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Autore: Raymox    09/03/2017    2 recensioni
Spesso ci si dimentica che è il popolo ad avere il potere. I governatori lo sfruttano, lo manipolano a loro piacimento, ma, come glielo diamo, possiamo decidere di sottrarglielo: dobbiamo solo ribellarci.
Genere: Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Scott
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale
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«Lo aspettai tutta la notte, ma lui non tornò più. Seduto su una scomodissima sedia ad aspettare che quella porta si aprisse, ma rimaneva chiusa e nessuno la mosse.  La cosa che ti dà più tristezza in questi casi è la speranza di rivedere tuo padre che rientra sorridendoti e ti arruffa i capelli dolcemente. Quella sera però lui non era lì. E allora capii.
Di pomeriggio era uscito per procurarci qualcosa da mangiare, cercando in qualche cestino o rubacchiando tra le bancarelle. Da quando era sorto il regime di Alejandro, il sistema fiscale si era inasprito, le tasse erano aumentate e se non si pagavano, si veniva fucilati sul posto, tu o una persona cara.
La nostra era una normale famiglia. Eravamo in quattro: io, i miei genitori e la mia sorellina di sei anni. Mia madre non aveva un mestiere e pensava soprattutto alla cura della casa, mentre mio padre lavorava tutti i giorni portando a casa quella somma che non ci dava una vita nel lusso, ma ci bastava per essere felici. Era un operaio in un’industria tessile e gli piaceva pensare che fosse lui a vestire l’intera città. “Altrimenti gireremmo nudi” diceva facendo ridere mia sorella. Era premuroso; ricordo ancora le sue carezze quando non riuscivo a prendere sonno di notte. Entrava nella stanza e si sedeva adagio accanto a me guardandomi dormire o fingere di farlo. A volte rimanevo sveglio solo per sentire la sua mano che mi sfiorava la guancia. Quei momenti mi bastavano per farmi capire quanto volesse bene a tutti noi.
Quando Alejandro assunse il potere, tutto cambiò: anche se mio padre continuava a lavorare, non avevamo più soldi con cui vivere, poiché il nuovo governo esigeva di più; non ci potemmo più permettere quella casa dove ero cresciuto e ci trasferimmo in una fatta di legno con solo tre stanze e mangiavamo sempre le stesse cose: pane, patate e qualsiasi alimento costasse poco. Molte famiglie si ritrovarono nel giro di pochi mesi in miseria.
Anche noi non saremmo durati ancora per molto e rubare era l’unica scelta che avevamo. Per mio padre era una cosa sbagliata, anche se lo fece per quasi un anno, ma doveva occuparsi di noi. Mia madre non poteva per la sua caviglia, che qualche anno prima si era fratturata e non si era più ripresa a pieno, quindi i suoi movimenti erano limitati e non poteva camminare per molto tempo. Anch’io avevo cominciato a fare piccoli furti e grazie alla mia giovane agilità non ero mai stato scoperto. Mi sentivo sporco, mi vergognavo di me stesso e odiavo essere costretto, ma non si può capire cosa la fame fa fare a un uomo finché non si prova veramente.
Quello fu il primo giorno. I primi raggi di sole iniziavano a entrare da una piccola finestra vicino alla porta e rimasi lì finché il sole non si fu alzato sopra l’orizzonte. Mia madre entrò nella stanza guardandomi malinconica. “Non è tornato?” chiese, anche se intuiva già la risposta. Il mio silenzio confermò.
Comparve da dietro la porta mia sorellina, si chiamava Gwen, stropicciandosi l’occhio ancora insonnolito.
“Dov’è papà?” chiese semplicemente, ma quelle parole così innocenti mi trafissero il cuore, come se qualcuno mi avesse dato un pugno nello stomaco. Era abituata a vederlo di mattina per qualche minuto prima che sparisse per tutto il giorno fino a sera. Mia madre non sapeva cosa rispondere.
“È partito per fare un lungo viaggio” dissi la prima cosa che mi venne in mente. Mi avvicinai e le feci una carezza sulla guancia. “Non lo vedremo per un po’”. Lei non capiva, ma accettò la cosa senza farsi troppi problemi e questo fu un sollievo: non sarei riuscito a sopportare altre domande su nostro padre senza sapere dove fosse.
Indossai il mio cappotto e uscii senza dire una parola. Dovevo andarmene da quella misera casetta di legno, perché ogni cosa lì dentro mi faceva solo stare peggio. Camminavo tra la gente a testa bassa, per sfuggire agli sguardi delle persone, che avrebbero potuto leggere il mio stato d’animo e per questo giudicarmi. Sentii un discorso tra due persone che attirò la mia attenzione: “Hai sentito? Hanno sparato a un uomo ieri sera. Stava scappando con del cibo nella giacca che non aveva comprato.” diceva uno “Che mascalzone. Hanno fatto bene! Sono tempi duri per tutti!” rispondeva l’altro.
