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Autore: Nanas    12/03/2017    1 recensioni
“[…] Perché Gotham è, prima di tutto, i suoi cittadini.
Cittadini che continuano a portarla sull’orlo del baratro solo per tirarla all’ultimo nuovamente via, desiderosi di combattere per l’anima di quella città che si ritrova ad essere ancora una volta appagata del caos che la compone, soddisfatta della consapevolezza che il vivere le sue ombre comporta.
Poiché tutti sono parte della sua esistenza, tutti sono sangue che scorre caldo nelle sue vene e che rende possibile la sopravvivenza al freddo della notte:
Tutti sono criminali, a loro modo. E finché vivono, così vive la città.
E poiché la città vive, così vive Batman.”
_________________________________
Hint: [KuroKen] [BokuAka] [DaiSuga] [IwaOi]
[Batman AU] [WARNING: Slow Build Fanfiction!]
Genere: Azione, Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Daichi Sawamura, Hajime Iwaizumi, Morisuke Yaku, Tetsurou Kuroo
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Per prima cosa, vi ringrazio per aver aperto questa fanfiction!
Fino all’ultimo sono stata in dubbio se scrivere una presentazione o una larga nota d’autore finale per questa storia, ma proprio quando stavo per protendere per la seconda mi sono ricordata di come abbia segnato tra i personaggi un po’ tutti e che quindi, leggendo il primo capitolo estremamente limitato dal punto di vista di apparizioni, qualcuno si sarebbe potuto distrarre dalla cosa pensando che in verità i personaggi siano meno di quanto si immaginino. Non è così: se ho contato bene, in questa fanfiction ce ne sono circa una trentina rivisitati! Non tutti intervengono con la stessa frequenza naturalmente, ma ho cercato di non rendere nessuno una mera cometa e chiunque importante nel suo piccolo: spero che questo passi!
La vera protagonista, in ogni caso, è e rimane Gotham: una città scura, divisa nettamente nella sua parte diurna e florida di eccessi e bellezze ove vive il ‘bel popolo’ e quella notturna, malfamata, decadente nella sua malformazione nata da un appassimento delle persone che la abitano e la vivono. È piena di suoni, sirene, clacson, persone che camminano velocemente e vicoli abbandonati. È piena di grigio, di smog, di palazzi alti e di carte per terra, persone che mendicano sedute sul ciglio della strada e luci dei lampioni che fendono il buio delle lunghe vie della città e gli incroci larghi e regolari. Gotham è una tipica città americana, eppure unica nei suoi cittadini.
Ed in questa storia ne siete i benvenuti. ♡

 

 

1. Adhuc sub iùdice lis est


[La causa è ancora in attesa di giudizio]
Orazio, Ars poëtica, 78

 

 

 

 

GOTHAM CITY – Manicomio di Arkham (Arkham City)

17/12/1976 – Pomeriggio

 

Manicomio di Arkham.

Il suono della sirena echeggia graffiato e basso contro le pareti grigie e rovinate dell’enorme sala, spandendosi nell’aria mentre una lampada protetta da una grata arrugginita e chiodata al muro rotea su se stessa, ferendo di un colore aranciato il pavimento sporco e composto da larghe piastrelle scure.

Yaku attende in silenzio, le mani che trovano rifugio dentro le tasche del lungo doppiopetto, e mentre aspetta che i portelloni blindati finiscano di aprirsi del tutto porta le iridi castane a fissare le guardie carcerarie davanti a lui, il giubbotto con su scritto ‘Security’ che esprime il motivo della loro presenza in quella bolla di civiltà carceraria.

«Prego».

Sente uno dei due dire quando quel suono assordante finalmente smette di fendere l’aria, e fa un cenno di ringraziamento prima di superare entrambi, gli agenti che si è portato dietro dalla centrale che lo seguono a qualche passo di distanza. In lontananza può sentire uno sfondo di urla e lamenti mischiarsi al suono incessante della pioggia, ma come ormai ha deciso da anni di fare tenta semplicemente di ignorarlo, avanzando invece verso l’ingresso controllato.

«Quanto tempo fa lo hanno preso?»

