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Autore: Novizia_Ood    11/03/2017    8 recensioni
John, dopo essere tornato a vivere con Rosie da Sherlock, trova nel suo comodino qualcosa che lo farà crollare per un attimo...
Genere: Fluff, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ain’t nobody hurt you like I hurt you

(But ain’t nobody need you like I do)

 

 

“Perché è in camera tua?” 

La voce di John camminò con lui per il corridoio della casa in cerca del biberon della piccola Rosie che ora si dimenava non troppo tranquilla tra le braccia di Sherlock nel salotto. John trascinò sul pavimento le pantofole che portava ai piedi e andò dritto in camera da letto, aprendo attentamente la porta come per non fare nessun rumore; come se dentro ci fosse il suo coinquilino a dormire e non volesse farsi scoprire. 

Era sempre qualcosa di eccezionale entrare in quella stanza poiché rappresentava lo spazio più personale che Sherlock avesse in quell’appartamento e, da quando John si era trasferito di nuovo, lì era diventato un luogo sempre più accessibile. Se c’era qualcosa che gli serviva, mandava tranquillamente John a prenderla o, come ora, addirittura gli oggetti di Rosie erano sparsi per la sua stanza. Oggi è il biberon, due giorni fa era la sua copertina e qualche giorno prima i pannolini appena comprati. Quella stanza stava diventando sempre più parte della casa e meno spazio isolato (o era Sherlock che aveva semplicemente accolto sua figlia e lui ancora più profondamente?).

“Qui non c’è nie-”

“Vedi nel primo cassetto del comodino!” Esclamò Sherlock dall’altra stanza, interrompendo il sussurro frustrato del dottore mentre si guardava intorno. Non l’aveva nemmeno detto così ad alta voce da essere sentito da lui nella camera da letto, ma forse il detective aveva velocemente calcolato che il tempo impiegato per ritornare era troppo: chiaramente non aveva ancora trovato niente.

Quando arrivò il chiarimento, immediatamente John fece il giro del letto e si avvicinò al comodino, aprì il cassetto e la bottiglina, con tanto di tappo protettivo, rotolò fino a battere contro il legno, accompagnata da un foglio piegato almeno quattro volte su se stesso.

A John si bloccò il respiro per un attimo. Quello era il suo biglietto o sbagliava?

Allungò velocemente la mano e con la sinistra prese il biberon, mentre con la destra il foglio, cominciando ad aprirlo e… sì, era il suo.

 

“Non cercarci più e non farti più vedere. 

Non abbiamo bisogno di te e ho intenzione di andare avanti. 

Addio.”

 

Era veramente stato così vigliacco? Erano passati ormai quasi sei mesi da quel biglietto e almeno un milione di scuse per come lo aveva trattato e per come lo aveva ridotto in quell’ospedale a furia di colpirlo. 

John chiuse gli occhi. Era ancora difficile scendere a patto con ciò che aveva fatto quella sera, non ne andava fiero per niente e se fosse tornato indietro avrebbe cambiato moltissime cose. Sospirò cercando di tranquillizzarsi mentre il suo cuore aveva cominciato a battere velocissimo al solo ricordo di quei momenti.

Si era perso come poche volte nella vita, ma per fortuna poteva dire di essersi ritrovato; aveva ritrovato la strada di casa e ora era di nuovo al 221b di Baker Street con sua figlia e con quello che aveva scelto come suo compagno di vita, ancora insicuro sull’etichetta esatta da usare per il loro rapporto (anche se ormai si era arreso all’idea che, probabilmente, per lui e Sherlock un’etichetta non esisteva e basta). Tornare a casa era stato un toccasana, John finalmente non sentiva più di dover portare un peso enorme sulle spalle, non si sentiva più solo e soprattutto si sentiva un uomo rinato. Era andato avanti dopo il proprio tradimento a Mary con la promessa di diventare un uomo migliore, quello che avrebbe voluto essere. 

Si stava impegnando per esserlo, ogni giorno.

Per Rosie.

Per Sherlock.

Per se stesso. Tutti e tre meritavano una vita tranquilla e tutto ciò che di meglio di sé aveva da offrire loro.
E lui si stava dando, ogni giorno.

