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Autore: Makil_    09/03/2017    3 recensioni
"Sarebbe entrata nel bosco col capo alto, fiero, e lì avrebbe portato la giustizia bianca dei suoi poteri: avrebbe dato a Pancrazio il dono che la morte le aveva dato un tempo, giusto per vederlo soffrire come aveva sofferto lei. Giusto per vederlo morire, proprio come era morta lei. Sheyla moriva ogni giorno, ogni volta che il riflesso del suo volto impresso nelle acque o nel vetro di qualche ampolla le ricordava chi era diventata a causa di chi".
Storia partecipante al Contest "L'Aquila e il Falco" indetto da Jadis_ sul forum di efp.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                       Il bacio del fuoco


L’ombra di Sheyla era distesa sul prato, sinuosa ed elegante accanto alle fiamme brulicanti.
La donna non aveva avuto neppure un ripensamento sul gesto che aveva fatto, almeno fino ad allora. Riuscì a fingere di non avvertire il puzzo di cenere che risaliva nell’aria per un paio di minuti, pur sapendo che, da lì a poco, sarebbe volato via lungo tutto i confini del cottage, pronto ad inondare le sale di fuliggine e arsura e la foresta di fumo e nubi grigie. Il suono dello scricchiolare degli arbusti secchi spezzati e corrosi dal fuoco le fece provare una sensazione di goduria che non avvertiva ormai da anni. Si era preparata a lungo per quel giorno, tanto di più per quell’esatto momento, ma ora che ce lo aveva davanti agli occhi non riusciva proprio a vederne la bellezza che lo aveva contraddistinto fino ad allora nella sua mente. Le fiamme stavano avvolgendo nelle loro spire i vari ramoscelli di alloro e melo che, baciati dalle calde labbra del fuoco, erano ormai divenuti un tutt’uno con l’aria, trasformate in essenze e profumazioni silvestre disperse nel vento.
Sheyla si avvicinò al rogo che aveva preparato con cura, facendo attenzione che le mille stoffe che la ricoprivano, sorrette da una mano al petto, non finissero a contatto con il fuoco. Non appena fu abbastanza vicina, alzò le mani al cielo. Sotto le stelle e la luna di quella notte gelida, il fuoco continuò ad ardere i rami di melo ed alloro senza curarsi dei gesti della strega. Sheyla non si preoccupò dell’indifferenza delle fiamme che aveva creato, in quanto era stata abituata a vivere nella poca considerazione che perfino la vita aveva avuto di lei.
Raccolse dal grande cestino di vimini posato ai piedi del rogo altri tre rami di alloro e, con un gesto altrettanto indifferente, li mandò a bruciare in mezzo all’enorme rogo al centro del prato, assicurandosi che finissero nel cuore delle fiamme.
«Per questa notte e per tutte le notti a venire!» mormorò afferrando un altro ramo dal cesto. Si trattava, questa volta, di un arboscello di menta, che si contorse e si incartapecorì non appena fu accolto dalle fiamme. Menta significava amore, Sheyla lo sapeva bene. “Un amore che muove ogni cosa e che finisce per corrodere il cuore: come il fuoco!”. Aveva imparato, malgrado l’avesse fatto a sue tristi spese, che l’amore era un fuoco pronto a bruciare chi, come lei, vestito di mille stoffe differenti, non era capace di trattenere bene il cuore all’interno del petto. Quello che aveva preparato era un rogo di riscatto dalla vita contro la morte, un nido di fiamme pronte a conferirle potere, forza e speranza, di cui Sheyla si sarebbe servita per il suo scopo prediletto: avere vendetta.