Iwaizumi si materializza al suo fianco subito dopo aver passato la sala delle guardie, e Yaku non ha bisogno di guardarlo per prendere consapevolezza di quanto quella notizia sia ancora difficile da digerire per lui, che al caso di Pinguino ha lavorato per tantissimi anni, senza riuscire ad avere mai prove sufficienti per darlo alla giustizia.
Non che non ci abbia provato in passato, si deve dire: l’Ispettore Iwaizumi è entrato nel suo dipartimento almeno una decina di anni prima, e Yaku è abbastanza certo di averlo visto passare almeno gli ultimi cinque a tentare di catturare il criminale che ora sosta dietro le sbarre, mettendoci tra l’altro un impegno che a tratti aveva rasentato la devozione. Alla fine era stato proprio Yaku, qualche mese prima ed usufruendo del suo essere di grado più alto in quanto commissario del suo distretto, ad obbligarlo ad andare avanti, revocandogli l’autorizzazione a consultare notte dopo notte i verbali trascritti dai suoi colleghi anni prima – o quelle prove circostanziali ormai cadute in prescrizione – e chiedendogli di partecipare ai nuovi casi che si stavano presentando in quei giorni. Iwaizumi era un buon ispettore, e vederlo buttato davanti pratiche impossibili già era una novità che non aveva apprezzato di buon grado. Quando a questo si era aggiunto lo scoprire che aveva iniziato a non tornare a casa più volte a settimana, dormendo sul lavoro pur di non perdere tempo prezioso da dedicare a quelle piste sterili, era sopraggiunta l'inamovibile alternativa lavorativa: alternativa che l’altro non aveva preso bene, ma che almeno gli aveva evitato di rovinarsi la salute e la sanità mentale sul cercare le motivazioni che avevano spinto Pinguino aa cambiare drasticamente atteggiamento verso la comunità.

«Qualche ora fa, dovrebbero averlo portato in una cella isolata nel reparto di Terapia Intensiva».

Risponde mentre vengono fermati da un altro paio di agenti di sicurezza, stavolta armati. Mostra – per quella che è abbastanza sicuro sia la terza volta negli ultimi dieci minuti – la tessera di riconoscimento della GCPD, la copertura di pelle che viene fatta aprire orizzontalmente per venire poi richiusa poco dopo, al vedere uno dei due arretrare, rilassando le spalle.

«Commissario Yaku. Loro sono l’Ispettore Iwaizumi ed il Sovrintendente Capo Ushijima».

Dichiara, voltandosi velocemente ad indicare i due uomini dietro di sé; può vedere sott’occhio le mani di entrambi che scivolano fuori dai cappotti a tirare fuori i loro tesserini di riconoscimento, mostrando il distintivo argentato celato nella custodia che li contiene, prima di riportare l’attenzione sugli agenti davanti a loro, annuendo debolmente di risposta al loro cenno di assenso.

«Siete qui per Pinguino?»

«Esatto, dobbiamo fargli delle domande per assicurarci della sua colpevolezza».

«Non lo avete già fatto? Non sarebbe già in carcere, altrimenti».

Lo sguardo di Yaku rimane immobile, fisso verso l’agente che gli ha posto la domanda con leggero scetticismo, rimanendovi il tempo sufficiente affinché una chiara virgola di disagio inizi a farsi spazio tra le sue rughe espressive. Alla fine la guardia cede, e gli occhi vanno a scivolare insicuri fuori dal suo campo visivo ed in giro per le pareti, cercando falle inesistenti o macchie di umido (in verità già largamente presenti quasi ovunque) e di muffa che facilmente si possono vedere rincorrersi agli angoli delle pareti rinforzate.

«Cella 117».

Yaku annuisce, aspettando che l’agente si giri ed alzi il braccio a dare il lascia passare ad una terza persona presente su una guardiola sopraelevata, permettendo al portellone in acciaio e cemento di aprirsi; lo fa anche lui, alzando nel suo caso il braccio per accennare ad un ringraziamento, prima di varcare la porta e seguire i lunghi corridoi, prestando attenzione ai grandi numeri cerchiati che compaiono di sala in sala attorno a lui.