Trovare quel bigliettino fu come un pugno nello stomaco, un urlo feroce del suo passato e della sua vecchia rabbia che tornava a tormentarlo nei momenti in cui meno se lo aspettava. 

“John, lo hai- che stai facendo?” Sherlock era entrato nella stanza con Rosie singhiozzante appoggiata sulla sua spalla, che ora non strillava più come una matta. Il dottore non si mosse, gli occhi ancora chiusi e il pugno stretto intorno alla carta bianca. Alzò lo sguardo su di lui solo qualche secondo dopo, trovandolo in piedi dall’altro lato del letto a guardarlo con attenzione, mentre una delle sue mani accarezzava ritmicamente la schiena della piccola.

“Perché ce l’hai ancora?” Domandò senza fiato e con gli occhi lucidi.

Gli servì così tanta terapia per ciò che aveva fatto a Sherlock che quasi se ne meravigliò. Ci volle più tempo per perdonarsi per ciò che aveva fatto al suo compagno che per superare il lutto di Mary. Era stato difficile. 

“Avrei dovuto farci qualcos’altro?” Chiese un po’ spaesato, senza smettere di accarezzare la bambina che gli riscaldava la spalla. Era così tranquilla nonostante i leggeri singhiozzi dopo il pianto sfrenato di poco prima. 

“Buttarla, tipo.” Rispose John voltandosi completamente verso di lui, adesso con le braccia aperte nella sua direzione. Avrebbe voluto buttarla lui stesso quella mini lettera, quella cosa che non poteva né definirsi lettera né biglietto né niente. 

“E perché buttarla avrebbe dovuto aiutare?” Domandò ancora più spaesato di prima e l’irritazione di John montò dentro di lui.

“Perché, tenerla invece, a cosa ti è servito scusa?” Se non a ricordarti costantemente quanto io sia stato stronzo e meschino nei tuoi confronti?, completò quella frase mentalmente. Lo sapeva benissimo quello che provava nei confronti di ciò che aveva fatto e di come si era comportato e non voleva una prova così tangibile a ricordarglielo costantemente. L’idea che Sherlock lo avesse conservato per tutto quel tempo, nel cassetto del suo comodino accanto al letto, lo disturbava.

L’aveva più letto poi? Quante volte? Lo aveva letto qualche notte prima di andare a dormire o qualche mattina prima di alzarsi? 

“Mi è servito a stare lontano da voi e a ricordarmi ogni giorno quali fossero le tue volontà. - Fece una pausa, ma non si azzardò a spostare lo sguardo da John. - Se non lo avessi fatto probabilmente avrei continuato a venire a casa vostra per chiedervi se c’era qualcosa che potessi fare… qualsiasi cosa.” Ogni volta che Sherlock si vedeva pieno di sé si ripeteva Norbury in mente e ogni momento in cui gli mancava John o voleva andare da loro per offrire qualsiasi cosa, lui leggeva quel biglietto per fermarsi.

Non andare, non ti vogliono.

Non te li meriti.

Sherlock poi si era sgretolato, giorno dopo giorno, sempre di più.

Casi che lo portavano fuori di testa, droghe, Culverton, era riuscito addirittura ad ospitare in casa Billy pur di interrompere quel ronzio derivante dal silenzio assordante che regnava lì dentro senza John.

A quelle parole le braccia del dottore scesero lungo i fianchi, sconfitte da un peso insostenibile.

“Queste parole- lo sai che non ci credevo veramente.”

“Quando me le hai scritte, sì, ci credevi.” Commentò annuendo con un’espressione poco turbata sul viso. John non era il tipo da fare cattiveria gratuita, piuttosto credeva davvero in tutto ciò che faceva o che diceva nel momento in cui lo faceva o lo diceva. Che poi si odiasse dopo, quella era un’altra storia, ma a Sherlock non erano servite grandi scuse dopo che lo aveva salvato. Nessuna scusa serviva dal momento che l’aveva perdonato subito.

“Ero solo molto-”

“Vuoi buttarlo, John?”

