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Autore: everlily    12/03/2017    4 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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TVD è finito l'altro giorno e, anche se sono quasi due anni che io e questa serie ci siamo dette addio, c'è stato un tempo in cui questa storia significava molto per me e, forse, anche per chi la seguiva e leggeva. E' per questo che mi è sembrato il momento giusto per riaprire infine la bozza dell'epilogo già tratteggiato tanto tempo fa e metter anche io, in tutto e per tutto, la parola fine. E’ un epilogo molto più frammentario, con molte meno scene e approfondimento, di ciò che sarebbe stato solo avessi avuto il tempo e la voglia di svilupparlo per bene, ma il senso è fedele all’idea originale, e credo che alla fine conti quello.

Anche se per me TVD è finito in delusione (e non l'altro ieri, ma parecchio tempo prima), è stato bello finché è durato, venire qui a immaginare queste versioni alternative dei personaggi dello schermo con chi condivideva la stessa passione - mi siete mancate, ragazze, e mi dispiace infinitamente non essere stata più in grado, negli ultimi tempi di questa storia, di rispondere a tutte le belle parole che per il suo ultimo capitolo mi avete lasciato. Non rimpiango una sola parola sudata e versata per questi due. Anche perché, scrivere in questo spazio ha riacceso una passione per la scrittura che era rimasta dormiente per anni, tanto da avere anche adesso una storia originale in lavorazione che adoro da impazzire e che non vedo l'ora possa presto vedere la luce in un modo o nell'altro, e senza questo passaggio intermedio, senza i vostri incoraggiamenti che andavano al di là del semplice apprezzamento per la fanfiction, non se avrei mai avuto il coraggio di imbarcarmi nell'impresa. Quindi grazie, ancora una volta, alle lettrici, alle autrici, a efp, a Damon e Elena, a Stubborn Love, a tutto quanto.

E mi sembra giusto, nonostante tutto, poter dire addio a Damon e Elena a modo mio in questo piccolo spazio felice. Ma basta ciance, ecco l'epilogo. Vi avviso che contiene alte dosi di fluff. Consumate a vostro rischio e pericolo.


ever


Epilogo.

The long way home


- So let's go out past the party lights
We can finally be alone
Come with me,
and we can take the long way home
Come with me,
together
we can take the long way home
-

(The long way home - Norah Jones)


Damon ha rotto con me la sera del matrimonio di Caroline e Stefan. Dopo la partenza degli sposi per il loro viaggio di nozze in giro per l'Europa, dopo che anche l’ultimo invitato se ne era andato ed eravamo rimasti solo noi due, insieme agli addetti del catering che avevano iniziato a ripulire, la sua giacca e i miei tacchi abbandonati per terra, seduti al bordo del patio sotto alle lucine bianche che ancora luccicavano nel buio.

Era stata una cerimonia incantevole. In tutto e per tutto contraria a ciò che Caroline aveva sempre fantasticato sarebbe stata, e assolutamente incantevole.

Non era una fresca giornata di primavera, ma una calda sera di fine agosto, appena dopo il tramonto, unico momento in cui la calura si era fatta più sopportabile. Non c'erano un centinaio di persone a vederla in uno splendido vestito di alta sartoria, ma appena un paio di dozzine di familiari e amici più stretti, e un semplice vestito da sera color crema perché non c'era stato tempo di adattargliene uno bianco addosso. Nella fretta dei preparativi, i fiori erano stati mandati gialli invece che rosa, e sulla torta la pasticceria aveva scritto Caroline & Steven, ma Caroline aveva scrollato via ogni contrattempo con un distante sorriso trasognato.

E io, dopotutto, avevo avuto la mia camminata verso l'altare, con fiori freschi tra le mani e l'uomo che amavo alla fine di essa. Con tanto di occhiata ammiccante da parte mia, e un mezzo sorriso complice da parte sua, prima che io da brava damigella d'onore prendessi il mio posto alla sinistra, mentre lui da bravo testimone restava lì sulla destra.

C'era stato solo un breve, seppure intenso, momento di panico, quando, dopo che Stefan le aveva messo la fede al dito, Caroline si era immobilizzata di colpo, lo sguardo allargato, restando muta per alcuni interminabili secondi riempiti dai mormorii degli invitati.

Finché Stefan non le aveva stretto appena di più la mano, sussurrandole un preoccupato, "Care?"