Terapia Intensiva è una delle strutture più grandi e profonde dell’intero comprensorio manicomiale: si sviluppa su tre piani scavati sotto terra, ed è atta a contenere fino a duecento criminali di diverso livello. Condotti da uno degli agenti in divisa del luogo, i tre poliziotti superano una serie di enormi porte dall'apertura orizzontale, probabilmente necessarie a condurre ad altre sezioni del Manicomio Carcerario a loro palesemente precluse. La cosa risulta sempre più chiara man mano che proseguono, la guardia che li sta accompagnando che sembra permettere l’apertura esclusiva di alcuni mirati portelloni blindati, e nel mentre lo vede parlare alla ricetrasmittente per richiedere l’ennesima autorizzazione Yaku lascia lo sguardo scivoli sulle telecamere poste in giro, tra una grigia parete e l’altra, appena sopra lampade rosse e tonde che illuminano le colonne che dividono una cella dall’altra. Sono tutte diverse, a loro modo: alcune sono aperte e scure all’interno, altre chiuse, mentre altre sembrano quasi essere coscienti ed urlanti mentre chiunque sia dall’altra parte della porta blindata sbatte contro di essa, graffiandola dall’interno o ridendo istericamente.

 

«Bel posto».

Commenta Iwaizumi a qualche metro di distanza, e sinceramente Yaku non può fare a meno che trovarsi d’accordo con quel sarcasmo evidente mentre arrivano davanti ad un gigantesco montacarichi, le grate scure ed arrugginite a causa dell’umidità che cigolano mentre le guardie a difesa dell’ascensore ne aprono le inferriate, lasciando entrare i quattro all’interno di quell’enorme locale. Yaku guarda i suoi sottoposti, e come ormai accade da anni non rimane eccessivamente sorpreso né dall’assoluta mancanza di emozioni che sembrano albergare sul volto di Ushijima, né dalla sensazione di scettica miscredenza che quello di Iwaizumi sembra invece traspirare.

Quando arrivano al piano prefissato, tuttavia, si riscopre ancora disabituato a certe emozioni.

Perché nonostante non sia la prima volta che scenda lì sotto, né con tutta probabilità l’ultima, si ritrova ogni volta incredibilmente novizio a quel nodo allo stomaco che lo attende non appena le voci dei detenuti si fanno più vicine, più strazianti, le urla isteriche che lasciano posto a sibili segreti e a frasi incomprensibili che si ripetono come una nenia per tutta la durata del corridoio. Sulle pareti strette – che dividono le celle ai lati in file ordinate e parallele – display piatti mostrano il simbolo del carcere roteare pigramente attorno al suo asse, mentre la voce registrata del Sindaco esprime in sottofondo una sfilata ottimistica e politicamente corretta di concetti ed utopie perbenistiche – alle quali, peraltro, Yaku è abbastanza conscio nemmeno questi creda veramente più.

«(…) ha fondato questo nobile istituto, pochi immaginavano sarebbe diventato un centro di analisi e riabilitazione psichiatrica per criminali di livello nazionale (…)»

Si volta di lato per vedere, oltre che sentire, uno degli incarcerati recitare a voce bassa le parole del Sindaco; le dita di quello che fu un uomo sono strette attorno alle sbarre, il volto è innaturalmente incastrato tra le grate, ma sono gli enormi occhi larghi ed iniettati di sangue ad attirare grottescamente la sua attenzione, studiandoli mentre intenti a fissare il monitor in maniera maniacale. Le ciglia non sbattono, e le iridi non cadono da nessun’altra parte che non siano quelle due A unite che volteggiano con indolenza sino a formare un rombo, la scritta ‘Arkham’ ben visibile al centro di esse.

«Siamo quasi arrivati, si trova in fondo a questo corridoio».

La voce della guardia lo ridesta da quella disturbante visione, portando a volgere nuovamente lo sguardo in avanti, e mentre avanzano accoglie quasi come una benedizione il fatto che quelle urla che hanno fatto da sfondo al loro camminare fino ad ora si facciano più sporadiche sino poi a scomparire quasi del tutto, divenendo nulla più che un lontano sottofondo in una sala quasi completamente vuota.

«Lo abbiamo messo lontano dagli altri per evitare problemi, è piuttosto bravo a convincere le persone a sporcarsi le mani al posto suo».

«Fidati, non ci stai dicendo nulla di nuovo».

Yaku sente Iwaizumi rispondere a denti stretti. Si avvicina il sufficiente per andargli a stringergli appena la spalla con la mancina, catturando il suo sguardo ed obbligandolo ad abbassare appena il viso, così da incontrare i suoi occhi.

«Se vuoi entro solo con Ushijima».

«No».

