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Autore: Sapphire_    18/03/2017    0 recensioni
Nella New York del ventunesimo secolo, Ophelia Winston è una diciannovenne con una vita piuttosto comune, con gli alti e bassi come tutti. Almeno fino a quando tre tizi dall'aria sospetta non la rapiscono (o salvano, a detta loro) e la portano alla sede di una delle due principali fazioni dei cosiddetti Malus Sanguis. E Ophelia si rende conto che avrebbe dovuto riconsiderare la sua visione di quotidianità.
Dal testo:
«Guardala: già dalla faccia si capisce che è fastidiosa. E poi mi spiegate perché sono stato io quello a doverla recuperare? L'idiota mi ha pure morso!» continuò lamentoso quel Nicky, Domi, o come cavolo si chiamava, iniziando a sventolare la mano ferita su cui spiccavano rossastri dei segni di denti.
«Tu mi stavi quasi impedendo di respirare» intervenne furente Ophelia.
Genere: Generale, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti!
Eccomi qui, a più di un mese di distanza ma comunque prima di quanto vi ho fatto aspettare l'ultima volta. Che dire, sono sempre abbastanza occupata con l'università e l'ispirazione va e viene, cerco di approfittarne appena posso!
Questo nuovo capitolo è discretamente lungo e ci sono anche alcune spiegazioni che – spero – possano aiutarvi a capire meglio com'è strutturata la “gerarchia” della storia. Di altro non c'è molta azione, ma spero che vi possa piacere comunque.
Detto questo, vi lascio al capitolo, augurandovi una buona lettura e chiedendovi gentilmente se potreste lasciare dei commenti alla storia, positivi o negativi che siano, per capire quali sono i punti da migliorare!
Un abbraccio,

~Sapphire_






~Dirty Blood



Capitolo nove

Ophelia era sveglia da più di un'ora, eppure non accennava ad alzarsi. Non aveva la voglia, a dire il vero.
Si sentiva il corpo completamente indolenzito dal giorno prima e, anche se la ferita al braccio era migliorata tantissimo grazie al prezioso aiuto di Claire, il ricordo del dolore provato il giorno prima, e il terrore che lo accompagnava, le faceva desiderare di stare in quella coltre di coperte per sempre.
Sarebbe stato tutto più semplice: non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla, si sarebbe nascosta al mondo intero, i problemi sarebbero scomparsi.
No, non era vero. I problemi si sarebbero ingigantiti se non fosse stata loro prestata la giusta attenzione.
Sospirò a quel pensiero.
Il giorno prima, alla fine, non aveva più visto Sargas, Max, Beal o Dominik. Erano andati in quella casa sperando di trovare qualcosa di utile e aveva passato la sera prima a chiedersi se avessero ottenuto quello che volevano. Il fatto che non si fossero presentati da lei la lasciava spiazzata: non le avevano detto nulla perché non c'era nulla da dire? O perché quello che avevano scoperto era troppo importante? O forse non sentivano il bisogno di comunicarle informazioni riguardanti lei.
Sbuffò.
Da un certo punto di vista odiava gli uomini come Sargas: i capi, i leader, che sembrano non aver bisogno di chiedere niente a nessuno, che davano ordini che ovviamente sarebbero stati eseguiti. E, anche se aveva mostrato alcuni lampi di gentilezza, anche con lei sembrava avesse intenzione di comportarsi da “padrone”. Di certo non sarebbe stato lei a cambiare il suo modo di fare, quello era ovvio, e non era nemmeno intenzionata a farlo; solo che non voleva essere trattata come una bambina, sballottata da una parte all'altra secondo un'idea, una strategia ben piantata nella testa di quel ragazzo – sempre che avesse una strategia, quello era ovvio.
Anche se, rifletté, non aveva potuto granché ribellarsi in quegli ultimi giorni: i dolori erano troppo atroci per consentirle di fare alcunché, e da un lato ringraziava che la stessero aiutando in quella maniera, anche se non sapeva il motivo.
Insomma, aveva un totale casino in testa.
Si sollevò dal letto di scatto, rimanendo seduta.
