
Non a caso, soffrivo di insonnia.
Fatto sta, che tra le migliaia di vittime che avevo catalogato ed archiviato nei meandri della mia mente, c’era pure lei.
Ed era proprio quella lei, la marine che ammazzai, che ora avevo nuovamente innanzi, dopo secoli.
Era col soldato che stavo parlando. Era lei a detestarmi in quel momento, non la docente di lingue. Dovevo riuscire, in qualche modo, a far tornare a galla la mia professoressa, che mi adorava… che speravo, mi adorasse ancora.
 
“Non ho cattive intenzioni” le risposi immediatamente. Volevo mettere le cose in chiaro. Sapevo che, alla minima parvenza di minaccia da parte mia, avrei causato l’irreversibile. Stava già andando tutto a puttane da solo. Era meglio non inferire e, se possibile, redimere la considerazione che tutti i presenti avevano di me.
“Ciò che compii, lo feci in seguito ai traumi che subii. Ero in cerca di vendetta e solo a quella ho mirato. Non ho mai ucciso civili, solo nemici e avversari. E la Marina, mi perdoni, ma era la mia avversaria.” La vidi avere un tic all’occhio destro.
Avevo sfruttato un po’ troppo il “me” attuale e forse avevo scelto male le parole.
“M-ma in questa vita non ho avuto nessun tipo di esperienza negativa del genere e anche se mi capitasse qualcosa, non agirei più così sconsideratamente. All’epoca, persi tutto che ero solo un bambino, impazzii perché non avevo nessuno che mi aiutasse. Ero immaturo e inesperto. Adesso so qual è il bene e quale il male e la società aiuta le persone reduci da traumi. Inoltre, professoressa” e ci tenni ad enfatizzare questo titolo “siamo tutti morti. Non ci sono più marine, non esistono più i pirati. Siamo nuove persone. Io non sono un criminale. L’ultimo crimine che ho commesso, l’ho commesso quattrocento anni fa, con un'altra mente ed un altro corpo. Non voglio fare del male a nessuno… lei mi conosce. Tutti voi mi conoscete. Stiamo insieme sei ore al giorno, dal Lunedì al Venerdì da quattro anni e mezzo. Vi ho mai fatto qualche torto, anche cazzate? Considerate le nostre vite attuali e per un momento, mettete da parte quelle passate.”
 
Sperai di non essere sembrato banale o falso.
 
Osservai alcuni miei compagni abbassare il capo ed altri voltarsi. Non seppi se interpretarlo come un gesto di pentimento per essere partiti in quarta con me o se non avevano nemmeno la forza di guardarmi, forse dispiaciuti, ma spaventati o magari disgustati.
Vidi come la mia ex vittima rilassò, anche se di poco, le spalle ed il suo cipiglio fu meno marcato.
Sperai almeno in lei.
 
“Tieni a mente, Lawrence” mi misi sull’attenti. Quando un professore ti chiamava per nome e per giunta, il nome di battesimo, o stava per comunicarti la bocciatura o la morte di un tuo parente, mentre eri a lezione. Insomma, nulla di buono e tutto d’importante.
Eppure ebbi, sotto sotto, un guizzo di gioia.
Erano gli insegnanti a chiamarti in modo tanto confidenziale. Non i soldati.
 
“Mi sono personalmente resa conto che non farsi sopraffare dalla propria vecchia personalità è difficile” le tremava la voce, ma il suo sguardo era fermo. Convinto.
“Forse impossibile.”
 
Deglutii. Avevo ben inteso cosa voleva dirmi.
Forse ero troppo fiducioso nelle mie capacità di analisi e rielaborazione. Forse, le mie personalità non si potevano accettare e mescolare e presto, quella più forte, avrebbe soffocato l’altra.
Eppure, io pensavo di potercela fare.
Poco prima, ero riuscito a trovare il compromesso ideale per affrontare questa conversazione.
 
“Io ti ho conosciuto e so quale lurido bastardo era il Chirurgo della Morte” vidi il capoclasse strabuzzare gli occhi. Mentalmente sbuffai. Anche in situazioni del genere, quel leccaculo si preoccupava delle regole scolastiche riguardo il lessico dei docenti e degli studenti.
 