Si chinò un’altra volta sul prato già grigio di cenere, le mani immerse nel cesto in cui giacevano le altre piante che aveva ricercato a lungo nel bosco. Le erano serviti numerosi anni per poter preparare quel rogo, un grandissimo numero di giorni per poter trovare tutte quelle tipologie di arbusti sperduti nei vari angoli del bosco. Sperava almeno di non aver scordato nulla, proprio come le aveva sempre ricordato il suo mentore più saggio: l’antico tomo impolverato di incantesimi, sortilegi e maledizioni che giaceva abbandonato in un oscuro cassone del suo cottage, al coperto da sguardi indiscreti.
«Per questa luna e per tutte le lune a venire!» sibilò senza neppure distogliere lo sguardo dalle fiamme, ora più vivide che mai. Gettò nella pira tre rami di mandorlo profumanti e lisci, lasciando che si dimenassero come braccia umane nell’intricato ammasso di lingue rosse. Il mandorlo era sinonimo di rinascita e resurrezione, di cambiamento. Un mandorlo sapeva quand’era ora di trasformare il nero in bianco, il bianco in nero. Sheyla, fino ad ora, non aveva mai amato il cambiamento, ma aveva preferito restarsene ammantata di grigio, protetta dal pretesto che le aveva fornito anni orsono la morte. Lei era riuscita a vederla poco dopo essere stata ingannata dal suo amante, bianca, stagliata contro la coltre oscura di ombre. Sheyla aveva visto la morte e da lei aveva avuto un regalo: il dono della vita. Era morta con le sembianze di un folletto, la creatura che era stata prima di abbandonarsi nel giaciglio di foglie del mostro che l’aveva ingannata, ed era risorta come donna, umana, dotata di carne ed ossa come tutte le altre. Sheyla, da allora, era stata chiamata con diversi appellativi, ma quello che più sembrava preoccupare il popolo era il nome di strega. La morte aveva voluto concederle il dono di una forza eterea, pura, e per questo aveva infuso in lei la stregoneria: una forma di potere di cui Sheyla non era mai stata sazia. Come ogni strega delle leggende popolari o delle fiabe per bambini, Sheyla aveva un potere unico che le scorreva nelle vene insieme al sangue. Lei era capace di generare sfere di energia allo stato puro, bianco, attraverso le quali poteva causare morte e distruzione, corrodere i corpi e bruciare le cose.
Avrebbe chiesto volentieri indietro la sua vita da folletto, uno spirito vago e indefinito dei boschi, e avrebbe preferito lasciarsi alle spalle il suo cottage, il suo manuale d’incanti e quelle fiamme oscure. Se c’era una cosa di cui poteva essere grata alla morte, era la voce che le aveva conferito il corpo in cui era stata costretta a giacere per tutti questi anni. Infatti, con le sembianze di una donna umana, Sheyla aveva ottenuto una voce soave, melodiosa, in grado di irretire gli animi e di confondere le menti dei più stolti. Questo le aveva dato il piacere di dedicarsi al canto più di ogni altra cosa e di trascorrere le sue giornate oziose a canticchiare nenie di cui non ricordava neppure più le origini. Ma quel dono non le bastava più. Fino ad allora, perciò, la vita di Sheyla era stata solo un duello, una grande e misteriosa battaglia senza fine, un complesso testa a testa con la morte, con il cui solo aiuto avrebbe potuto riprendere la vita che le apparteneva. E ora, forse, con quelle fiamme a così ravvicinata distanza, lei avrebbe avuto il riscatto di una vita.  
«Per queste stelle e per tutte le stelle a venire!» cantò rivolgendo gli occhi al cielo cupo di quella notte. Erano le nubi che si levavano dalla pira di fiamme a renderlo così impuro, quasi fosse un cielo d’acciaio. Afferrò i rami di quercia che aveva raccolto un lontano pomeriggio passato e li lanciò ad incenerirsi tra gli altri. La poca grazia che utilizzò nel farlo fece sollevare un’ondata di calore verso di lei, che la ricoprì dalla testa ai piedi.  La quercia era la forza della morte, la magnificenza della vita, la maestosità di entrambe: tutte qualità che le sarebbero servite nel bosco. Quella notte come mai la sua mente era concentrata su un unico obbiettivo; stanare dal bosco colui che aveva assassinato la sua vita e che  l’aveva costretta ad un corpo umano perfetto, magico. Quella notte come mai Sheyla pensava solo e soltanto alla forza con cui avrebbe affrontato il suo aggressore, colui che era stato suo marito, il suo amante e il suo confessore per molto tempo nel bosco. Il nome di tutte le sue disgrazie era Pancrazio, il folletto che aveva amato fino a quando aveva avuto modo di vederlo con sé, fino a poco prima che lui le rovinasse la vita e la morte. Un essere informe di cui non avrebbe sentito più il nome volentieri.