Risponde subito, fissandolo intensamente fino a quando Yaku non sospira, scostando la mano e girandosi per seguire la guardia nell’anticamera della cella.

«Come vuoi. Allora entriamo. Ispettore, dopo di lei».

 


°°°°

 

La cella 117 non era diversa solo nell’ambiente nel quale era situata, ovvero nel suo essere il più lontana possibile da qualsiasi uscita utile ed in un luogo più isolato e più controllato dalle telecamere rispetto alle altre: quello sarebbe stato raro, ma decisamente non unico. Quello che la differenziava veramente era la costruzione interna della stanza, che al contrario delle restanti era infatti divisa in due parti, separate da una grata in acciaio su cui si affacciavano due panche in cemento poste una davanti all’altra – posizione evidentemente atta a permettere il vantaggio di fare un interrogatorio senza obbligare le guardie a presenziare il movimento del prigioniero.

Le luci si trovavano ad una altezza tale da non permettere nemmeno all’umano più alto di potervisi avvicinare troppo, toccarne i fili o semplicemente trovarvi un appiglio per fare da leva e tirarsi sopra; poteva sembrare una scelta bizzarra, ma era una precauzione che si era resa necessaria da quando l’ultimo prigioniero aveva tentato di strappare la struttura dal soffitto, andando a ricercare nei condotti che probabilmente si nascondevano oltre la parte murata una possibile via di fuga.

Non che tali contromisure fossero realmente necessarie, conoscendo le modalità – incredibilmente più astute fra l’altro, oltre che pericolose come solo i cavilli burocratici sapevano essere – attraverso le quali era solito sfuggire alla legge Pinguino.

 

°°°°

Pinguino /(?)

Professione: Ristoratore, Boss del racket
Vero Nome: Suguru Daishou
Aspetto: Uomo, capelli petrolio con frangia laterale, occhi nero pece
Caratteristiche: Genio del crimine e della finanza, esperto nel combattimento corpo a corpo.

°°°°

 

Yaku entra come terzo nella piccola stanza, ma non si sorprende di trovare il criminale sdraiato sulla schiena, le mani elegantemente poste sullo sterno, gli occhi chiusi e i capelli corti, lisci e di un denso verde petrolio morbidamente poggiati su quell’unico cuscino ancora plastificato lasciato sul materasso spoglio. Il commissario muove qualche passo verso la panca, non staccando mai gli occhi da lui, e può quasi sentire l’aria di scherno che l’altro riesce a traspirare: quel sarcasmo con il quale pensa a loro mentre, completamente conscio di come tutti siano infine entrati all’interno dell’abitacolo, lascia che gli angoli delle sue labbra vadano a tirarsi su in maniera impercettibile ma incredibilmente fastidiosa. Dio: basta solo questo a procurare un leggero tic nell’arcata sopraccigliare di Yaku che però, forse non in maniera del tutto inaspettata per il detenuto, decide di limitarsi a battere con forza le nocche sulle sbarre, iniziando poi a parlare con tono appena più alto del solito.

«Pinguino, abbiamo delle domande da farti».

Annuncia asciutto, osservando con irritazione sempre crescente come l’unico effetto di quelle parole sia il modo in cui gli angoli della bocca dell’altro si acuiscano maggiormente, la posizione che rimane del tutto simile a quella adottata precedente la sua richiesta.

«Commissario, che onore vederla scendere così in basso pur di vedermi».

Le palpebre si schiudono, le iridi serpentine che vanno a fissarsi sottili e scaltre sul gruppo dall’altra parte delle sbarre mentre un sorriso ora chiaramente provocante si apre su quel viso liscio e latteo, probabilmente divertito dall’ambivalenza di quella frase da lui stesso pronunciata.

«Anche per me è un piacere vederti qui, Pinguino. Devo dire che l’atmosfera del manicomio criminale ti dona».

Pinguino sibila una risata a denti stretti prima di decidere infine di sedersi, un lungo ciuffo morbido e ondulato che va a portarsi completamente sulla parte sinistra del viso mentre si porta in verticale, lasciando scoperti entrambi gli occhi lunghi e stretti e le sopracciglia sottili.

«Peccato solo che sia stato un viaggio a vuoto il suo, Commissario: non ho interessi nel rispondere alle vostre domande, qualsiasi esse siano».