"Ho dimenticato i miei voti," aveva balbettato lei. "Avevo scritto tutte queste cose, fatto tutte queste ricerche, per trovare le parole più giuste … E adesso non le ricordo più."

Sembrava sul punto di piangere. Stefan l'aveva tirata più vicina.

"Va bene," aveva detto rassicurante. "Va bene, Care."

"No," aveva replicato lei, scuotendo forte la testa. “No, ci ho messo tutta la notte, per pensare al modo migliore di dirti quanto ti amo, quanto rendi ogni mia giornata migliore … e me una persona migliore … e invece … così … non sono capace…”

Stefan l'aveva tirata a sé e l’aveva baciata, sopra a tutti quei farfugliamenti, e lei aveva reciprocato con altrettanto slancio, lasciando un confuso ministro a domandarsi cosa fare davanti a quel “Puoi baciare la sposa" completamente fuori tempo, soprattutto quando dopo cinque buoni minuti ancora non si erano staccati, né sembravano avere alcuna intenzione di farlo.

Damon aveva dovuto battergli un colpetto sulla spalla.

"Stef. Il tipo qua deve prima finire."

La prima canzone era stato un medley tra Bon Jovi e Cindy Lauper.

Bonnie aveva presentato Sage a sua nonna.

Alaric aveva spaventato un giovane cameriere insistendo che venisse perquisito prima di entrare, perché aveva una “faccia sospetta”.

Charlotte aveva stretto le braccia al collo di Damon. "Stefan mi ha detto,” gli aveva sussurrato. “Sono così, così felice per te."

"Di cosa parla?" gli avevo chiesto quando, terminata quell'interruzione, avevamo ripreso a dondolare piano sopra la musica, le mia mani sulla sua nuca, le sue dita sui miei fianchi. Aveva posato il volto contro il mio, un bacio morbido sulla mia guancia. "Te lo dico dopo."

Lo aveva fatto a festa finita, quando tutti se ne erano andati.

Ero rimasta appoggiata contro il parapetto in legno del patio, mentre Damon mi raccontava di essere andato a cercare Katherine subito dopo aver lasciato casa mia, un paio di sere prima, trovandola appena prima che salisse su un bus notturno. Le aveva offerto cinquecentomila dollari come accordo di divorzio, ovvero tutto che era rimasto della sua eredità dopo aver liquidato casa e azioni della compagnia per lasciarle a Stefan, se lei avesse portato a termine la gravidanza e lasciato il bambino con lui, senza nessun obbligo di restare a fargli da madre. Katherine gli aveva dato del pazzo. Quindi aveva cautamente provato a contrattare. Poi aveva detto che ci avrebbe pensato, e preso lo stesso su quel bus. Infine, lo aveva chiamato la sera prima, dicendogli che allora avrebbe dovuto sborsare anche per ogni capriccio ormonale e voglia strana che avrebbe avuto negli otto mesi successivi.

"E' meraviglioso, Damon!" esclamai felice, prendendogli la mano. "E pensi davvero che Katherine non vorrà mai averci niente a che fare?"

"Non lo so," disse, giocherellando con le mie dita. "Per adesso, sì. Ci ha particolarmente tenuto a metterlo in chiaro. Forse un giorno lo vorrà conoscere, forse no. Non so neanche bene cosa gli dirò quando chiederà di sua madre. Ma è qualcosa di cui mi preoccuperò quando accadrà, se mai accadrà.”

"Gli?" domandai, alzando un sopracciglio. "Potrebbe essere una bambina, sai."

"Cosa vuol dire, una bambina?" ribatté accigliato, neanche avessi suggerito una strana specie aliena. "No, è un maschio. Insomma, andiamo," si indicò con un ghigno compiaciuto sulle labbra. "Ovvio che è un maschio. E' un Salvatore."

Scoppiai a ridere, per il modo in cui quel suo sorriso mi aveva riempito il cuore. Strinsi più forte le dita tra le sue.

"Sarai un padre fantastico."

"Non ne sono poi così sicuro. Sono terrorizzato, a dire la verità. Ma … Immagino che ci dovremo accontentare." Sorrise più tristemente, portando lo sguardo sulle nostre mani. "Non è il migliore dei tempismi, vero?"

"Quando mai lo è?"

Ma poi avevo visto il suo sguardo, e solo con quello avevo capito cosa stava per dire. Lo anticipai prima che potesse andare fino in fondo.