A quanto pare, c'erano delle camere da letto in quella sorta di quartier generale in cui tutti si incontravano – credeva che anche Claire, Dominik e Max avessero dormito lì, ma non ne aveva la certezza.
La sera prima Claire l'aveva portata in quella stanza in gran segreto, tutto il tempo guardinga e con gli occhi bianchi, spaventata dall'idea che qualcuno le notasse – o meglio, che notasse Ophelia stessa.
Non capiva perché la stessero tenendo nascosta in quel modo, ma non protestava: evidentemente, c'era un preciso motivo. Era ovvio però che non si sarebbe accontentata di quella giustificazione ancora per molto: avrebbe chiesto ben presto i motivi di tutti quei sotterfugi, insieme ovviamente a delle spiegazioni riguardo tutto il resto. Sperava che, finalmente, le potessero dare qualche informazione in più.
Tutto sommato, quella mattina stava meglio. Era da un bel po' di tempo che non dormiva così bene – temeva che il suo sonno sarebbe stato popolato da incubi di ogni sorta, invece era stato tranquillo e senza sogni.
Credeva che Claire le avesse messo qualcosa nel tè prima di andare a dormire – ma non aveva intenzione di protestare, le era stato più che d'aiuto.
Dopo questi vari pensieri si decise ad alzarsi.
Scese dal letto con lentezza – era pur sempre indolenzita – tentando di tirarsi giù e coprirsi meglio con quella felpa enorme che Claire le aveva portato, grigia e calda; molto probabilmente era di uno dei fratelli, ma non le importava. I suoi vestiti – anzi, sarebbe stato più corretto dire i vestiti di Claire – erano ormai da buttare in seguito alle varie ferite del giorno precedente.
Aveva i piedi scalzi, e questi, a contatto con il pavimento gelido, le diedero un brivido che le corse per tutta la schiena, scuotendola per un attimo.
La stanza era quasi del tutto buia, appena uno spiraglio faceva filtrare un poco di luce; in quel raggio vedeva dei minuscoli e solitari granelli di polvere danzare nell'aria, immersi nel silenzio.
Le faceva quasi strano la presenza di una finestra, considerando che in tutte le stanze precedenti in cui era stata di quel posto ne sembravano prive – come se fossero sottoterra, cosa che aveva già ipotizzato da un po'. Evidentemente, però, avevano anche delle stanze allo “scoperto”.
Si avvicinò proprio alla finestra, scostando di poco la tenda; ciò fece entrare più luce nella stanza, rischiarandola: era una semplicissima camera da letto composta da quest'ultimo, un comodino, una scrivania con una sedia e una grande cassettiera di legno. Le suonava strano una camera del genere – così banale e semplice – in quel posto che ricordava più un covo – e lei non si immaginava camere da letto in un covo.
Fuori dalla finestra, New York era viva come sempre: non sapeva che ore fossero, ma probabilmente delle ore di punta considerando il traffico per strada. Si trovava discretamente in alto, ma non abbastanza da non avere la vista impedita dagli edifici che la circondavano.
Lasciò per un attimo vagare lo sguardo per strada, dove i passanti, simili a formiche, si davano un gran da fare per andare da una parte all'altra; poi si scostò dalla finestra, gli occhi abituati al buio che le stavano lacrimando.
Non sapeva che fare: aveva paura di uscire, non per chissà quale motivo, solo che Claire l'aveva portata lì dentro così nascosta che ora lei stessa, senza sapere perché, aveva paura di essere vista.
Poi, di certo, non le sembrava molto adatto mettersi a vagare per un edificio sconosciuto con solo una maxi felpa che le arrivava più o meno al ginocchio, senza scarpe, pantaloni, o calze.
Si guardò intorno, mordendosi un labbro.
Cosa faceva? Aspettava lì che qualcuno arrivasse?
Si sedette sul letto, decisa ad attendere l'arrivo di qualcuno. Cinque secondi e si alzò.
No, non sarebbe stata lì ad aspettare. Aveva atteso fin troppo in quegli ultimi giorni, rimanendo con le mani in mano tutto il tempo e lasciando che gli altri facessero le cose per lei – e sì, stava male, quello era vero, ma ne aveva abbastanza.