Le iridi si assottigliano maggiormente nel dirlo, e nel silenzio successivo Yaku può chiaramente sentire Iwaizumi muoversi irritato accanto a lui, vibrante come un cane selvatico in attesa di attaccare. Forse non è davvero stata una buona idea portarlo là sotto.

«Pinguino».

Yaku si volta verso Ushijima, rimasto in silenzio fino ad allora ed ancora immobile alla sua sinistra, e per un secondo a quello sguardo alto ed impassibile si sovrappone quello del padre di Wakatoshi, quell’espressione austera e noncurante che ha visto tante volte sui ritratti ad honorem in giro per il dipartimento ed appartenenti ai precedenti commissari che hanno dato lustro al loro distretto in passato. Buon sangue non mente, in fondo.

«Il commissario Yaku potrà volerti venire incontro─»

Il superiore aggrotta le sopracciglia, dubbioso su dove l’altro voglia effettivamente arrivare con quel discorso. Se lo avesse detto qualcun altro potrebbe pensare a quel commento come ad un tentativo di indebolire la sua posizione, ma contando che a farlo è stato Ushijima lo scetticismo è abbastanza elevato da fargli riconsiderare piuttosto velocemente la cosa, portandolo a domandarsi in compenso quale possa essere il finale di una frase iniziata in maniera simile.

«─Ma io non perdono chi fa ostruzionismo alla giustizia».

La voce è bassa e roca, eppure per qualche motivo non c’è calore nelle sue parole, solo il ghiaccio e l’umidità della cella che tutto ad un tratto sembrano diventare ancora più estremi e insopportabili, lasciando una sensazione di disagio che con tutta probabilità silenzia Pinguino per molto più tempo di quanto si sia egli stesso prefissato. Yaku lo vede fissare il sottoposto con attenzione, tutto ad un tratto nuovamente serio ed incredibilmente attento alle parole dell’altro, e nel frattempo che le iridi di Ushijima si riflettono nelle sue il silenzio si protrae nella piccola stanza, in attesa di venire schiuso dal suo bozzolo di aspettative.

«Ah! Quanto è difficile essere innocenti di questi tempi. Verrebbe quasi da dichiarare il falso per non dover sottostare un secondo di troppo a quegli occhi inquisitori».

Pinguino porta infine le mani verso l’alto, le braccia piegate mentre le spalle vanno ad alzarsi per qualche secondo, il viso a scuotersi leggermente ai lati.

«Troppe guardie mi hanno fatto domande, in queste ore. Ma voi non siete come loro, giusto? Voi vi sentite speciali, ecco perché siete qui. Lo sento sulla lingua─»

Ed effettivamente nel dirlo fa scivolare fuori quel muscolo stretto e leggermente biforcuto sulla punta, indicandolo con il lungo indice pallido e l’unghia a stiletto, il viso che si solleva appena mentre questo rotola per qualche istante verso l’alto e verso il basso, saggiando il sapore dell’atmosfera che lo circonda prima di ritirarsi nuovamente all’interno della cavità calda.

«Sento l’aria che ristagna dei dubbi e delle domande che vi trascinate dietro. Il vostro odore di decoro e di giustizia è quasi nauseante, la mia lingua non raccoglieva molecole olfattive così pulite da parecchio tempo, ormai. Nemmeno una delle guardie che mi ha portato qui aveva la metà dell’odore che trasudate, non riesco ad immaginare cosa debba essere sentirsi in minoranza in un ambiente dove si dovrebbe essere tutti ligi a certi utopici ideali».

«Le nostre guardie fanno il loro lavoro, Pinguino. Non ti abbiamo portato qui per sottoporli ad una prova di fedeltà a tue spese».

Yaku risponde leggermente piccato, le braccia che si incrociano in petto mentre si muove appena il sufficiente per obbligare il criminale a porre nuovamente l’attenzione su di lui, attirato dal movimento come un serpente alla ricerca di una possibile preda.

«Meglio per loro allora, poiché non sono affatto sicuro quanti passerebbero il test, altrimenti. Ma basta chiamarmi Pinguino, è un nome che mi hanno dato troppo tempo fa e troppe volte ho – come si potrebbe dire? – cambiato pelle, nel frattempo. Anche se quell’ispettore non sembra esserne particolarmente conscio, visto come mi guarda da quando è entrato».