 
Poi, ebbi la conferma che il soldato si ritirò e tornò l’insegnante d’inglese, col suo tono ancora tremante, ma più dolce e rilassato.
“Ma so anche che adesso sei un ragazzo gentile ed educato. Voglio provare a credere alle tue parole, però… non posso dimenticare che mi hai ucciso e non sono certa di poter controllare perennemente la mia scorsa personalità. Forse, dico così perché sono influenzata dalla vecchia “me”, ma potrei anche, col tempo, arrivare ad odiare anche il te attuale. Non tornerà tutto come prima, giovane Trafalgar D Water Law. ”
 
“M’impegnerò affinché possiamo tornare alle vite di sempre, prof. Sono sicuro di poter controllare il Law pirata”.
 
Non ottenni più risposta.
L’insegnante costrinse la maggior parte dei miei compagni a riprendere posto. Subito dopo, suonò la campanella.
Come lei uscì dalla classe, loro di nuovo si alzarono e disposero in cerchio a discutere del sottoscritto e di come comportarsi d’ora in poi. Probabilmente, parlarono anche di cosa potesse essere successo perché tanta gente, anni fa, morì per lo stesso fenomeno, si reincarnasse e nessuno se lo fosse ricordato fino a quel giorno.
Comunque, queste sono mie ipotesi, perché io rimasi al mio banco.
Non potevo permettermi di avvicinarmi.
Il ragazzo davanti a me, Tom, era quasi scoppiato in lacrime quando la prof l’aveva costretto a sedersi e dunque a stare a neanche un metro dal sottoscritto.
 
Il professore dell’ora successiva non arrivò e passammo la quarta ora con uno dei tanti inservienti della scuola. In realtà, con un suo collega, poiché il primo bidello che entrò nella nostra classe, vedendomi,  svenne.
Col secondo che ci mandarono, decisi di indossare il cappuccio della felpa gialla e nera che portavo, contro le regole, al posto della camicia, sotto la giacca blu scuro della divisa.  
 
Mentre ero a testa china per non farmi riconoscere, fissando nulla di particolare, sentii l’uomo grassottello e pelato che ci doveva controllare, spiegare sostanzialmente cosa stava accadendo a scuola e probabilmente in ogni dove.
 
L’intero corpo docenti stava valutando come agire in circostanze tanto particolari.
Se continuare le lezioni o comunque tenerci a scuola, oppure se rispedirci a casa.
D’ambo le parti, c’erano problematiche legate agli eventuali shock e gli attacchi di bipolarità, di cui tutti, oramai, si erano resi conto.
Gli stessi insegnanti, mentre discutevano, erano talora i prof di quest’epoca e talvolta i loro corrispondenti dell’Era della Pirateria.
Il bidello, che presentii avere avuto un passato tranquillo e monotono, per l’incredibile compatibilità delle sue personalità ( dunque distinguibili a fatica, grazie solo all’abitudine del “vecchio lui” di mettere strani suffissi alla fine delle frasi) spostò l’argomento in più larga scala.
A quanto pareva, come già avevo intuito, l’umanità aveva deciso di fare un appassionato collasso di gruppo e per interminabili minuti, il mondo, si era fermato per chiunque.
Tutti avevano rivissuto la propria vita seicentesca e, anche se c’era scetticismo, era innegabile che il prolungatissimo flashback avuto sembrasse terribilmente reale e, con ogni probabilità, si trattava effettivamente della nostra precedente esistenza.
 
Che il fatto fosse avvenuto globalmente, era facilmente testimoniabile.
 
Al risveglio, molti avevano raccontato l’esperienza avuta sui social, mentre tanti altri si trovavano in luoghi affollati, a contatto con altra gente e si erano dunque ritrovati con altre persone nelle stesse condizioni.
C’erano pure stati parecchi incidenti, a quanto sembrava.
Solo nel continente del Mare Settentrionale, circa due milioni di persone aveva perso i sensi alla guida di qualche mezzo. Erano stati più di cinquemila gli schianti gravi, con automobili, moto, treni… aerei.
Miracolosamente, le vittime erano state pochissime, ma c’erano state.
Stetti male al pensiero di quante altre persone avevano perso la vita, nel resto del mondo, per ricordarne una che, magari, era stata una merda assoluta.
 
Finì pure la quarta ora e giungemmo all’intervallo.
Tutti si defilarono dalla classe e seppi che molti approfittarono della pausa per chiamare le proprie famiglie.
Io non avevo voglia di parlare coi miei. Sicuramente, anche loro si erano ricordati di essere stati uccisi. Non osavo pensare a Lamy, che era stata bruciata viva.
Non mi andava neanche di andare in giro e nemmeno sarebbe stato il caso, anche se avevo bisogno di recarmi in bagno.
 