Sarò cauta, pensò. Poi si guardò i piedi: no, non le erano spuntate improvvisamente delle calze o delle scarpe, era sempre con i piedi nudi.
Ecco, quello la frenava un po'. Decise però che non le importava e si avvicinò alla porta, socchiudendola pian piano.
Per un attimo, il fatto che fosse aperta la stupì. Credeva, anche se non sapeva nemmeno lei il perché, che avrebbe trovato la porta chiusa a chiave; il fatto che così non fosse lo interpretò come un invito – o, perlomeno, un non-divieto – ad uscire.
Il corridoio aveva un lucido pavimento bianco e delle sporadiche finestre che facevano entrare fin troppa luce; la sera prima non aveva dato un'attenta occhiata al posto, presa com'era dal far piano e camminare il più velocemente possibile – più che altro, veniva continuamente trascinata da Claire senza la minima pietà per i dolori che la trafiggevano.
Si chiuse delicatamente la porta dietro, attenta a non fare rumore, e si inoltrò nel corridoio in cui vigeva uno strano silenzio che aveva paura di rompere.
Era prevalentemente spoglio se non per alcuni quadri appesi qua e là, rappresentanti principalmente nature morte e paesaggi; c'erano poi diverse porte uguali proprio a quella da cui era uscita lei, che le fecero presumere altre stanze simili a quella. Ipotizzò che quel piano fosse, come dire, riservato a dei pernottamenti saltuari di coloro che lavoravano in quell'edificio – lavoravano, o qualsiasi altra cosa facessero.
Arrivò alla fine del corridoio e si fermò di fronte all'ascensore. No, non era il caso di prenderlo: sarebbe stato più semplice beccarla e non avrebbe potuto nascondersi da nessuna parte; decise di fare le scale proprio come aveva fatto il giorno prima con Claire.
Quanti piani ho fatto ieri?, pensò.
Non ricordava, ma di sicuro parecchi. Era arrivata a quel piano senza il minimo fiato.
Beh, o scendo o ritorno in camera, e dato che non voglio ritornare in camera...
Iniziò a scendere le scale, dapprima lentamente, timorosa e cercando di fare più silenzio possibile, poi prese sicurezza e prese velocità; scendere, d'altronde, era molto meno faticoso e i suoi piedi scalzi non facevano chissà quanto rumore – che poi, il giorno prima aveva delle scarpe, chissà dove le aveva portate Claire. Di sicuro aveva buttato pure quelle.
Scese gli innumerevoli scalini per vari minuti, fermandosi saltuariamente ad alcuni pianerottoli da cui si inoltravano vari corridoi. A un certo punto non vide più finestre e ipotizzò di aver già superato il livello col terreno; lo prese come un buon segno, considerando che ricordava l'ufficio di Sargas proprio in quello spazio sottoterra – sempre se fosse
effettivamente sottoterra.
Da quel punto in poi però non sapeva più quando fermarsi; scese per cui un altro paio di rampe di scale e si fermò.
Ora come ora un piano vale l'altro, pensò vaga. Non si ricordava quale fosse quello giusto, ovvio che tutti i piani fossero uguali.
Il fatto che non avesse incontrato nessuno le aveva messo paura: era stata fin troppo fortunata, in quel momento qualcosa le diceva che non poteva sperarci ancora.
Faccio sempre in tempo a correre fino alle scale, considerò. Ma il suo pensiero aveva, in una certa misura, una sfumatura disperata.
Ma, in fondo, era arrivata fin lì. Tornare indietro non le sarebbe servito a niente, tanto valeva andare avanti. Con queste convinzioni in testa – motivi con cui giustificava una scelta prettamente emozionale – avanzò nel corridoio.
C'era un grande silenzio, come in tutto il resto dell'edificio – era quasi inquietante, le veniva da chiedersi se ci fosse davvero qualcuno o fosse disabitato – e questo la consolò: significava che, molto probabilmente, non c'era nessuno. Allo stesso tempo però la preoccupava l'idea che fosse deserto. Alla fine era uscita per cercare Claire o chi per lei.
Ho fatto una stronzata, considerò.