Yaku ci mette qualche secondo a capire di chi stia parlando l’altro, ma gli basta notare il modo in cui Iwaizumi sta guardando Pinguino per farsi un’idea chiara su chi sia soggetto della frase: le palpebre dell’ispettore sono assottigliate e la mascella risulta dolorosamente contratta, probabilmente a riflesso dello sforzo di controllare le parole, o forse la rabbia, o forse entrambi. Yaku stringe le labbra, domandandosi per quella che sembra essere l’infinitesima volta se abbia fatto bene a portarlo con lui, e nel mentre cerca di ricordare se vi sia un motivo principale per il quale lo abbia fatto.

Quando era arrivata la notizia della cattura di Pinguino infatti, solo qualche ora prima, era stato inizialmente molto poco propenso a rendere l’ispettore Iwaizumi partecipe della cosa; ma alla fine, e visti i precedenti, si era convinto fosse ciò che era giusto fare, ipotizzando il vederlo dietro le sbarre avrebbe forse aiutato il suo inconscio a misurarsi con l’altro, a concretizzarlo ed allontanarlo dalla percezione simile ad un incubo che si era ritrovato a rincorrere negli anni precedenti.

Adesso però, a vederlo così, capisce quanto gli effetti di quell’incontro siano ancora impossibili da prevedere, ed il dubbio torna ad insinuarsi velenoso nella testa mentre si sforza di tornare a fissare Pinguino, l’irritazione crescente e sempre più difficile da contenere.

«Sappiamo che hai cambiato modo di operare, e che da quando hai aperto l’Iceberg Lounge il tuo nome non è più intervenuto all’interno di nessuna indagine. Ma sul cambiare quello che sei─ dimmi: come dovremmo chiamarti, allora?»

Le sottili labbra si allargano a disegnare un sorriso serpentino sul volto del carcerato e una mano va a porsi sul petto mentre si alza in piedi, emulando un inchino e tornando poi a fissare malizioso il commissario.

«Molti ormai mi chiamano con il mio nome, ma voi potete chiamarmi Serpe. Piuttosto, l’ho sempre immaginata più alto, sa Commissario? Invece è abbastanza basso da sembrare un topino, sicuro di voler rimanere in questa cella ancora a lungo?»

Ah, questo non doveva decisamente dirlo.

Non sono molte le cose per cui Yaku sia veramente capace di perdere la pazienza, ma sicuramente l’argomento altezza è uno di quelli che chiunque, conoscendolo, non ha fatica a capire sia meglio non tirare fuori in sua presenza. La pulsazione sulla tempia sinistra aumenta distintamente alle parole dell’altro, e prima che possa evitarselo sbatte un pugno distinto contro una delle inferriate della cella, un rumore secco che rimbomba nella stanza per qualche secondo mentre la vibrazione del palo continua a soffocare qualche rumore di sottofondo.

«Ordine, Serpe. Dove io voglia stare non deve interessarti, e non sono venuto qui per questo. L’unico motivo per il quale sei in questa cella è per rispondere alle mie domande, e sarà quello che farai finché non avrò deciso sia sufficiente. Sai per cosa sei stato arrestato e portato qui, almeno?»

Dio, se solo potesse eliminare quel sorriso strafottente.

«Mhm– avrei una lista da proporre, quindi perché non restringiamo il campo e non me lo dici tu, piccolo topo?»

«Come vuoi, allora. Sei stato accusato di aver compiuto praticamente tutti gli ultimi crimini commessi in settimana nella città di Gotham: testimoni affermano di essere certi della tua colpevolezza per la rapina alla banca di Gotham di martedì scorso, il furto con scasso al Museo di Scienze Naturali di questa domenica, nonché l’incendio appiccato al Park Row solo ieri. Nell’attacco, come saprai, sono morti molti civili, senzatetto, guardie e vigilanti. Per tale motivo, oltre che per furto, sei accusato di procurato allarme, terrorismo, omicidio premeditato e probabilmente genocidio».

«Non sono un po’ troppe cose da fare in una settimana, commissario?»

«Pare ti sia dato da fare, ma potresti dircelo tu».

Il silenzio cala nella cella, e Yaku può chiaramente vedere nello sguardo di Serpe una traccia di qualcosa che forse non sperava di vedere, ma che chiaramente non può ignorare.

La confusione.