Svoltai in una piccola strada, dove per terra notai una macchia di sangue abbastanza fresca, che risaltava sulla polverosa terra. Immaginai il corpo di mio padre steso per terra, magari con il cranio fracassato e un buco in petto. Le lacrime cominciarono a scendermi sul viso prima che me ne potessi accorgere; non avevo avuto tempo per farlo, prima davanti a mia sorella, poi tra la gente, ma in quella piccola via, dove nessuno mi vedeva, piansi.
Da lì le cose cominciarono a complicarsi sempre più: senza mio padre dovevo provvedere io per tutti e tre e non era un lavoro facile. Stavo tutto il giorno in giro per prendere qualche piccola cosa da mangiare e mettermela nel giacchetto controllando che nessuno mi vedesse.
I mesi passavano e, nonostante continuassi i miei piccoli furti, non c’era quasi nulla da rubare. Il cibo che riportavo a casa non bastava e tutti cominciammo a dimagrire. Mia madre non si muoveva più di tanto e mia sorella non giocava più, non correva più, quasi non sorrideva più e un bambino senza il suo sorriso spensierato, non è più un bambino.
Qualche volta la portavo in giro per farla uscire da quella baracca dove abitavamo e lei era felice di passeggiare al sole. Ancora me la ricordo mentre saltella per le strade, sorridente come solo i bambini possono. “Scott, ho fame” mi diceva dopo qualche ora. Io mi avvicinavo, mi chinavo e le dicevo: “Tranquilla, ora il fratellone ti dà subito qualcosa”. La facevo mettere seduta su un muretto e le dicevo di aspettare qualche minuto e lei obbediva. Un giorno, quando le portai una mela, i suoi occhi s’illuminarono giacché non ne mangiava una da molto tempo. Quando me ne chiese un’altra, non sapevo cosa dire; farfugliai qualche bugia.
La vedevo farsi sempre più esile, cominciavano anche a spuntargli delle macchie rosse sul corpo, dovute alla malnutrizione ed io la guardavo impotente. Cercai di darle di più, mettendomi costantemente in pericolo nelle strade, dandole il mio cibo. A volte non mangiavo per giorni per lei, ma il mio massimo non bastò. Un giorno tornai a casa e la vidi stesa a terra e mia madre seduta accanto a lei con il capo chino. Il suo piccolo corpicino non aveva retto alla fame e infine era collassato.
Non piansi quella notte, non versai nemmeno una lacrima; era come se già sapessi che sarebbe successo, aspettavo solo il giorno in cui non mi avrebbe più abbracciato una volta tornato a casa, e questo mi fece rabbia. Era morta quando nostro padre se n’era andato e me ne resi conto solo allora. Ma non avrei lasciato che la sua morte fosse stata vana; quella notte decisi che avrei combattuto per non far accadere le stesse cose ad altre famiglie, che fossero distrutte dalla tirannia. Decisi che mi sarei ribellato.
 
 
§
 
Qualche giorno dopo la morte di Gwen, mi ritrovai sulla strada, seduto sulla terra, tra la polvere, con lo sguardo perso nel vuoto. Le persone mi sfilavano davanti e tutte mi sembravano così diverse dal solito, come delle presenze che non erano nemmeno umane; gente che fa quello che deve per vivere senza mai controbattere o cercare di migliorare la propria condizione. Obbedivano tutti alla legge prendendola come esempio, credendo che fosse una specie di divinità da rispettare senza chiedersi se potesse essere sbagliata. La condizione umana mi faceva pena.
Mi domandai se anch’io non potessi semplicemente lasciar perdere, superare la mia perdita e vivere una vita lunga, ma a metà, come tutti in quella strada facevano. La mia risposta fu immediata: no. Non riuscivo ad accettare di dover essere passivo a tutto ciò che avevo vissuto. Non potevo voltare le spalle a mio padre e a mia sorella semplicemente dimenticandomi di loro.
Un gruppo di persone si radunò nella via. Tutti guardavano verso un convoglio di cinque jeep militari con tre soldati su ogni veicolo. Incuriosito, mi alzai e mi feci largo tra le persone fino ad arrivare in prima fila. Le prime due macchine passarono a una velocità moderata tra la gente che rimaneva a guardare.