In quel momento si rese conto che sì, non era stata una bella idea: mettersi a vagare in un edificio che non conosceva alla ricerca di persone che non aveva la minima idea di dove fossero – e anche se fossero lì, in quel momento – rischiando di incontrare persone che, da quel che aveva capito, non avrebbero dovuto vederla.
Complimenti Ophelia alla tua enorme capacità di individuare sempre l'idea più stupida, pensò ironica.
Ed eccola, la ciliegina sulla torta.
Una porta che si apriva lentamente e, dopo tanto tempo di silenzio assoluto, le prime voci.
Le si gelò il sangue nelle vene.
Merda.
Ecco, doveva fare qualcosa.
In quei pochi secondi di completa immobilità sentì una voce maschile e una femminile parlare – ovviamente non le riconobbe.
«...nascondendo fin troppo. Ovviamente i master sono bravi a nascondere le cose, ma neanche i loro sottoposti vogliono scucire qualche informazione»
La voce maschile.
«Siamo l'ultima ruota del carro, che ti aspetti? E poi ne abbiamo già parlato: se non vogliono dirci nulla avranno i loro motivi – e poi credo che si aspettino che, in qualche modo, ne siamo già venuti a conoscenza. Delle morti non passano così inosservate»
La voce femminile.
«Sei troppo credulona, Laurel. Dovresti darti una svegliata»
«Pensa per te, idiota»
Ecco, un altro passo e l'avrebbero vista.
Si girò veloce, pronta a correre verso le scale, e avrebbe lanciato un urlo apocalittico se una mano non le si fosse poggiata rapida sulla bocca, impedendole di proferire parola.
Sargas, di fronte a lei, la fulminò con lo sguardo; ma fu solo un attimo, considerando che la trascinò con violenza verso l'ascensore a pochi passi da lì. Quello si aprì istantaneamente tanto da far chiedere a Ophelia quando il ragazzo lo avesse chiamato, ma venne brutalmente spinta dentro e messa in un angolo.
«Signore»
Sargas, che stava per entrare con lei in ascensore, si fermò. Le lanciò un'occhiata gelida, mimando con la bocca una parola.
Zitta.
Si voltò verso le stesse voci che stavano parlando poco prima, che in quel “signore” avevano inserito rispetto, timore e imbarazzo.
«Laurel, Blaze» disse il ragazzo.
Schiacciata sulla parete, Ophelia non poteva vedere i volti degli altri due, ma vedeva chiaramente la figura imponente di Sargas che era posizionato in modo tale da coprire quasi tutta l'entrata e, ovviamente, lei.
«Come sta?»
La voce maschile – Blaze, evidentemente – rivolse la domanda a Sargas in un tono referente che fece quasi ridere Ophelia. Trovava strano il porsi in quella maniera rispettosa verso il ragazzo, considerando anche il tono familiare con cui Claire e gli altri gli rivolgevano.
«A meraviglia» fece gelido il moro.
Ci fu un silenzio che Ophelia percepì come imbarazzato – perlomeno da parte dei due, le sembrava strana anche solo l'idea che Sargas si potesse trovare in qualche modo imbarazzato; non le sembrava proprio il tipo che si lasciasse mettere a disagio da qualcuno, anzi, era più il tipo che si divertiva a farlo con gli altri.
«Noi, ecco...» la donna iniziò a parlare con tono incerto, come che non sapesse cosa dire.
Probabilmente aveva paura che Sargas avesse sentito il discorso di poco prima, o almeno così ipotizzò Ophelia; da quel che aveva capito stavano protestando sui loro master – i loro capi, come Sargas? – ed essere colti in flagrante in quel modo non era esattamente l'ideale.
Fu però proprio Sargas a togliere i due dall'impiccio, ignorando totalmente il discorso che stavano facendo – forse non li aveva sentiti, ma Ophelia dubitava fosse così: se si trovava dietro di lei, evidentemente l'aveva notata da abbastanza tempo per ascoltare le stesse parole che aveva sentito lei.
Comunque fosse, il fatto di eliminare la loro attenzione dall'ascensore – o, meglio, da chi si trovava dentro l'ascensore – era più preminente rispetto al resto.