. Sì, ti prego.” Rispose immediatamente, cominciando a sentirsi già più leggero. Incrociò poi lo sguardo di Sherlock che annuì lentamente. Da un lato non capiva assolutamente perché John fosse così preoccupato nell’averlo trovato. Di certo lui non pensava più quelle cose, Sherlock lo sapeva, quindi cosa c’era da preoccuparsi? Dall’altro lato però capiva bene che poteva essere qualcosa che lo turbava ad un livello a lui sconosciuto, così, se per tranquillizzarlo avesse dovuto buttarlo, allora lo avrebbero buttato.

 

Tornarono in salone e John lasciò il biberon sul tavolino in legno accanto alla sua poltrona prima di proseguire davanti il camino acceso, unica fonte di luce all’interno della stanza a quell’ora della sera. 

Rimase lì in piedi a girarselo tra le mani più volte prima di alzare gli occhi su Sherlock. 

“Lo butto allora…” disse, come per chiedere nuovamente il permesso da parte sua. Dopo tutto era sempre qualcosa che lui aveva preso senza chiedere, mentre rovistava nel suo cassetto personale. Non era qualcosa che avrebbe potuto fare con così tanta facilità. Sherlock girò il busto verso il camino per invitare il dottore a buttarlo mentre coccolava una Rosie ormai quasi addormentata tra le braccia. “Ma tu vuoi che io-”

“John per me non ha assolutamente nessun significato. Era lì per ricordarmi di starvi lontano, ma da quando siete tornati qui io non l’ho più aperto e non l’ho più letto. Non ha nessuna importanza adesso.” Sperava che quelle parole potessero convincere quella parte di John così disperata e scossa. Il dottore lo guardò mentre tra le dita il foglietto scivolava da una mano all’altra. “Se per te è importante, buttalo. Ma sappi che per me non è niente.” Aggiunse infine e John sospirò pesantemente mentre scendeva a compromessi con i suoi sentimenti e i suoi pensieri che in quel momento facevano a pugni dentro la sua testa. 

“Per me è molto importante. Vorrei cancellarlo del tutto, ma non posso. Il minimo che posso fare è non fartelo leggere mai più.” Rispose guardandolo per un’ultima volta.

“Il solo tornare ad abitare di nuovo qui non me l’ha più fatto leggere, John.” Puntualizzò ciò che aveva già fatto capire poco prima. A quel punto avrebbe anche potuto creare una carta da parati con quelle parole, a lui non sarebbe interessato niente finché, loro erano lì con lui. Per tutto quel tempo aveva riconosciuto i momenti di stallo di John, quelle giornate in cui ancora lo vedeva stanco per il peso che aveva trascinato; altre in cui quei giorni erano così lontani che sul suo viso c’erano solo sorrisi e il suo corpo era rilassato; altri ancora in cui i ricordi tornavano troppo violenti facendolo sentire in colpa di nuovo. Era pronto ad ogni cedimento. 

Proprio come stava accadendo quella sera e Sherlock non aveva più paura di accompagnarlo durante momenti del genere. Lo avrebbe rassicurato con ogni gesto e con ogni parola possibile. 

“Voglio buttarlo lo stesso.” Rispose testardo. Un lato di lui voleva buttarlo via subito, l’altro pretendeva che rimanesse intatto. Una prova dei suoi sbagli non faceva male, anzi, magari l’avrebbe aiutato a non commetterne di simili in futuro. Guardò prima il foglietto e poi il fuoco, poi si voltò verso Rosie e Sherlock. Si era forse addormentata? Sorrise dolcemente. Probabile, chi non si sarebbe addormentato tra le braccia calde e morbide di Sherlock? Cullati in quel modo, poi. John immaginava di potersi addormentare in meno di un secondo. “Vieni qui,” disse il dottore, con un piccolo cenno del capo e Sherlock non si fece chiamare un'altra volta. Oltrepassò la propria poltrona e lo raggiunse al centro del tappeto. Non molleggiava più lentamente sulle gambe, ormai la piccola stava chiaramente dormendo, probabilmente stancata dal pianto liberatorio di nemmeno un’ora prima. Adesso del biberon non interessava più a nessuno. “Mi dispiace, sono stato un vero stronzo.” Concluse lanciando il bigliettino tra le fiamme che l’avvolsero immediatamente, avide.