Dovevo parlare con Maki e Christ. A loro nel passato non avevo fatto nulla di male, quindi in teoria non dovevano odiarmi, né temermi.
 
Alla fine, scelsi di andare a cercarli. Erano sicuramente insieme. Li conoscevo bene. Quando qualcosa andava male, ci isolavamo tutti e tre e andavamo a parlare al sicuro da orecchie indesiderate.
 
Sfilare per i corridoi del mio liceo, mi ricordò per qualche motivo quando, per salvare White Fox* che era stato imprigionato dalla Marina, finsi di essere sconfitto per venire incarcerato e attuare l’evasione, che con il resto dei miei adorati Heart, avevo pianificato per salvare il nostro nakama.
 
Ognuno si era ammutolito. C’era stata tanta confusione, prima che uscissi dall’aula, dovuta ai ragazzi ed i docenti che si confessavano vicendevolmente dei propri trascorsi seicenteschi e soprattutto, delle circostanze della loro morte, che aveva scioccato e scandalizzato tutti.
Poi, vedendomi, il silenzio più totale.
Dovetti ammettere, che essere ancora incapace di controllare la mia ex personalità, mi giovò molto, in quel processo.
La sicurezza e l’indifferenza del capitano dei Pirati del Cuore mi esternò completamente dagli sguardi pietrificati, gli insulti celati e le maledizioni mormorate che ricevetti.
Proprio come allora, quando fui costretto a marciare, ammanettato e pestato a sangue, davanti ad un’intera flotta della Marina, che scrutava ogni mio gesto, anche il più insignificante. I più spavaldi, o forse i più stupidi tra i soldati, mi gridarono oscenità e bestemmie, mentre i restanti stettero inermi, abominandomi mentalmente .
Quando giunsi al pontile che portava alla grande Prigione, mi voltai, sorridendo sinistramente e pregustando il momento in cui sarei evaso col mio compagno e avrei loro restituito tutta la dolcezza ricevuta.
Inutile dire, che il mio viso agghiacciante pietrificò tutti i presenti.
Dunque, ora mi trattenei dal ghignare, anche se un po’ d’orgoglio, colpa il ricordo appena emerso e la personalità in quel momento dominante, lo provavo.
 
Mi recai sulle scale antincendio della palazzina di chimica. Essa era localizzata ai margini del territorio scolastico, all’inizio del boschetto artificiale di betulle che delineavano il sentiero secondario per raggiungere il liceo.
Di solito, ci nascondevamo lì.
 
Li trovai accoccolati sui primi tre gradini, in silenzio.
La mia ragazza stringeva la sciarpa che le avevo donato e fissava nulla di definito.
Il mio migliore amico si guardava le mani, le sfregava e le ispezionava di nuovo, in un atto tormentoso e angosciante.
Compresi il perché.
Le sue mani, erano state le prime ad ammalarsi e morire.
 
“Hey…” cercai di essere il meno invadente possibile.
Stavano sicuramente rimuginando su come perirono e chissà, magari anche su di me, ma forse ero troppo egocentrico.
Sembrava che fossi l’unico non scombussolato dal fatto di essere morto, una volta. In realtà, ero molto scioccato, ma insieme alla mia fine, mi sono ricordato di saper gestire fin troppo bene le emozioni ed i sentimenti e di nasconderli sotto una maschera di impassibilità.
Inoltre, la cosa che più mi affliggeva, non era l’averci rimesso le penne, ma non ricordare cosa fosse successo.
 
“Law, vieni” Christ mi ridestò dal mio sproloquio interiore.
Mi avvicinai, arrivando di fronte a loro.
La cosa strana e che mi diede sui nervi fu che, adesso che mi occorreva la saggezza dell’uomo di trentadue anni che ero stato, la mia ex personalità aveva deciso di farsi una dormita e lasciare al Law che conosceva Maki e Christ diciassettenni, il compito di capirli e aiutarli.
 
“Volete parlarne?” wow, inizio davvero originale, mi ritrovai a pensare.
Però nessuno dei due pareva avermi sentito. Christ era tornato a sfregarsi e grattarsi le mani, che ormai erano rosse e irritate, ripetendo a bassa voce il mio nome, mentre la mia Maki si era sotterrata ulteriormente il viso nella sciarpa e del suo volto vedevo solo la fronte e le sopracciglia curate.
 