«Voi dovreste fare le scale» disse lapidario Sargas, terminando in qualche modo la frase iniziata da quella Laurel.
Un attimo di silenzio in cui Ophelia percepì quasi un lieve stupore.
«Emh, sì, certo» intervenne a quel punto l'uomo.
Ophelia non li vide, ma sentì i loro passi allontanarsi verso le scale e inoltrarsi in esse.
Sospirò.
Scampata per poco, pensò sollevata.
Quando vide Sargas voltarsi verso di lei, gli occhi che mandavano scintille, rabbrividì.
O forse no.
Il ragazzo si girò e premette un pulsante dell'ascensore a cui però Ophelia non fece caso, troppo impegnata com'era a evitare lo sguardo dell'altro. Un secondo dopo e l'ascensore partì.
Ora mi ammazza, pensò vaga.
«Sei forse uscita di testa?» l'apostrofò il moro con tono gelido. Un vaga sfumatura di rabbia trapelò anche se tentava di nasconderla.
Ophelia chinò il capo, in imbarazzo.
«Nessuno mi ha detto di non uscire dalla stanza» obiettò, prendendo più coraggio e alzando lo sguardo verso l'altro.
Incontrò i suoi occhi blu cupo che sembravano volessero farle del male.
«Credevo fosse abbastanza chiaro dai discorsi di ieri che nessuno dovesse venire a conoscenza della tua presenza qui. O forse sei troppo stupida per capire un concetto così semplice?» le disse sprezzante.
Ophelia sentì l'imbarazzo piombarle addosso, ma allo stesso tempo si infuriò a sentire quelle parole che le erano state rivolte in un modo così duro.
Presa dalla rabbia, lo guardò gelida.
«O forse siete voi che mancate assolutamente di tatto o qualsivoglia sentimento vagamente umano. Dopo giorni in cui mi sballottate da una parte all'altra, trattandomi come una bambola e parlando di me come se io non ci fossi, mi mollate in una stanza senza darmi uno straccio di spiegazione, senza dirmi nemmeno “per favore, Ophelia, rimani qui mentre noi non ci siamo, grazie”. Mi trattate come se io non abbia una testa mia con cui pensare!»
Sargas la guardò senza mutare il suo sguardo gelido. Poi spostò lo sguardo e la squadrò, notando solo in quel momento come fosse vestita. Sotto quegli occhi, Ophelia arrossì di nuovo in imbarazzo.
«Hai ragione» rispose il moro.
Eh?, pensò stupita Ophelia. Ecco, non era la risposta che si aspettava.
«Certo che ho ragione» rispose però, con uno sguardo di sufficienza, di nuovo dimentica dei suoi vestiti – o della loro mancanza, in una certa misura.
Come disse questa frase l'ascensore si fermò e si aprì su un corridoio uguale al precedente – ecco perché quel posto era un labirinto, era tutto così dannatamente uguale – sempre senza finestre.
«Vieni» disse Sargas, anticipandola e facendole strada nel corridoio.
Ophelia lo seguì in silenzio. Avrebbe voluto fare l'offesa e non seguirlo, ma sarebbe stato un comportamento infantile e per nulla utile.
Il ragazzo la portò all'interno di una stanza che si rivelò essere l'ufficio del giorno prima.
Tutto era perfettamente lindo e in ordine; Sargas, o chi per lui, doveva aver dato una sistemata per eliminare il sangue che aveva sparso per la stanza il giorno prima.
«Siediti pure, avviserò Claire che sei qui» le disse poi.
Ophelia, sempre in silenzio, si sedette sul medesimo divanetto del giorno prima.
Si guardò intorno, percependo quel silenzio con un vago fastidio – o meglio, imbarazzo. Non si trovava a suo agio in una stanza da sola con lui, non per chissà quale motivo, solo che non si trovava così in confidenza da poter assaporare un tranquillo silenzio tra di loro. Non lo guardava, ma lo sentiva scrivere qualcosa su un foglio.