“Concordo, ma non c’è più motivo di tirare fuori quella storia. Sei perdonato.” Annuì parlando piano. John si voltò completamente verso di lui.

“Non voglio solo essere perdonato, Sherlock. Vorrei che quelle parole non fossero mai più associate a me e a te, perché non esiste che io faccia un’altra volta un errore simile.”

“E io ti credo. Non ti basta?” Domandò guardandolo negli occhi. John sostenne quello sguardo per un po’, poi sospirò lentamente.

“Mi basta, ma ho bisogno che tu sappia che non ho più intenzione di ferirti e che… ho bisogno di te, Sherlock.”

“Sì, tutti hanno bisogno di me ad un certo punto.” Commentò con un piccolo sorriso e un movimento divertito del capo, alludendo a tutti i clienti che si erano rivolti a loro in quegli anni. Soprattutto dopo che anche suo fratello era diventato un cliente, Sherlock le aveva ormai viste tutte.

“Io ne ho bisogno per più tempo e non mi servono le tue capacità deduttive. Quelle puoi lasciarle fuori dalla porta.” Sherlock lo guardò attento e più serio. “Ho bisogno solo di te.” Concluse senza interrompere il contatto visivo e allungando una mano che corse ad accarezzare il suo braccio. Fece un passo verso di lui, invadendo il suo spazio personale e chiuse gli occhi. Lasciò andare in avanti la testa per poggiarla sul suo petto e poi lasciò che rotolasse di lato, finché la sua tempia non andò a poggiarsi contro il corpo della piccola Rosie che respirava regolarmente contro Sherlock. Era così tranquilla tra le sue braccia, si fidava di lui come si fidava di John e questo non faceva che riempirlo di orgoglio, di amore e di dolcezza ogni volta che li guardava di nascosto in qualche angolo di quella casa che ormai era la loro a tutti gli effetti.

“E io sono qui per voi. Sempre.” Rispose l’altro, facendo scorrere il suo braccio intorno alla vita di John e posando poi le proprie labbra tra i suoi capelli. Dopo qualche secondo passato in quella posizione, Sherlock riprese la parola. “Pensavo che avessimo superato questa fase.” John sospirò appena.

“Non credo passerà mai, di tanto in tanto tornerà.” Confessò con un sorriso triste e stanco. Anche lui era stufo di sentirsi così; di credere che avrebbe potuto allontanare Sherlock da un momento all’altro con i propri comportamenti; di sbagliare qualcosa e di ferirlo ancora. “Ma tu sii sempre qui a rincuorarmi, ti prego.” Era una richiesta parecchio esplicita che Sherlock accolse con un sorriso facendo poi salire la propria mano dal suo fianco al suo viso e l’altro, a quel contatto, chiuse gli occhi, adagiandosi appena contro il palmo della sua mano.

Le carezze riservate a John erano diverse, in un certo senso erano più attente e leggere. Sherlock non sapeva mai se c’era un confine e stava comunque attento a non superarlo. Era stato per tutti quei mesi pronto a prendere tutto ciò che John gli avesse offerto, senza mai pretendere di più. Mai una volta aveva provato ad approfondire qualsiasi contatto.

Per qualsiasi cosa dovessero sentirsi pronti, era da John che doveva partire, perché Sherlock sentiva di essere pronto ormai da un bel po’ di tempo.

“Sarò sempre qui, promesso.” Sussurrò avvicinandosi alla fronte di John per lasciarvi un bacio leggero. Avrebbe baciato via qualsiasi altra insicurezza se gliel’avesse chiesto.

“Grazie,” disse in fine. Perché forse le scuse le aveva ripetute almeno un miliardo di volte, ma quella parola era ben più rara. Forse doveva davvero lasciare le scuse al passato ed essere semplicemente grato a lui per quello che gli stava dando giorno per giorno. Avrebbe potuto non smettere mai di essere grato e Sherlock nemmeno sarebbe stato contrariato a sentire quella parola ogni volta. 

Il detective sorrise lasciando scivolare la mano via da lui.