Afferrai le mani di Christ, che provò a ribellarsi e urlando delirava qualcosa circa il pallore dei suoi dorsi e la cancrena sulle sue dita.
“Christian, guardati le mani, cazzo. Sono rosse, non bianche, rosse! Ti stai ferendo inutilmente”
“No, Law, sono morte, sono morte, dannazione! Pure le mani della mamma sono morte e mio padre è morto e la Sorella è bianca in faccia. Law, vieni, devi venire con noi sulla nave, hanno detto che ci risparmieranno.” Fu allora che capii, che per l’ennesima volta, non stavo parlando con la persona che conoscevo di quel millennio, ma con la stessa che però visse nel diciassettesimo secolo.
Quello che avevo innanzi non era il Christian quasi maggiorenne, ma il bambino di Flevance che mi pregò di scappare col resto della nostra classe. Allo stesso tempo, quel bimbo vedeva in me il suo compagno Law di otto anni.
La situazione di chi era morto violentemente era già delicata in condizioni normali, ma se si aveva lasciato questo mondo da bambini, le cose si complicavano drasticamente.
La mentalità di un bambino non è debole, al contrario è tenace e imprevedibile, ma nemmeno è adatta a vivere nel corpo di un adulto.
“Hey, bello, calmati, torna in te. Guardati le mani, guardale!” al mio grido, che feci appositamente suonare come un rimprovero, il “piccolo” Christ ubbidì, dando un’occhiata a ciò che stava martoriando. “Sono grandi le tue mani e sono rosse. Non sono le mani di un bambino ammalato, sono quelle di un adolescente coglione e masochista!”
“… loro non ci hanno salvato, Law. Ci hanno sparato.” Mi sembrò di udire un tono più maturo, ma rotto da singhiozzi e fremiti.
“Tu stai bene, adesso, capito? Nessuno vuole spararti. Sei al liceo, un posto sicuro.”
Smise finalmente di tentare di infliggersi altri danni e mi guardò con gli occhi lucidi.
“Ci hanno messo in fila indiana di cinque, inginocchiati uno dietro l’altro. Io ero l’ultimo della fila. Ho cercato di alzarmi e fuggire, ma i soldati mi dissero che non potevo scappare, era contro la legge. Io non capii e loro mi spiegarono che era colpa delle mie mani. Non erano in regola. Erano pezzi di cadavere.” deglutii e lo abbracciai. Ero molto goffo negli atti di conforto, ma fortunatamente il “me” apatico e riluttante alle smancerie non c’era adesso ed evitò di rendermi ancora più  impacciato e inefficace nel mio intento.
“Poi hanno puntato il fucile sul cranio di Paul che era il primo della mia fila e… non me lo ricordo molto bene.” gemette “Ricordo come se nella mia visione vi fosse un buco nero al centro e ai lati vedevo delle figure, molto sfocate e c’era tanto rosso, che si espandeva sempre più. Una cosa l’ho sentita però, le orecchie mi funzionavano.”
“Basta così” ma non mi diede retta.
“Non potevano sprecare proiettili per la piccola feccia in putrefazione. Molto meglio trafiggere cinque teste con un solo proiettile. Anche se gli ultimi non morivano subito, per la mancanza di forza del colpo, l’avrebbero fatto agonizzando dopo qualche ora.”
 
Non sapevo cosa dirgli. Anche io avevo sofferto lo stesso tartaro, ma non n’ero uscito con un buco in testa. Avevo penato ed ero stato torturato e ferito mortalmente decine di volte, eppure, nonostante l’esperienza, la capacità di comprendere il suo dolore, non ero in grado di confortarlo. Perché io dovevo essere ucciso a otto anni ed invece fuggii. Dovevo perire a dodici anni e tre mesi ed invece guarii. Dovevo soccombere alla Family a ventisei anni ed invece vinsi io la guerra. Io morii a trentadue anni. Non a otto.
 