"Damon, no. Non ci pensare neanche. Lo faremo funzionare. Io non vado da nessuna parte."

"Invece sì. Lo farai."

Ed era stato completamente, insopportabilmente, testardamente irremovibile su quello. Ci avevo provato in tutti i modi, a fargli cambiare idea, a impedirgli di lasciarmi. Ero stata rassicurante. Ero stata supplichevole. Mi ero infuriata.

Aveva lasciato che mi sfogassi con ogni epiteto e ogni preghiera, fino a che non avevo esaurito fiato, proteste, lacrime, e opzioni. E poi aveva detto solo: "Elena. Ti ho aspettato per anni. Cosa credi che siano, appena qualcuno in più?"


Nonostante tutto, ero stata così furiosa con lui che, per almeno qualche mese, il suo piano aveva davvero funzionato. Dopo quella sera, non lo avevo più chiamato, non lo avevo più cercato. Certo non mi sarei trasferita fino in California per qualcuno che non voleva stare con me, mi ripetevo tra una fitta e l'altra del mio cuore e del mio orgoglio feriti.

Così, d’improvviso, senza più Damon accanto ad offrirmi la direzione e la scelta più ovvia, mi ero resa conto, non senza un certo disappunto, che a dispetto di tutte le opzioni che mi si stavano aprendo davanti, non ero ancora in grado di decidere dove volessi andare, cosa volessi fare, o chi volessi essere.

Ma se non altro ero determinata a scoprirlo.

Avevo preso i miei risparmi, insieme a ciò che avevo messo da parte per il matrimonio con Elijah, ed ero partita. Per un po’ avevo chiesto accoglienza a Finn, l’amico di Sage a New Orleans che già aveva ospitato la mia pazza fuga di qualche mese prima, offrendomi di aiutare nel suo locale in cambio di una stanza dove dormire. Avevo poi passato l’inverno successivo a Parigi, tra un minuscolo appartamento condiviso in subaffitto e classi serali che avevano cercando di insegnarmi nozioni di francese e di pasticceria - con qualche successo per la prima impresa, e molti meno per la seconda. Avevo preso treni, visitato città, e incontrato persone che non avrei mai più rivisto.

Era stata una sensazione così strana all’inizio, paurosa e stimolante al tempo stesso, come può esserlo solo la prospettiva di illimitate possibilità ancora aperte in attesa là fuori indipendenti da chiunque, compreso un uomo frustrante e meraviglioso che pure mi amava con tutto se stesso. E, pur senza smettere mai di pensarlo, in un contraddittorio alternarsi di sentimenti che oscillavano dal desiderio, alla tristezza, alla rabbia, e alla mancanza di lui che avvertivo in ogni fibra del mio essere, dopo un po’ avevo iniziato a vedere ciò che aveva fatto.

Damon si era tolto dall’equazione e mi aveva lasciato andare per la mia strada fino a che non avessi saputo quando e dove fermarmi, proprio come avevo fatto io con lui tanti anni prima quando le parti erano state invertite, solo con un po’ meno drammi.


La prima volta che lo avevo visto di nuovo era stato quando era nato Thomas.

Ero tornata negli Stati Uniti da qualche settimana, dopo aver ricevuto risposta positiva da uno dei college per cui avevo fatto domanda. Ero a Berkeley per una visita a Jeremy che aveva finito per protrarsi più a lungo del previsto quando, un po' per caso, un po' perché avevo ancora qualche mese libero da impegnare prima dell'inizio dei corsi, avevo iniziato a prestare volontariato presso un centro che organizzava programmi educativi e di recupero per persone provenienti da situazioni disagiate.

Il pensiero che avrei potuto rivedere Damon solo attraversando la baia era un sottofondo costante, tremendamente vicino ma fragile, pieno di tutte le incertezze che accompagnavano la consapevolezza di non sapere, non fino in fondo, cosa avrei potuto trovare ad aspettarmi dall'altra parte, se uno spiraglio di possibilità o un altro cuore spezzato come quello con cui mi aveva lasciato mesi prima.

Solo la telefonata di Caroline in un soleggiato pomeriggio di aprile, con la quale mi informava tutta agitata che lei e Stefan stavano per prendere il primo volo per San Francisco per non perdersi l'imminente nascita di loro nipote, era riuscita a farmi compiere quel passo e attraversare quella sottile, incolmabile, striscia d’acqua che ancora ci separava.