“Ora vai a prepararle il latte, io vado a metterla a letto.” Disse prima di oltrepassalo e dirigersi verso la porta delle scale, ma John lo fermò con una mano prima che potesse spingersi oltre.

“Dormiamo in camera con te questa notte, se per te non è di troppo disturbo. Okay?” Era più una volontà di John che un bisogno di Rosie e Sherlock si trovò a volerla assecondare disperatamente.

“Va bene.” Disse cambiando rotta e ora rivolto verso la propria camera da letto. 

“Arrivo subito,” sussurrò accarezzando la schiena della piccola e afferrando il biberon con la mano, pronto a svitarne la punta. 

 

Aveva liberato la camera di Sherlock da una brutta presenza e ora come minimo avrebbe dovuto riempirla con qualcosa di positivo. E chi meglio di lui e Rosie? Dopo cinque minuti che il latte fu pronto, entrò in camera di Sherlock e li trovò entrambi stesi sul letto.
La piccola era al centro, si muoveva appena, ancora addormentata e Sherlock sdraiato su un fianco che con l’indice le accarezzava la guancia per provare a svegliarla nel modo meno traumatico possibile. 

John l’avrebbe lasciata dormire volentieri, ma doveva prima mangiare l’ultima volta e poi, con il calore del latte e del letto sarebbe potuta tornare tra le braccia di Morfeo.

“È arrivato papà…” sussurrò Sherlock piano contro la sua fronte e lei, come se avesse perfettamente capito quelle parole, aprì gli occhietti incontrando subito quelli chiari del detective. Con una mano corse ad afferrargli la guancia e poi strinse, graffiandolo appena, ma lui non parve farci caso, anzi, faceva finta di volerle mangiare la manina da un momento all’altro.

“Vuoi darglielo tu?” Domandò John, sedendosi sul bordo del letto. In realtà quella era una concessione volontaria: voleva che fosse Sherlock a darglielo, perché così avrebbe potuto bearsi di quella visione prima di andare a dormire. Ne aveva estremamente bisogno.

Quando si fu posizionato meglio (schiena contro la testiera del letto e gambe incrociate davanti a sé per appoggiare bene Rosie) cominciò a darle il biberon con calma. 

John era dall’altro lato del letto, braccio sotto il cuscino, rivolto verso di loro e spinto fino al centro del letto a poca distanza dal ginocchio di Sherlock sopra il quale allungò velocemente la mano per stringerlo appena.

“Ti adora e io non posso farci niente,” commentò in un leggero sussurro senza disturbarla, ma continuando a guardarla con attenzione mentre con espressione beata continuava a succhiare. 

“Si vede che ho la temperatura corporea poco più alta degli altri, per questo mi preferisce.” Spiegò con superficialità, senza mettere in conto fattori dell’attaccamento ben più pregnanti di quello del calore corporeo. John strinse il suo ginocchio, fino ad abbracciarlo e a poggiarsi sopra.

“Non penso abbia a che fare con quello, quanto con il fatto che suoni per lei prima di farla addormentare o quando sta male. Oppure per tutte le volte che le hai cambiato un pannolino o le hai dato da mangiare. Tutte le mattine che resta con te perché io sono a lavoro poi…” Sherlock stava facendo tutto e anche di più per loro. Sì, John avrebbe semplicemente dovuto ripetere ‘grazie’ all'infinito.

“Sì, forse è la familiarità.”

“O saranno le tue braccia?”

“Cos’hanno le mie braccia?” Domandò il detective con una strana espressione dipinta in viso mentre scrutava John dall’altro.

“Sono grandi e accoglienti… e calde.” Spiegò avvicinandosi ancora di più se possibile, fino ad arrivare con la testa a sfiorare la gamba di Sherlock. Poi chiuse gli occhi.

“Merito della temperatura corporea, come dicevo prima.” Disse seccato da quel giro di parole che aveva portato semplicemente alla sua prima deduzione.  

“Ma smettila.” Rimasero in quella posizione - con un John che stava quasi per addormentarsi - finché Rosie non finì il suo latte serale dopo il quale ci fu il tipico ruttino che Sherlock riusciva a farle fare quasi immediatamente secondo una sua tecnica di pacca sulla schiena piuttosto precisa. Dopo aver passeggiato su e giù per la stanza per almeno una decina di minuti e dopo essere andato a cambiarla per la notte, Sherlock tornò in camera sotto lo sguardo ora attento e sveglio di John.