Dura solo un istante, naturalmente, perché Serpe è veloce a rimettere su la solita facciata controllata e saccente, il sorriso tirato e l’espressione scaltra mentre torna a sedersi, una delle due mani a fare perno sul materasso ed una in aria, il palmo verso l’alto ed il polso piegato mentre la testa viene scossa appena, in senso di diniego.

«Ah, che situazione scomoda. Sa commissario, per quanto sarebbe interessante vedere cosa siate pronti ad accettare ad occhi chiusi pur di riuscire a trovare prove convincenti per tenermi qui dentro, mi duole dirvi che sono innocente. E che se c’è una cosa che odio di più di finire in questa topaia quando colpevole, è l’esserci per qualcosa che non ho fatto. Quindi, per quanto mi commuova sapere che abbiate pensato a me per tutte queste artistiche esibizioni, spero per voi sarete il più lontano possibile da Gotham quando uscirò di qui. Sapete, sono una persona per bene, e come tale non c'è nulla che mi rincresca maggiormente dell'avere a che fare con persone che mentono».

Yaku stringe la mascella, mentre può chiaramente vedere sott’occhio la guardia muovere istintivamente la propria mano sul mitra che teneva abbassato fino a qualche secondo prima, alzandolo leggermente e allargando appena i piedi, così da avere un baricentro più stabile.

«No».

Dice soltanto, voltandosi a guardarlo per qualche secondo ed alzando un braccio a mezz’aria, facendogli segno di stare indietro.

«No».

Ripete, voltandosi stavolta verso Serpe e puntando gli occhi castani e decisi sull’altro, le sopracciglia aggrottate in un’espressione dura ed il volto scuro e diplomaticamente ostile.

Non ha intenzione di ignorare la chiara minaccia dell’altro, ma non crede nemmeno che sia saggio creare attrito fisico all’interno di un carcere potenzialmente pieno di nemici. La guardia è giovane probabilmente, e non ha idea delle sommosse che vi sono state negli ultimi anni all’interno di quella struttura; ma Yaku sì, e non ha intenzione di rischiare.

Non quel giorno.

«Mhm? No? Allora che ne dite di passarmi il testimone e di rispondere alla mia, di domanda?»

E Serpe torna a sorridere, la lingua che viene di nuovo fatta scivolare fuori dalle labbra sottili mentre le sopracciglia si distendono in un’espressione canzonatoria.

«Quando mi farete uscire da qui, posso averti come mio chauffeur?»

 

°°°°

 

GOTHAM CITY – Esterno del manicomio di Arkham (Arkham City)

17/12/1976 – Tramonto

 

L’aria fredda del vento che sferza le guance dei tre poliziotti non appena l’ultima porta dell’edificio di Terapia Intensiva si apre è come il bacio caldo del sole in una giornata primaverile, tanto è silenziosamente atteso da tutti loro.

È ancora presto in fin dei conti ma, nonostante non siano neppure le cinque, la serata sta già sopraggiungendo, buia e senza luna, le poche stelle che a quell’ora dovrebbero già essere visibili brillano nascoste dalla spessa coltre di fumo che esce dalle alte ciminiere ai margini della città, soffocate dall’inquinamento dei mezzi che sale arrampicandosi sui palazzi; malgrado ciò, Yaku è abbastanza certo di non desiderare altro in quel momento che stare lì fuori, seppur nella consapevolezza di vivere in una delle città più inquinate del mondo, le scarpe che calpestano il terriccio secco e il cigolio dei cancelli che accompagna la loro uscita dal comprensorio del manicomio di Arkham. Può quasi sentire i solchi lasciati dagli occhi delle vedette che li stanno controllando a distanza, erti su una delle torri al lato dell’inferriata appena sorpassata, ma finge di non accorgersene mentre si avvicina, con Ushijima e Iwaizumi al seguito, alla volante che hanno parcheggiato lì un paio di ore prima.

Gli sportelli si chiudono, ma la macchina non parte subito, mentre Yaku si volta a guardare verso i due passeggeri alla sua destra, lo sguardo attento e la voce confidenziale.

«Abbiamo bisogno di prove».

Se Ushijima rimane in silenzio a fissarlo dai posti di dietro Iwaizumi invece sbuffa a quelle parole, probabilmente ancora sovraccarico di malumore a causa dell’incontro appena avvenuto e che fortunatamente non ha visto nessuno perdere le staffe – cosa che Yaku ha temuto fino alla fine sarebbe inevitabilmente successo.