Ero arrivata in ospedale verso sera. Senza avere bene idea di dove andare, avevo vagato nel reparto maternità fino a che un infermiere non mi aveva indirizzato nella giusta direzione e verso la giusta stanza.

Damon non mi aveva visto, ma io avevo visto lui. Lo avevo intravisto attraverso la porta lasciata socchiusa, proprio mentre l’infermiera se ne andava e lui restava lì, un po' impacciato all’inizio, ma con lo sguardo trasognato carico di nervosismo e felicità e stupore incapace di staccarsi dal neonato addormentato tra le sue braccia.

Lo vidi sporgersi appena in avanti per avvicinarsi al suo viso e mormorare con un sospiro rassegnato, “Mi dispiace davvero molto, dover essere io a dirtelo, piccolo. Perché a quanto pare sei incastrato con me, il che vuol dire che sei abbastanza fregato in partenza. Ma prometto di fare del mio meglio, ok?”

Con la gola più stretta, stavo per indietreggiare e andarmene, ma poi Damon rialzò la testa, i suoi occhi di colpo più larghi nel momento in cui mi avevano toccato, e poi accigliati in una confusione stupita l’attimo dopo.

“Ciao,” bisbigliai, la voce roca, incapace di dire di più.

“Ciao,” sorrise.

A quel punto, il mio cuore era già un disastro tamburellante, sveglio e scombinato tutto d’un tratto.

Avevo fatto un passo in avanti, incerta, quasi a voler vedere se la terra sotto ai piedi mi avrebbe tenuto. Poi un altro, e un altro, ed ero corsa da lui, gettando le braccia intorno a entrambi e seppellendogli la faccia nel collo, inalando l’odore di caffè, neonato, ospedale, una sigaretta recente, e, sotto e sopra a tutto ciò, l’odore di lui, lo stesso che mi agitava le farfalle nel petto fin da quando non eravamo che ragazzi.

“Dove sei stata?” mi sussurrò nell’orecchio, sfiorandomi appena la pelle con le labbra.

Sussurrai di rimando.

“Qui.”


***


Nevica a Mystic Falls, così come su tutta la costa orientale, e tutti i voli sono in ritardo, compreso quello di Damon.

Mi attardo a villa Salvatore ad aiutare Caroline con gli ultimi regali di Natale, mentre Stefan aspetta che suo fratello e suo nipote atterrino all’aeroporto.

“Così, ho chiamato un’altra volta il giornalista,” la mia amica sta finendo di raccontare, mentre posa un adorabile fiocchetto sopra un piccolo maglione con renne danzanti che ha preso per Thomas. Ne ha preso uno identico anche per Damon, e sono piuttosto impaziente di vedere la sua faccia quando Caroline lo costringerà a indossarlo per le foto. “E gli ho detto, non me ne frega un cavolo, se si tratta di ciò che ha realizzato con la sua compagnia e non della sua vita privata, non è un dettaglio di poco conto! E’ sposato, con me. Scrivi questo nel tuo stupido giornale.”

Trattengo a stento una risata. Un paio di settimane fa, Stefan è comparso nella lista di Forbes degli under 30 più di successo, un riconoscimento che ha accettato modesto con un sacco di punzecchiamenti da parte di suo fratello e qualche brontolio da parte di sua moglie, che da quel momento non aveva più smesso di chiamare l’editore responsabile per lamentarsi del fatto che l'articolo non specificasse abbastanza chiaramente che Stefan non fosse uno scapolo disponibile sul mercato.

“Beh, oggi ha pubblicato la rettifica,” sorride con soddisfazione, mentre finisce di mettere via il regalo insieme alle altre dozzine che suo nipote di venti mesi sta per ricevere. “E, per scusarsi, ha fatto un generosa donazione al WHC.”

Il Women Health Center è la fondazione che Caroline ha fatto partire lo scorso anno per offrire assistenza sanitaria e supporto a donne che non hanno i mezzi per permetterselo. E’ la sua missione, la sua creatura, come anche lei la chiama, e si sta facendo abbastanza conoscere nella zona. Non molto tempo fa, la mia amica è stata approcciata da un comitato elettorale che le ha chiesto se avesse mai considerato di entrare in politica. Beh, lo sta considerando adesso.