“Hey…”

“Hey. Abbiamo fatto, siamo pronti per dormire. Devo cambiarmi solo io.” Disse adagiando la piccola sul letto e lasciando che rotolasse quel poco per accoccolarsi contro il petto del padre. Sherlock si sfilò velocemente la vestaglia che andò ad appendere dietro la porta della camera e poi cominciò a sbottonarsi la camicia, con la faccia verso il muro mentre alle sue spalle John lo stava guardando con attenzione. Si sfilò la camicia dalle spalle e poi le scarpe, cominciando a sbottonarsi i pantaloni e solo in quel momento il dottore spostò velocemente lo sguardo altrove. 

Va bene essere in camera sua, nel suo letto, ma spiarlo anche mentre si sfilava i pantaloni… forse quello era un po’ troppo invadente, Watson. 

Quando fu pronto con tanto di pantaloni larghi e una maglietta a maniche corte, si avviò a letto alzando il lenzuolo e sistemandosi sotto, voltato verso John e Rosie che gli dava le spalle.

La piccola era spinta contro il petto del padre, lasciandogli libera la visuale dell’altro cuscino sul quale poggiava Sherlock che ricambiava il suo sguardo.

“Che c’è?” Domandò il detective dopo qualche secondo passato a fissarsi in silenzio. 

“Grazie per averci permesso di dormire qui. Possiamo farlo ogni volta che ne avremo bisogno?” Chiese con una vocina sottile e muovendo appena la manina della bimba ormai addormentata profondamente, come se stesse parlando lei a Sherlock.

“Ogni volta che ne hai bisogno, John.” Rispose prendendolo in contropiede, ma invece di sentirsi irritato perché scoperto, John sorrise. 

“Così rischi di trovarmi ogni notte qui,” disse con un grande sorriso divertito. Non cercava altro che un pretesto per farlo. Non gli sarebbe dispiaciuto trasferirsi per sempre in quella stanza con lui, fin quando a Sherlock andava bene.

“Ho corso rischi ben più grandi, questo penso di riuscire a sopportarlo!” Esclamò con un piccolo sorriso anche lui. Avrebbe accolto John nel suo letto ogniqualvolta lui lo avesse ritenuto necessario; ogni volta che si sentiva solo, triste, sopraffatto da quelle emozioni negative di poco prima, con l’urgenza di colmare quella lontananza con vicinanza fisica, cosa che era successa più di una volta. 

“Vieni più vicino a noi.” Disse John d'un tratto, sistemandosi il lenzuolo sulla spalla per tenderlo appena tra lui e Sherlock. L’altro, senza dire una parola, si avvicinò a loro e quasi il suo petto era contro la schiena della piccola; il viso a qualche centimetro da quello del dottore che aveva spinto anche lui il suo cuscino più vicino a quello dell’altro.

“Sembri più felice adesso,” commentò Sherlock a cuore più leggero. Come lo aveva visto preoccupato qualche ora fa, lo aveva un po’ agitato, ma per fortuna era riuscito a restare tranquillo per lui.

“Lo sono, Sherlock. Lo sono. Ed è grazie a te. A voi.” Il suo braccio aveva oltrepassato la vita di Rosie e ora la sua mano era nel piccolo spazio che c’era tra lei e l’uomo dall’altro lato. 

“Ne sono contento.” Disse facendo salire la propria di mano che andò ad accarezzare con la punta delle dita, quella di John. Voleva semplicemente restare così a stuzzicarla, sfiorandogli un dito per volta, ma il dottore ci mise poco a girare il suo palmo verso l’alto e ad accoglierlo in una stretta, incrociando le dita tra loro. “Siete la cosa più importante.” Aggiunse alla fine, ricambiando.

“Lo sei anche tu per me, Sherlock. Lo sei in un modo veramente incredibile.” Disse mentre con espressione meravigliata ripercorreva mentalmente tutte le cose meravigliose che gli aveva visto fare. 

Lo guardava da così tanto tempo ormai.