«Hai ragione»
Sargas parlò all'improvviso, quasi spaventandola, ripetendo le stesse parole che aveva detto poco prima in ascensore. Lei si limitò a guardarlo; era seduto nella poltrona di fronte alla scrivania, non stava più scrivendo. Si era lasciato andare sullo schienale e aveva un'aria stanca; in quel momento le sembrò che fosse più vecchio di quello che il suo aspetto lasciava credere.
«Non ti abbiamo detto nulla, non ti ho detto nulla, proprio perché, come ti avevo già spiegato, siamo noi i primi a essere confusi su tutta questa storia» iniziò «Stiamo indagando e siamo ancora confusi, preferisco spiegarti le cose per bene piuttosto che dirti le cose a piccoli pezzi, magari confondendoti anche di più. Ma capisco anche che tutto questo silenzio da parte nostra ti dia fastidio – lo darebbe anche a me, in effetti. Cercherò di spiegarti il meglio che posso, anche se ho alcune domande da farti» disse Sargas.
Ophelia lo guardò.
«Non voglio fare la ragazzina, l'infantile, pestando i piedi perché voglio sapere le cose per un capriccio personale. Solo che credo mi siano dovute delle spiegazioni, dato che sono stata tirata dentro in questa storia senza la mia volontà» spiegò a sua volta.
«Che genere di domande?» aggiunse poi.
Sargas la guardò e Ophelia, incontrando i suoi occhi blu, considerò che facevano meno paura senza quel bianco accecante.
«Sul tuo passato»
La ragazza si immobilizzò.
«Perché?» fece gelida.
Odiava parlare del suo passato.
Non c'era nulla di interessante su di esso, e neanche di allegro. Non aveva avuto un'infanzia felice, l'orfanotrofio non era un posto che offriva il necessario amore di cui aveva bisogno un bambino. Non era mai riuscita a stringere dei veri legami in quel posto – come da nessun'altra parte, d'altronde – e aver passato gran parte della vita lì le ricordava in maniera dolorosa che era stata abbandonata da coloro che avrebbero dovuto prendersi cura di lei, amarla.
«Crediamo che chi ti sta cercando sappia qualcosa su di te che noi non sappiamo, qualcosa di sicuro relativo al tuo passato. Vorremmo avere delle risposte e possiamo averle solo da te» disse Sargas.
Ma Ophelia sapeva che il ragazzo aveva notato il suo cambiamento di tono; la guardava non più con indifferenza, ma neanche con preoccupazione. Era più uno sguardo confuso.
«Se è proprio necessario, risponderò a queste domande. In fondo, rientra anche nei miei interessi» concluse la bionda.
Sargas annuì semplicemente, senza prolungare ulteriormente l'argomento.
«Comunque sia, non credo che ora sia il momento adatto per queste domande. Forse è il caso che tu ti vesta» le disse, lanciandole uno sguardo con un vago sorrisetto.
Ophelia annuì.
Già, si stava dimenticando la sua mise.
Si tirò giù la felpa, cercando di coprirsi meglio – non che non fosse abbastanza lunga, ma era un vano tentativo per sentirsi più al sicuro.
«Aspetta qui finché non arriva Claire, poi ti porterà in stanza e magari andrai a mangiare qualcosa. È da ieri che sei a stomaco vuoto, no?»
Ophelia si morse un labbro. In effetti aveva una fame tremenda, ma per tutto il tempo aveva cercato di non pensarci – stava per essere beccata, le sue priorità erano all'improvviso cambiate.
«Va bene» acconsentì.
Mentre il silenzio riprendeva a regnare in quella stanza, Ophelia osservò Sargas alle prese con fogli vari che spostava da una parte all'altra dopo una vaga occhiata. In quel momento, le tornò in mente una cosa.
«Senti...» lo richiamò. Il moro alzò lo sguardo verso di lei, in attesa.
«Poco fa, prima che arrivassi tu – cioè, non so se tu ci fossi o meno, eri dietro di me e quindi non ti potevo vedere. Comunque sia, i due tizi che mi stavano per vedere, ho sentito che stavano parlando di alcuni morti. Che succede?» domandò.
Non era una cosa fondamentale per la sua esistenza, lo sapeva, ma l'argomento l'aveva incuriosita – e anch piuttosto preoccupata – e dato che era lì ed era già coinvolta in tutto quel mondo, tanto valeva sapere le cose fino in fondo, no?