«Non abbiamo scelta, gli indizi sono pochi e se portassimo adesso la questione in procura non passerebbe più di ventiquattr’ore chiuso in quella cella.»

Mormora a voce abbastanza alta da venire sentito anche dagli altri due, lo sguardo che si abbassa mentre il pollice e l’indice della destra vanno ad imprimere un poco di pressione all’incavo degli occhi con il naso, le sopracciglia spesse ad aggrottarsi di riflesso.

«I suoi antecedenti sono l'unico motivo per cui ci è stata approvata l'incarcerazione preventiva. Cosa ne pensate delle sue parole, poi? Il fatto che dica di essere innocente è─»

Strano, è quello che vorrebbe dire, ma non finisce la frase perché dirla ad alta voce sarebbe come ammettere e rendere dolorosamente reale quello che tutti loro stanno pensando e che non hanno intenzione di dire; perché se davvero Serpe fosse il responsabile di quei gesti criminali, difficilmente avrebbe articolato la conversazione in quel modo; perché se fosse davvero colpevole, difficilmente si sarebbe fatto prendere; e, soprattutto, se davvero fosse stato lui ad organizzare una cosa simile, difficilmente li avrebbe lasciati cadere così chiaramente nell’argomento, senza tentare raggiri o metodi per uscirne il prima possibile. Il ché fa presupporre che, per quanto sia dura da accettare, non sia davvero lui il mandante di tutti quegli atti di criminalità.

«Pensare alle sue parole non ci farà arrivare a nulla, credo. Alla fin fine persino Serpe, per quanto dotato di una parlantina alquanto irritante, rimane uno psicopatico. Cercare di capire come funziona la sua mente sarebbe una lotta persa in partenza. Tuttavia─»

E qui cala nuovamente il silenzio, perché le parole a questo punto vanno dosate bene.

«… ─Tuttavia qualcosa non torna. Non abbiamo certezze, ma se ipoteticamente lui non fosse il criminale che cerchiamo, o se non fosse da solo, non possiamo ignorare che dovremmo cercare da qualche altra parte il colpevole.»

Sospira poi, come ad essersi improvvisamente ricordato di una cosa particolarmente scomoda che non aveva tenuto in considerazione fino a quel momento, come effettivamente non ha fatto.

«Conoscendo il Sindaco però, farà pressioni per chiudere il caso prima delle elezioni. Il ché ci lascia poco tempo per trovare prove concrete su cui lavorare».

«Cercheremo informazioni».

La voce di Iwaizumi è nitida seppure arrivi mentre l’uomo è ancora con il volto abbassato e gli occhi chiusi, e Yaku si ferma ad ascoltarlo, vedendo con la coda dell’occhio Ushijima voltarsi a fare lo stesso. Annuisce.

«Perfetto. Io andrò al Dipartimento nel frattempo, qualcuno deve avvertire il primo cittadino delle novità e purtroppo questo lavoro spetta a me. Ushijima?»

Ma Ushijima è già uscito dalla macchina insieme ad Iwaizumi, e Yaku sospira, tornando a voltarsi verso il volante e tirando fuori le chiavi della macchina, rimanendo a fissarle per qualche secondo prima di stringerle tra le dita ed inserirle nella toppa al lato, avviando il motore.

Un sospiro, prima di guardarsi allo specchietto, scoprendo una ruga lunga e netta a separare le due sopracciglia e ad esplicitare un’espressione stanca e preoccupata.

Saranno dei giorni lunghi, se lo sente.

«Ah─ Dio, spero ci abbiano almeno aggiustato la macchinetta del caffè.»

 





Eeee stop. Fine primo capitolo!
Lo so, lo so: l’inizio è molto lento, e probabilmente anche un poco noioso. La verità è che avevo bisogno di un
inizio incentrato sull’Arkham Asylum per dare il la alla storia, ma dopo aver fatto uscire i nostri poliziotti dal manicomio non avevo proprio la possibilità di inserirci anche altri personaggi senza rendere il capitolo stesso un’odissea lunghissima! Ma piano piano li inserisco tutti, promesso. Tra l’altro ancora non si è capito chi sia Batman, ahahah! Si accettano scommesse, nel frattempo: al prossimo capitolo!

  
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