E ogni volta John si accasciava un po’ di più sotto il morbido peso di ciò che provava nei suoi confronti.

“Tu sei incredibile, John Watson.” Ricambiò la stretta.

“Direi che siamo una squadra niente male.” Rise piano contro il cuscino e Sherlock lo seguì a ruota. A quel punto John non riuscì più solo a guardarlo da lontano e sentì l'urgenza di sporgersi appena per raggiungerlo ed unire le proprie labbra a quelle dell’altro, bloccando del tutto la sua risata. 

La mano lasciò immediatamente andare quella di Sherlock e preferì risalire, dal suo polso, fin sopra la spalla prima di indugiare qualche secondo di troppo sul collo e scorrere in fine dietro la nuca ad incontrare i ricci corvini.

Sherlock rimase bloccato per i primi secondi, colto alla sprovvista. Ma subito dopo il suo corpo si mosse più vicino, questa volta il suo petto arrivò a toccare la schiena di Rosie e lì decise di doversi fermare con la vicinanza, perché non sarebbe andato più avanti di così. Con la testa invece era un’altra cosa.

Si sporse il più possibile verso John per rendergli più facile il bacio e salì con la propria mano ad afferrargli il polso, non per spostarlo, ma per schiacciarlo di più contro di sé. Quello era il surrogato di un abbraccio che in quel momento non poteva avvenire. John gli solleticò la nuca prima di portare la mano sul suo viso, senza staccarsi dalle sue labbra che ora regalavano quello schiocco morbido tipico del bacio.

Questa volta fu John ad avvicinarsi un po’ di più a lui, senza spingere troppo la bambina tra di loro che ancora aveva lo spazio per girarsi se voleva.

Un mugolio sommesso sfuggì dalle labbra di Sherlock quando John approfondì il bacio in maniera così naturale da fargli temere che sarebbe svenuto in quel letto da un momento all’altro se non gli avesse permesso di prendere aria a breve. 

“Sherlock-” rimproverò lui con un sorriso sulle labbra prima di unirle di nuovo a quelle dell’altro. Il bacio era già troppo, se poi avesse cominciato a fare versi… non era esattamente quello il posto adatto dove lasciarsi andare, non con Rosie tra di loro. Se solo avessero accettato l’invito della Signora Hudson nel prendersi una serata libera affidandole la piccola, magari a quell’ora stavano-

“John. John.” Chiamò Sherlock quando riuscì a staccarsi dalle labbra dell’altro. “Rosie sta dormendo.” Sussurrò scostandosi appena. In quel momento John ricollegò i suoi pensieri a ciò che stava facendo e sì, non era assolutamente il caso.

“Ovviamente dovevo scegliere un momento del genere per farlo.” Ridacchiò il medico mordendosi poi il labbro inferiore. 

Ovviamente.” Sherlock sospirò pesantemente, rotolando sulla schiena e rimanendo a fissare il soffitto. “Sei frustrante.” Commentò a denti stretti dopo, stiracchiandosi appena per provare a rilassare tutti i muscoli che si erano tesi per la vicinanza di John. 

“Domani sceglierò un momento migliore, va bene?” Avvisò con un sorriso sulle labbra e, nell’ombra della stanza, vide che anche Sherlock stava sorridendo. 

 

Non vedeva l’ora. 









Angolo della scrittrice:
bene, questa fan fic dovreste tenervela stretta come me la sto tenendo stretta io adesso, visto che, se non fosse stato per le capacità di internet e del Cloud, io l'avrei persa e sicuramente non mi sarei messa a riscriverla per la depressione.
Da 4.500 parole e passa, mi era diventata di 1.382 e volevo spararmi. Non so se avete sentito mai una sensazione di vuoto così, ma vi auguro di no. Quindi scusate se pubblico così, a quest'ora e senza ricontrollare, ma ora l'unica cosa che voglio fare è semplicemente pubblicarla per il panico che posso svanire da un momento all'altro.
Prometto che domani la correggerò meglio, anzi, se ci sono errori ditemeli pure vi prego!
Ovviamente, a quest'ora, può essere solo una OS dettata dall'ispirazione, una di quelle scritte tutte d'un fiato.

  
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