Quel rogo si innalzava lì per lui, per benedire l’impresa che avrebbe condotto Sheyla nelle cavità più oscure del bosco, che l’avrebbe condotta nella tana dell’impostore che aveva amato a lungo e che le avrebbe dato il potere di ucciderlo una volta per tutte.
«Per queste nubi e per tutte le nubi a venire!» intonò chinandosi ad afferrare i fiori spinosi di rosa. Afferrare tra due dita quella pianta le fece colare due rivoli di sangue dai polpastrelli, che finirono per dilatarsi a dismisura giù per le mani, sotto la tunica e lungo le braccia. Questo la fece ridere e le diede forza. Gettò tra le fiamme anche quei fiori, il cui colore si disperse nel rogo divenendone parte. La rosa, sinonimo di eleganza, purezza, innocenza e tormento si disintegrò come tutte le altre piante che la strega aveva dato in pasto alle fiamme. Sheyla era stata pura e innocente un tempo, così come lo erano state le cose di cui aveva amato circondarsi: il bosco, la casa, gli amici, l’amante e la vita. Ma ora la purezza delle cose era volata via come foglie spazzate dal vento, lasciando la donna scoperta, imprigionata in un corpo che non le apparteneva, impuro e umano. Una parola che le aveva sempre dato allo stomaco più del puzzo dei cadaveri e del gusto del sangue. A quel punto del rituale riuscì a sentire il piacere che le stava dando quel sortilegio, purificando la sua anima e preparandola alla resa finale. Sarebbe entrata nel bosco col capo alto, fiero, e lì avrebbe portato la giustizia bianca dei suoi poteri: avrebbe dato a Pancrazio il dono che la morte le aveva dato un tempo, giusto per vederlo soffrire come aveva sofferto lei. Giusto per vederlo morire, proprio come era morta lei. Sheyla moriva ogni giorno, ogni volta che il riflesso del suo volto impresso nelle acque o nel vetro di qualche ampolla le ricordava chi era diventata a causa di chi.
Una lacrima le solcò di netto il viso.
«Per queste lacrime e per tutte le lacrime a venire!» cinguettò tenendo a bada il dolore. Mordendosi la lingua tra i denti, si chinò per afferrare il lungo ramo di cipresso, così distante dalla grandezza degli altri che dovette dividerlo in tre distinte parti, preoccupandosi di spaccarlo sulla coscia prima di gettarlo nel caldo abbraccio delle fiamme. Il cipresso cosparse l’aria di un odore forte ed aspro. Trattene il disgusto pur di continuare il rituale, per cui, almeno secondo il manuale, il cipresso era uno dei tre fulcri dell’evento. Ciò che simboleggiava il cipresso era il lutto e la longevità. Lei era una creatura luttuosa, dalle cui vene poteva liberamente sgorgare acqua nera macchiata di ricordi amari e speranze assopite piuttosto che sangue. Sapeva, infatti, che questo apparteneva all’uomo, e lei lo aveva ereditato quando la morte le aveva concesso il dono della vita umana, distruggendo la sua dopo essere già stata disintegrata da Pancrazio. Avere il sangue dell’uomo voleva dire essere un uomo, e lei non apparteneva a quel mondo di paura e desolazione a cui era abituato il popolo del borgo. La sua vita era nel bosco, lei era una creatura degli alberi, non una strega malvagia costretta a rimanere rinchiusa in un cottage e stimolata dal solo piacere di voler far soffrire chi le aveva dato quel dolore da sopportare. Quando le memorie di tutto il dispiacere che la colmava ripresero il sopravvento nella sua mente offuscando la visione del bosco, Sheyla si ritrovò ad essere più umana di quanto non si aspettasse.