«Non credo che questo sia qualcosa che ti riguardi. Ergo, puoi sopravvivere anche senza saperlo» fece Sargas, un sorriso sarcasticamente mellifluo che gli spuntava in volto.
Ophelia alzò gli occhi al cielo. Sapeva già quale sarebbe stata la risposta, eppure ci aveva provato comunque; e non era neanche intenzionata a lasciar perdere la cosa in quel modo.
«Beh, ormai sono già invischiata in tutto questo. Perché ora non posso sapere ciò che vi riguarda?» insistette.
Sargas, che aveva riportato gli occhi sui suoi documenti, rialzò lo sguardo un poco irritato.
«Non ti piace proprio farti gli affari tuoi, eh?» domandò.
«Allo stesso modo in cui a te piace avere dei segreti, suppongo» rispose a tono Ophelia.
Ora che stava meglio, pareva aver riacquisito il suo solito temperamento testardo e combattivo.
«E se te lo dicessi, cosa mi daresti in cambio?»
La domanda colse Ophelia impreparata. Sargas la guardava con uno strano sorriso sul volto, uno che non gli aveva mai visto; era colmo di insinuazioni e le venne da arrossire, ma si costrinse a rimanere indifferente.
«Uno schiaffo credo che potrebbe essere sufficiente, ma se insisti potrei dartene anche due» rispose.
Sargas scoppiò a ridere e Ophelia rimase più che spiazzata.
Vederlo così rilassato, per un momento, le fece chiedere perché non si sciogliesse di più anche negli altri momenti.
La sua risata ha un bel suono, si ritrovò a pensare, e le venne spontaneo sorridere a sua volta.
Credevo non fossi in grado di rispondermi una cosa del genere. Credevo di farti paura» disse Sargas all'improvviso.
Ophelia scrollò le spalle.
«Beh, quando sei serio e gelido me ne fai, lo devo ammettere. Ma ora mi sembri tranquillo, non mi spaventi» rispose semplicemente.
Sargas la fissò senza dire nulla, solo con un vago sorriso che ancora gli aleggiava sul volto.
«Comunque non credere che mi sia dimenticata della domanda che ti ho fatto. Allora, qual è la risposta?»
Sargas alzò gli occhi al cielo – un gesto che, insieme alla risata del momento prima, lo rese molto più umano agli occhi della bionda.
«Non so neanche perché te lo sto dicendo, o forse lo faccio solo perché credo sia il momento di darti qualche spiegazione» iniziò il moro, ma poi riprese a parlare «Ci sono state delle uccisioni tra le nostre file. E quando dico nostre, non intendo solo io e il mio gruppo. Non credo che tu lo sappia, ma io in pratica solo il master di questa gens, il capo in poche parole-»
«L'avevo immaginato» lo interruppe con tono ironico Ophelia. Lui la guardò infastidito dall'essere interrotto, ma riprese poi a parlare.
«Non sono l'unico master, ce ne sono altri due oltre a me. E questo, solo nella Fazione Bianca» spiegò Sargas.
Ophelia sentì come un campanello nella sua testa: la curiosità che emergeva in lei.
«Fazione Bianca?» ripeté.
Sargas la guardò con un'aria dubbiosa – forse non sapeva se fosse giusto dirglielo o meno, e Ophelia tacque, spaventata dal dire qualcosa che avrebbe potuto far cambiare idea al ragazzo.
«Non ci siamo solo noi» disse all'improvviso il moro. Evidentemente aveva deciso di spiegare per bene la situazione «C'è anche la Fazione Nera, che è diversa da noi per qualcosa che immagino tu possa facilmente intuire»
«Gli occhi» rispose all'implicita domanda. Sargas annuì.
«Esatto. Non sono dei nostri nemici, ma neanche propriamente degli amici. Chiamiamoli rivali, ecco. Ognuno si occupa delle proprie cose in privato, ci sono degli scambi di convenevoli ogni tanto, ma niente di che. Viviamo due vite separate» spiegò. La bionda annuì.