“Un’altra vittoria per Caroline Salvatore,” la prendo in giro.

Lei mette su un finto broncio, ma in realtà sta gongolando.

“Devo andare,” dico mentre finisco di avvolgermi in sciarpa e cappotto, preparandomi ad affrontare il freddo che c’è fuori. “Papà e Jeremy mi aspettano per cena. Quando arrivano, dai un bacio ai ragazzi da parte mia.”

“Glielo hai detto?” mi chiede, quando sono già sulla porta.

Esito, mentre finisco di mettermi i guanti. Scuoto la testa.

“Non ancora.”

Piega la testa di lato, appoggiandosi con una spalla contro lo stipite della porta del salotto. Dietro di lei, l’albero di natale luccica in tutti i suoi caldi colori, riflettendosi contro il vetro buio delle finestre.

“Perché no?”

Sospiro.

“Perché so cosa dirà, e non voglio avere di nuovo quella discussione, non adesso. Ma lo farò. Prima della fine delle feste.”

“Non lo capisco,” scuote la testa lei. “State insieme? Non state insieme? Sono quasi due anni! Per la mia sanità mentale, vi volete decidere?”

In risposta, sorrido e basta, calco il cappello in testa, ed esco verso la neve.


***


Non si tratta tanto di mancanza di volontà, tra me e Damon. La maggior parte della volte, è più una questione di tempo, geografia, e di due vite parallele che finiscono per non incrociarsi quasi mai.

Le cose erano state così frenetiche, nuove e meravigliose, in quei primi giorni quando aveva portato Thomas a casa. Caroline e Stefan erano rimasti per un po’ ad aiutare e, senza averne del tutto intenzione - o forse dopotutto un po' sì - ero rimasta anch’io. Del resto, mi ci era voluto poco meno di un secondo, precisamente quello in cui lo avevo per la prima volta tenuto tra le braccia, per innamorarmi del piccolo Thomas almeno quanto già lo ero del padre.

Ma sapevamo entrambi che, prima o poi, cosa farne di noi due era un discorso che avremmo dovuto affrontare di nuovo.

Era successo a notte tarda, nell’appartamento di Damon. Thomas si era da poco addormentato, e io stavo finendo di lavare alcune ciotole e stoviglie rimaste nel lavandino. Avevo sentito Damon avvicinarsi in silenzio alle mie spalle, lo avevo sentito restare a guardarmi senza dire niente per un lungo istante.

Chiusi il rubinetto, le mani ancora gocciolanti.

“Adesso chiamo un taxi e …”

Fu in quel momento che le sue labbra mi sfiorarono il collo. Non con incertezza, non come una titubante richiesta, ma come un dato di fatto, premuto sulla pelle a riassumere tutto quello che, nelle ultime due settimane, non ci eravamo ancora detti a parole.

Mi si bloccò il respiro, ma in un solo istante mi ero già abbandonata all'indietro, contro il suo petto e contro il suo bacio, incurvando appena il collo per offrirgli un accesso migliore che non esitò ad accettare.

“Resta,” disse piano, mentre la sua mano si posava sul mio fianco, la voce roca di bisogno. “Anche solo stanotte.”

Mi sfuggì un gemito quando avvertii la pressione dura contro le gambe, la pelle a fuoco dove le sue labbra mi stavano tracciando la spalla, e dove le sue dita si erano intrufolate sotto alla maglietta per accarezzarmi il fianco.

Fu così difficile, costringermi a dirglielo.

“Pittsburgh,” sussurrai, mentre le sue dita risalivano leggere sopra il mio addome fino ad andare a sfiorarmi la parte inferiore del seno, e non aiutarlo a liberarmi di quei vestiti io stessa iniziava a costarmi uno sforzo enorme.

“Mai stato,” mormorò. “Cosa c’è là?”

“Il college dove mi hanno accettato.”

“E’ grandioso.”

“Inizio in autunno.”

Sentii la sua pausa, il momento in cui staccò appena le labbra da me. Mi voltai. Quando incontrai il suo sguardo, non ebbi bisogno di dire altro.

“Elena,” disse con fare serio, solenne. “Hai idea da quanto stessi morendo dalla voglia di fare questo? Autunno è tra mesi. Pensi che io sia in grado di pensare così a lungo termine, ora in questo momento, ora che sei qui? Perché, con tutta la buona volontà, non ce la faccio. Tu ce la fai?”