Pancrazio le aveva rovinato ogni cosa, solo per il piacere di servirsi del suo animo. Ricordava come erano andate le cose, anche se forse avrebbe fatto meglio a non farlo. Infatti, seppur volesse credere il contrario, Sheyla aveva avuto più di una colpa nell’accaduto che l’aveva trasformata in quella bestia dalla pelle rosea. Era stata lei a desiderare una vita immortale ed era stata lei a costringere Pancrazio a lavorare su una mistura in grado di farla rimanere intatta, speciale, eterna. Il suo amante, l’ingrato folletto di cui tanto ora il suo cuore doleva, le aveva assicurato che le avrebbe dato ciò che la sua dolce creatura chiedeva. Così Sheyla aveva atteso per molte lune la preparazione del dolce infuso di miele ed erbe dei boschi più oscuri, che, solo secondo le parole consolatorie di Pancrazio, le avrebbero infuso il dono dello splendore celeste, la bellezza degli astri e la lucentezza del sole. Insomma, bevendo il contenuto della fiala fornitole da Pancrazio, Sheyla sarebbe diventata un’angelica presenza dei boschi, un folletto puro, in grado di viaggiare per l’eternità. Ma Pancrazio non aveva fatto altro che prendersi gioco di lei, sminuendola ed eludendola solo per potersi dedicare ad un altro folletto femmina di cui si era invaghito. Sbarazzarsi di lei fu semplice come l’ardere una pigna. Al folletto che aveva tanto amato bastò assicurarle ciò per cui Sheyla aveva pregato a lungo: la vita eterna. Eppure, Sheyla non aveva mai avuto nulla di tutto ciò, per quanto le sue labbra avessero saggiato davvero l’infuso del folletto. Quello che Pancrazio le aveva dato a bere era stato il frutto amaro di un disprezzo serbato a lungo, solo e soltanto un veleno dolce e verde come la linfa degli alberi, che l’aveva distrutta dall’interno e  che l’aveva uccisa dinanzi agli occhi del suo uomo. Infine, in sogno, Sheyla aveva visto la bianca purezza della morte, il fascino del suo esile corpo latteo mischiato alla sua immensa fragilità, che le aveva ridato la vita ad una condizione: che fosse una vita lontana da quel mostro; una vita da umana. Per quanto l’idea fosse sembrata discreta alle sue orecchie da folletto, Sheyla non aveva mai imparato ad apprezzare quel dono e piuttosto aveva tentato di togliersi invano la vita. Non c’era mai riuscita, però. L’unica cosa di cui era certa, dunque, era che se non poteva permettersi di morire, allora avrebbe fatto in modo di dare la morte a Pancrazio, dal cui evento, almeno, avrebbe gioito come quando la sua vita era spensierata tra i boschi.
Sheyla, la strega che ormai stava danzando a ritmo del fuoco, non chiedeva altro. Ora che si dimenava come un albero scosso dal vento, Sheyla stava intuendo tristemente di non essere neppure più una donna. Sapeva che le donne non si comportavano in quel modo; loro era molto più delicate, fragili ed aggraziate. Quel circolo vizioso avrebbe avuto fine nella sua morte, perché una donna che sa di non essere più donna altro non può sperare se non che di morire, lasciandosi alle spalle il cottage, il rogo, il bosco, la vita ed il cuore. Aveva imparato a non temere più la morte, ormai parte essenziale del suo corpo, ma non aveva mai imparato a non desiderarla, sapendo che non c’è folletto più triste nel bosco di quello che soffre per non poterlo più essere.