Lo sentii mormorare qualcosa e quindi mi allontanai dal suo corpo il tanto che bastava per guardarlo in faccia.
“Cosa?”
“Perché… perché tu sei sopravvissuto?”
Non  riuscii a recepire se intendesse sapere come avevo fatto a scamparla o se mi stava accusando di essere l’unico ad avercela fatta. Volli credere alla prima interpretazione. 
“Vedi, quando i soldati hanno fatto irruzione all’ospedale, io stavo nascondendo Lamy nel suo armadio e quindi non siamo stati mitragliati.” Notai che mi stava ascoltando. Fu un sollievo, perché significava che era quello che voleva sapere. Non mi stava incolpando.  “Poi, quando mi sono accorto dell’accaduto, ho cercato di raggiungere i miei e mio padre mi ha indicato il sentiero secondario del nostro giardino per scappare, poco prima di essere maciullato dai proiettili. Sono stato inseguito dai marine, ma sai bene quanto fosse labirintica Flevance; li ho seminati. Nel frattempo, avevano dato fuoco a casa mia e senza più Lamy, ero deciso a raggiungervi, ma vi ho trovati morti.” Abbassai lo sguardo e aspettai una sua qualsiasi reazione. Non arrivò, così continuai. “A quel punto, volevo morire anche io. Cioè, sarei morto comunque per il Piombo Ambrato, tanto valeva andarmene con i miei amici, ma devi perdonarmi Christ” nel caso ce l’avesse con me “cambiai idea nel giro di qualche ora. Mentre mi avvicinavo ai vostri corpi, sentii alcuni ufficiali parlare… ridevano, ridevano di quel che ci era successo, Christ!” lui sgranò gli occhi e Maki riemerse dalle coltri della sciarpa. Fu il primo segno d’interesse che mi mostrò da quando li avevo raggiunti. In quel momento, però, l’odio che avevo coltivato per tutta la mia scorsa vita stava pian piano riemergendo e formandosi e non ci feci troppo caso. Stavo, per la terza volta, rivivendo quella tragedia. Ora ero il Chirurgo della Morte ed ero incazzato.
“E furono le loro parole a convincermi che nei quattro anni che mi rimanevano, dovevo vendicarci. Sai cosa dissero? Che la malattia del Piombo Ambrato non era contagiosa! Come aveva intuito mio padre. Ma pensammo che il Governo non lo sapesse, per questo ci avevano isolato. Invece il Governo ne era a conoscenza, ma la nostra gente gli era scomoda; spese per ricercare la cura, produrne a sufficienza, assistere i malati… e poi, a quanto pare, il nostro commercio e le nostre scienze erano troppo prolifere ed evolute. Erano una fastidiosa concorrenza. Perciò, avevano preso la palla al balzo. Questo dissero, mentre trascinavano il corpo della Sorella per i piedi, strappandole le carni del volto per terra… . E continuavano a ridere mentre stuprarono le ragazze dell’oratorio ancora in vita… ed io non potevo fare niente, in quel momento. Mi avevano sparato in più punti ed ero traumatizzato.” Sputai l’ultima frase con rabbia. Detestavo sentirmi debole in questa vita e presumibilmente era dovuto all’impotenza che ebbi nell’altra, in quelle circostanze.
I miei compagni mi fissavano scandalizzati. Non sapevo bene per cosa, se per le rivelazioni appena acquisite, per la tragicità del racconto o per il volto che il Chirurgo della Morte aveva mostrato solo alle proprie vittime, prima di renderle tali. Non mi resi conto di starlo esibendo, però.
Nemmeno ci accorgemmo che la campanella era suonata già da almeno cinque minuti e che gli studenti che prima vedevamo in lontananza, si erano dileguati.
“Mi nascosi sotto a un mucchio di cadaveri, che venivano portati in periferia per essere bruciati e potei sorpassare il recinto che avevano eretto attorno la città.” In quel momento mi tornò alla mente il seguito della mia vita. La Family… Cora-san ed il suo volto, buffamente sorridente, repressero i sentimenti negativi e tornai ad uno stato mentale normale. Fu solo allora, che mi accorsi di aver assunto il mio peggior volto ed il tono più glaciale che potessi permettermi di fronte a due delle persone a cui tenevo di più nella mia attuale esistenza.
 
“Mi dispiace!” mi ritrovai a gridare, senza pensarci troppo.
Loro mi guardavano confusi e pallidi in volto.
Odiavo quella cazzo di bipolarità. Era come se entrassi in uno stato di convalescenza, quando una delle due personalità prevaleva eccessivamente sull’altra. Tutto il mio essere non percepiva contemporaneamente il mio agire ed una volta di nuovo pienamente cosciente, ero in lotta con me stesso, perché una metà di me era spesso in disaccordo per ciò che avevo appena compiuto.
 
“Amore…” mi voltai di scatto verso Maki. Non potevo credere che dopo avermi sentito parlare con tanto odio e ripugnanza ed avermi visto con gli occhi iniettati di sangue ed il volto corrucciato in un indecente ghigno, potesse ancora chiamarmi così.
“… che razza di vita hai avuto?”
 