“No,” ammisi, prima di infilare le mani ancora bagnate tra i suoi capelli e tirarlo a me per far scontrare la sua bocca con la mia.

Ma mesi, in realtà, non è affatto un termine poi tanto lungo, quanto piuttosto lo spazio di un respiro, finito prima di avere a malapena il tempo di inspirarlo.

Qualche sera prima della mia partenza per Pittsburgh, avevamo avuto di nuovo la stessa discussione della sera del matrimonio di Stefan e Caroline. Era finita con un po' più di speranza per l'immediato futuro rispetto alla prima volta, ma la conclusione pratica non era stata poi molto diversa.

Nè era cambiata molto nei mesi successivi. Thomas richiedeva tutto il suo tempo e le sue energie, mentre il semestre e i corsi in Pennsylvania si prendevano i miei. Eravamo finiti in un limbo nel quale non avevamo mai, o quasi, modo di vederci. Quando ciò di rado accadeva - le vacanze di primavera, il primo compleanno di Thomas, la fine della sessione di esami - nessuno dei due era capace di pensare oltre il momento presente, proprio come quella prima notte a casa sua.

Ogni volta che ci separavamo, avevamo di nuovo la stessa conversazione. Ogni volta, io gli promettevo: un giorno te lo farò capire.

"Capire cosa?"

Che posso scegliere e avere entrambe le cose, Damon.

Me stessa, e te.


***


Mi sveglio nel mezzo del notte e, allungando una mano verso Damon, trovo la sua parte di letto vuota. Non è la prima volta che capita, così mi alzo, mi getto addosso una felpa e, scalza, mi avventuro nella casa buia.

Il nuovo appartamento di Damon è pieno di scatole a metà, mezze aperte e mezze piene, che ingombrano ogni angoletto e via di passaggio dall'ingresso fino alle camere. A quanto ne sa Damon, è per questo che sono qui a San Francisco, per aiutarlo con il suo trasloco nel nuovo appartamento più grande prima dell'inizio della nuova sessione di corsi di gennaio, non per l'altro motivo che ancora non gli ho detto.

Mi faccio strada tra il disordine, attenta a non calpestare qualche mattoncino Lego vagabondo, sempre capace di sbucare fuori dal nulla quando meno te lo aspetti, fino alla camera di Thomas.

Come sospettavo, è lì che lo trovo, addormentato sulla poltrona, con una mano penzolante dentro al lettino dove anche Thomas dorme afferrandolo per le dita. Da sveglio, Thomas ha i più begli occhi azzurro chiaro che abbia mai visto - più belli anche di quelli del padre, lo prendo sempre in giro. Sono anche pronta a giurare che, ogni volta che mi sorride, lo faccia già con un sorrisetto furbesco che mi è a dir poco familiare.

Mi rannicchio accanto a Damon sulla poltrona, e lui si muove appena per aggiustare la sua posizione così che anche io possa trovare spazio, facendo scivolare un braccio attorno alla mia vita.

"Non volevo svegliarti," mormora in un bisbiglio assonnato.

"Lo so," bisbiglio di rimando. "Va bene."

Gli metto una mano sul petto, ci poso anche la guancia, riscaldata dal calore che emana.

Sopra una delle mensole, tra foto e pupazzi, nella penombra si intravede una busta con il nome di Damon scribacchiato sopra, che ancora contiene una lettera stropicciata che non è mai stata letta. So che ha avuto la tentazione di farlo, una volta o due. Ma non lo ha mai fatto e non penso che lo farà mai. Damon dice che preferisce così, sempre lì a ricordargli di non lasciare mai troppe cose non dette tra lui e suo figlio.

Io, invece, ancora non gli ho parlato dell'altra lettera. Quella con cui, solo qualche settimana fa, l'università della California ha accettato la mia richiesta di trasferimento da Pittsburgh insieme alla dichiarazione del mio indirizzo di studi in psicologia clinica, con cui voglio proseguire il lavoro iniziato per volontariato da quasi due anni ormai.

Forse, quando lo farò, ammettendo di essere qui tanto per il suo trasloco quanto per il mio, torneremo di nuovo alla solita conversazione. E forse non sarà sempre perfetto, e sarà sempre un po' complicato, ma va bene così.

Non c'è nessun altro modo in cui lo vorrei.

Lo so io e, soprattutto, lo sa benissimo anche lui.

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