«Per questi sogni e per tutti i sogni a venire!» urlò al centro del prato afferrando dal cesto tre cipolle rosse. Aveva raccolto quei tre tuberi la mattina stessa, nell’attesa che il rogo fosse innalzato adeguatamente. Con una forza che non le apparteneva neppure, la strega scagliò le cipolle tra le fiamme ardenti. Il manuale di stregoneria le aveva suggerito che la cipolla era il dolore allo stato puro, l’unico frutto della natura capace di far piangere l’uomo. Le cipolle rosse, più di tutte altre, simboleggiavano la falsità e l’inganno della mente. Questo, decise, le sarebbe servito quella notte più che mai, quando le sue spoglie avrebbero abbandonato il suo corpo da strega per tornare, almeno per poche ore, nelle sembianze di un folletto. Sheyla si sarebbe inoltrata nel bosco nelle sembianze del corpo che le era appartenuto, e avrebbe posto fine ai respiri di Pancrazio attraverso la magia che lui stesso, inconsapevolmente, le aveva fornito. Lasciandosi cullare dal suono delle fiamme brulicanti vide che delle tre cipolle non era rimasto più nulla. Ai suoi piedi il cesto di vimini era tornato vuoto.
Sheyla chiuse gli occhi e restò per qualche minuto a respirare l’aria attorno al rogo, ormai satura dell’essenza del bosco e del tanfo del fumo. Inspirò tre volte a pieni polmoni, lasciando che l’aria grigia e bianca le entrasse nel corpo, scorresse nel suo sangue e si mischiasse con la sua pelle. Chiuse gli occhi e portò le mani in cielo, ancora una volta.
Il corpo che la morte le aveva donato non era assolutamente brutto. Sheyla era, infatti, una donna dalle forme aggraziate e sinuose, dalla pelle diafana in pieno contrasto con i suoi occhi neri. I lunghi capelli corvini scossi dal vento della notte le si agitavano irrequieti sul capo. Il suo volto longilineo, il mento sporgente, il naso adunco e fine, le labbra sottili e quasi invisibili facevano del corpo della donna una figura capace di incutere timore allo sguardo. Per l’occasione, la strega aveva indossato una lunga ed elegante veste viola dall’alto colletto bianco, in parte sormontata da un piccolo medaglione luminescente che prendeva vita ogni volta che Sheyla utilizzava i suoi poteri. La lunga figura della strega proiettava un’ombra ancora più lunga sul prato, e il mantello scuro che aveva sulle spalle svolazzava seguendo il movimento delle fiamme.
Le piante bruciate stavano avendo l’effetto che Sheyla aveva letto nel manuale. Più le fiamme bruciavano, più i suoi polmoni respiravano quell’aria malsana, più il suo cuore si riempiva d’odio e di dolore, di tutte le caratteristiche che possedevano gli arbusti che aveva sacrificato alla luna.
Il dolore la coprì dalla testa ai piedi, rabbuiandole il viso come un’ombra. Sheyla iniziò a ghignare sotto le stelle, con una risata stridente ed assordante. Era convinta a voler portare avanti quell’incantesimo delle fiamme.
Quando la rabbia le entrò nelle ossa, i suoi lineamenti si fecero duri.
«Maledetto!» urlò con una voce che ormai non le apparteneva più. «Lurido essere dei boschi! Io avrò la tua vita. Io avrò il tuo corpo. Io avrò il tuo sangue». Sheyla spinse avanti la mano e sfogò la sua tensione verso le fiamme. Una serie di sfere luminescenti le fuoriuscirono rapidamente dal palmo aperto, bianche e pure. Le onde di luce si scagliarono ripetutamente sul rogo per sei volte e alimentarono ancora di più la fiamma viva. Gli urli strazianti della strega, i suoi lamenti di dolore e i suoi pianti di odio ora erano più forti, più vivi: esattamente come la fiamma.