Erano tutte di un verde scuro e parevano nuove poiché nulla era rovinato, né le ruote né la verniciatura, e non avevano il tettuccio. I soldati sopra reggevano tutti un’arma in mano. Avevano tutti lo sguardo posato sulle persone radunate attorno a loro e le guardavano con sufficienza, sentendosi superiori perché erano stati più fortunati a entrare nell’esercito, poiché questo faceva prendere un certo prestigio e assicurava una vita tranquilla. Sembravano provenire da un’altra epoca rispetto al degrado di quel luogo e la miseria delle persone che lo abitavano. Una cosa che in tutti i militari risaltava al mio sguardo era lo stemma che portavano sul lato sinistro della divisa: un’aquila reale, il simbolo del potere di Alejandro. Il mio animo esplose di rabbia quando vidi che la terza jeep era carica di viveri: c’erano frutti, verdure, farina e addirittura carne. Non vedevo da molti anni tutto quel cibo insieme; sarebbe bastato a sfamare tutti i presenti, che sicuramente stavano pensando la stessa cosa. Mentre il popolo pativa la fame, c’erano persone che ingrassavano alle loro spalle e godevano di ogni bene. Pensai che tutti quegli alimenti avrebbero potuto nutrire chi ne aveva bisogno e avrebbero potuto salvare mia sorella. Il mio corpo non rispondeva più alla mia testa; mi sentivo frustrato, arrabbiato e pensavo solo ad avere la mia vendetta. Non riuscii più a contenermi.
Passata la quarta, l’ultima macchina si avvicinò a una velocità abbastanza elevata. Un soldato stava quasi in piedi sul veicolo, aggrappato con una mano a un tubo di metallo e con l’altra reggeva il fucile e si sporgeva con il corpo fuori. Quasi senza rendermene conto, in una frazione di secondo, il mio pugno si ritrovò sul petto del militare che cadde pesantemente a terra perdendo l’arma. Gli salii sopra bloccandogli le braccia con le ginocchia e cominciai a sferrare un colpo dopo l’altro al suo volto, e nonostante si dimenasse, non riusciva a liberarsi. Solo dopo qualche decina di pugni mi fermai e realizzai ciò che avevo fatto. Il mio viso era coperto di schizzi sangue che si mescolava alla polvere che si era sollevata. Il soldato non si muoveva; era dipinto di rosso dal naso in giù, con qualche macchia anche sulla fronte. Sentivo il liquido denso formare delle gocce sulle mie mani che cadevano e s’impastavano con terra. Mi guardai intorno e notai che tutti mi osservavano: alcuni erano quasi impauriti nell'incrociare il mio sguardo, ma la maggior parte aveva uno sguardo di comprensione e una scintilla di speranza gli si accendeva negli occhi.
Sentii la jeep tornare indietro e i due soldati rimasti scesero con il fucile in mano, pronti a usarlo. Mi rialzai subito e non mi mossi, rimasi immobile con le armi puntate addosso. Superarono il corpo che giaceva inerme e mi urlarono di alzare le mani, di inginocchiarmi a terra, ma non avevo la minima intenzione di chinarmi, non più. Si alzò un brusio tra la folla che i due militari sentirono – infatti si giravano continuamente a guardare a destra e sinistra – e ne furono intimoriti; il loro sguardo si faceva incerto e delle gocce di sudore scendevano sulle loro fronti. Io non sapevo cosa fare, ma ad agire ci pensò la gente che si era radunata nella strada. Si avvicinarono facendo pochi centimetri, ma questo bastò. Probabilmente i due uomini non si resero nemmeno conto di cosa fecero, ma indietreggiarono di qualche passo, dando ai presenti più sicurezza. 
Vedendo che le persone non erano intimorite da loro, si affrettarono a prendere il loro compagno e a caricarlo sulla macchina per poi ripartire velocemente. Io rimasi lì, immobile, sporco di sangue e coperto di polvere con lo sguardo di tutti addosso, consapevole di ciò che era successo. Quello fu il primo giorno dell’inizio della rivolta.
 
Angolo Autore
Ciao a tutti cari lettori!
Sapete, penso che l’angolo autore sia la parte più difficile da scrivere in una storia, perché ci sono molte cose che vorrei dire, ma non so mai come iniziare (spero di non essere l’unico ad avere questo dubbio molto irritante).
Innanzi tutto, spero che vi sia piaciuto leggere questa OS quanto lo è stato per me scriverla. Inoltre, mi auguro che abbiate compreso il significato della storia: io ho voluto mettere queste tematiche abbastanza delicate proprio per trasmettervi qualcosa che in qualche modo vi possa far riflettere.
Come potete notare dalla descrizione, questa One shot partecipa al concorso Ashes Of Eden e ci tengo a ringraziare il creatore di ciò, che mi ha permesso di rivivere delle emozioni che non provavo da molto tempo entrando in questo sito. Quindi, un grazie a Miky_D_Senpai.
Voglio rubarvi solo un altro momento: questa One shot è nata come tale, ma negli ultimi giorni mi è venuta l’idea di continuarla per farne una long e ho già qualche idea su come scriverla. Quindi, se vi è piaciuta la storia, vi chiedo di scrivere nell’apposito spazio per le recensioni qui sotto un “sì” o un “no”. A me arriveranno queste risposte come messaggio personale, quindi non saranno visibili a nessuno tranne me, e NON verranno prese in considerazione per l’esito del concorso.
Bene, detto questo, vi saluto.
Ci si vede!
  
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