Beh, non era stata tutta rose e fiori, ma non mi pareva il caso di lamentarmene. Innanzitutto avevo paura che ricordare il passato potesse far prevalere il pazzo omicida che era (in quel momento) tornato a riposo e poi, quelli che avevano bisogno di sfogarsi erano Maki e Christian. Scelsi di fare un sunto di quello che avevo passato, giusto per mettere le cose in chiaro. Volevo essere sincero con loro.
“Non so cosa vi abbiano raccontato gli altri. Vi pregherei di non credere a tutto, ma nemmeno di dare per scontato che siano bugie o esagerazioni.” Mi accorsi che l’intervallo era terminato, ma volevo concludere il discorso. “Divenni un pirata, il capitano degli Heart Pirates. Conquistai il titolo di imperatore del Nuovo Mondo.” Il mio amico sollevò lo sguardo, sinceramente emozionato. Non seppi se stesse facendo prevalere il “piccolo” Christ e l’eccitazione nei suoi occhi fosse per il sogno che ogni bambino ha, ovvero quello di diventare un grande pirata.
“Uccisi migliaia di persone.” La luce nei suoi occhi si spense, ma non mi sembrò eccessivamente turbato. Anche Maki mi scrutava attenta e seria.
“Le mie vittime furono tutte nemici, persone orribili come me. Non coinvolsi mai innocenti. Non uccidevo per divertimento, anche se venni definito il Chirurgo della Morte per alcune brutte abitudini che avevo…” adesso la mia fidanzata mi diete un’occhiata curiosa. Penso avesse intuito che ero un fissato della medicina e degli esperimenti anche in passato, ma preferivo non raccontar loro delle dissezioni che conducevo. Ero davvero deviato mentalmente. Ricordo perfettamente che conservavo alcuni pezzi di cadaveri nel frigorifero della cucina del Polar Tang, causando esaurimenti nervosi al mio chef.
Perciò, decisi di aver terminato con le memorie.
“Ah, ragazzi, mi sa che è suonata da un pezzo.”
Non ero sicuro di come avessero assemblato le nuove informazioni circa il nostro passato, ma non mi sembrava di essere andato troppo male. D’altronde, mi avevano rivolto la parola e ora stavamo camminando insieme verso la nostra aula.
 
Entrarono loro per primi, senza scusarsi per il ritardo per l’inizio della quinta ora. Il prof di matematica stava per rimproverarli, quando vedendomi, s’irrigidì e decise di lasciar perdere.
 
Mi sedetti al mio posto e fu impossibile per me, Christ e Maki, che passarono di fianco al mio banco, non notare l’enorme incisione su di esso: “MOSTRO”.
 
Se fossi stato un perfetto mix dei miei caratteri, come lo sono ora, quella frase non mi avrebbe minimamente scalfito. Invece, allora, mi mancò un respiro.
 
Non ero mai stato oggetto di bullismo e quel gesto poteva essere considerato solo un pessimo scherzo, ma mi dispiacque.
Se avessi saputo che di lì a qualche giorno, sarei stato vittima di infinite, infantili crudeltà ed avrei sofferto a livelli totalmente differenti, allora avrei riso.
 
Quel dì, però, non ebbi il tempo di preoccuparmene per più di cinque minuti, perché un inserviente, giunse trafelato alla porta della mia classe.
Non badai nemmeno al fatto che non aveva paura a rivolgermi la parola, ne riconobbi che si trattava di Mr.Two, perché tra un respiro e l’altro, riuscì a portarmi la notizia.
 
Mia sorella aveva avuto un attacco di shock, seguito da uno epilettico.
 
 
*Come ho detto anche in un’altra mia fiction, mi piace pensare che i membri della ciurma di Law (visti Shachi, Penguin e Bepo) abbiano nomi di animali antartici :)

 
Dunque adorati, siamo giunti alla fine del primo capitolo.
Spero di non averlo reso ripetitivo e noioso, ma ho trovato davvero difficoltoso rendere il trauma della bipolarità e farvi capire al meglio i sentimenti e gli stati d’animo dei personaggi e in particolare la loro psiche scombussolata, senza dover sottolineare e specificare alcuni passaggi più volte.
 
Se avete consigli su come trattare un tema tanto delicato, sono tutta orecchi.
 
Fatemi sapere, in generale, se vi ho incuriosito un po’ di più e se vi è piaciuta la presentazione della nuova esistenza di Law ♥

 
A presto
Baci,
Pawa
   
 
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