Aprì il taschino della sua lunga veste ed estrasse, infine, l’ultimo elemento da sacrificare. Afferrò quella fialetta verde con una sola mano, stringendone il ventre rigonfio con le dita. Quello che cingeva era l’elemento chiave del suo sortilegio oscuro, una pozione avuta in cambio del suo sangue. Era stato Illymio, un noto folletto del bosco, a donargliela, chiedendole un pagamento col sangue e col dolore. Illymio si era sacrificato per lei ingannando Pancrazio, il Signore dei Signori Folletti, Colui che vede e sente tutto, ed era morto per aiutarla a riavere la sua vita. “Quando avrò riavuto il mio corpo sterminerò tutti coloro che ci hanno assassinati” pensò riflettendo su Illymio. “E loro non avranno nessuno che li vendicherà”. La fiala era fatta di vetro chiaro e lucente, solcata da striature di ferro grezzo e scuro del bosco, che l’avvolgeva nel tappo sormontato da un cristallo ambrato, nel collo dalla lunga catenella e nella pancia. Al suo interno era visibile l’essenza pura ed incontaminata dal bosco, concretizzata nella presenza di una foglia dell’albero cuore. Il contenuto di quella fiala era la possanza degli alberi, la linfa delle piante, i versi degli animali, l’essenza dei fiumi, il cuore dei folletti. Quella fiala le avrebbe conferito l’aspetto che aveva posseduto prima di morire: Sheyla sarebbe divenuta per poche ore un folletto, agli occhi degli altri, lo stesso che era prima di essere uccisa da Pancrazio. Solo in questo modo avrebbe potuto attraversare indisturbata i reami del bosco e ritrovare il suo assassino.
Stappò la fiala e mandò altrove il tappo. Il contenuto non aveva alcun odore.
«Per il mio sangue e per il tuo, folletto». Fino ad ora si era ostinata a non chiamare per nome il suo assassino. Il prossimo passaggio, però, richiedeva che la causa del dolore uscisse chiara dalle labbra del sofferente. «Per le mie ossa e per le tue, Pancrazio». Gettò la fiala in mezzo alle fiamme. Quando questa toccò la loro luce, il rogo si colorò per un istante del verde delle foglie del bosco. Sheyla guardò ad occhi spalancati l’enorme esplosione di fiamme verdi guizzanti e schioccanti come fruste.
Adesso sapeva bene cosa doveva fare: l’ultimo passaggio prima della morte. Avrebbe lasciato il suo corpo da donna per tornare ad essere, per qualche ora, un folletto. Da lì a poco, le fiamme avrebbero smesso di bruciare così insistentemente e la magia si sarebbe affievolita sempre più. Quello era esattamente il momento giusto per terminare il rituale.
Slacciò i due cordoni che le legavano i polsi alle maniche e sbottonò uno per uno i piccoli bottoni dorati della lunga veste. Sciolse il nodo che aveva sotto il colletto bianco, lasciandosi ricadere il mantello alle spalle. Allentò la cintura nera legata strettamente al bacino e sganciò la collanina con il medaglione luminescente. Sheyla scivolò fuori dalle sue vesti nel cuore della notte, lasciando che la sua pelle nuda venisse baciata dal gelido tocco del vento.
La strega si avvicinò un passo alla volta al rogo, i fianchi che ondeggiavano da un lato all’altro. Sheyla stava piangendo senza conoscerne il motivo; forse le cipolle avevano avuto l’effetto descritto dal libro. Se l’incantesimo non avesse funzionato, il suo corpo sarebbe stato ridotto ad un ammasso di ceneri nere poco differenti da quelle degli arbusti.
Rimase per un paio di secondi a fissare la pira che aveva di fronte, spalancò le braccia e si gettò con noncuranza nell’abbraccio del fuoco. La danza delle fiamme continuò per tutta la notte.  


   
 
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