La spiegazione la prendeva così tanto che si dimenticò anche della fame che la stava tormentando; oltretutto, finalmente qualcuno si degnava di darle uno straccio di spiegazione dato che fino a quel momento si sentiva una cieca lasciata allo sbando in un'autostrada.
«Ci sono stati dei morti, ti dicevo. Non solo nella Fazione Bianca, ma anche in quella Nera»
«Quindi loro sono automaticamente esclusi dalla lista dei colpevoli» si intromise Ophelia.
L'altro annuì.
«Sì. Certo, sarebbe stato strano che fossero stati loro ad assassinare alcuni dei nostri – questo avrebbe significato guerra, sai, e non conviene a noi quanto a loro – però c'era sempre la minima possibilità, quindi abbiamo indagato e pare che loro siano nella nostra stessa situazione»
Ophelia annuì, ma poi si fece pensierosa.
«E allora chi potrebbe essere stato?»
Sargas si lasciò andare nella sua poltrona.
«C'è solo una possibilità che pare essere la più concreta, anche se allo stesso tempo è parecchio strana»
La bionda lo guardò curiosa.
«I Deviati»
Le venne automatico trattenere il respiro a quella parola.
I Deviati, in quel momento, erano per lei coloro che avevano distrutto la sua vita serena trascinandola in quel mondo che avrebbe volentieri continuato ad ignorare.
Pensò a Mathias, già nel dimenticatoio, e a come fosse mostruoso dietro la maschera da semplice ragazzo.
E pensare che ci ho anche fatto sesso, rabbrividì a quel pensiero e le venne un brivido di disgusto.
«Comunque sia non capisco una cosa: perché loro non potrebbero essere i colpevoli?»
La domanda le sorse quasi inaspettata.
«Perché sono deboli. Ci sono sempre stati sin da quando esistiamo anche noi. Ci sono state volte in cui hanno tentato di prendere il potere su di noi, ma siamo sempre stati più forti di loro e, proprio per questo, nessuno si è mai preso la briga di sterminarli completamente. Abbiamo sempre lasciato che esistessero, che vagassero per la terra senza un preciso scopo. Ora invece pare abbiano ucciso vari di noi, e questo è strano: non potrebbero avere la forza necessaria, o almeno questo era quello che si pensava fino a poco tempo fa» concluse Sargas.
Ophelia tacque pensierosa, poi però le venne in mente una cosa.
«Non per offendere i vostri valorosi guerrieri» iniziò, con una vaga aria sarcastica che le fece guadagnare un'occhiataccia dal moro «Però, ecco, i due che hanno tentato di rapirmi non mi sembravano così debolucci eh. Anche l'altro ragazzo – Beal, mi pare – con due di loro è stato costretto a scappare. O magari ricordo male io, però mi sembra proprio così» fece convinta.
Sargas la guardò sconvolto.
«Sono un idiota» sibilò.
Ophelia lo guardò confusa: che gli prendeva all'improvviso? Cosa aveva detto di così sconvolgente?
«Su questo potremmo discuterne a lungo, ma perché dici così?» chiese, corrugando le sopracciglia e creando una sottile ruga sulla fronte.
«I Deviati che hanno cercato di rapirti...» iniziò lui, gli occhi illuminati.
«Sì, quindi?»
«Loro non erano normali. Erano più potenti dei soliti Deviati. Dei tipi come loro avrebbero potuto uccidere alcuni dei nostri, ciò significa che le due cose sono collegate» spiegò rapido Sargas.
Mentre diceva quelle parole, Ophelia lo osservò prendere un biglietto candido dal disordine di quella scrivania e scrivergli qualcosa sopra in maniera frettolosa.
Lo osservava dubbiosa: in un momento del genere non le sembrava nemmeno lui.
«Quindi coloro che vogliono qualcosa da me potrebbero essere legati a coloro che stanno uccidendo alcuni come voi?» sintetizzò.
Sargas finì di scrivere sul bigliettino e abbandonò la penna sul tavolo.
«Esatto» disse solo.
Ophelia lo fissò mentre lo vedeva avvicinarsi allo specchio appeso alla parete, perfettamente pulito e con una cornice che sembrava fatta d'argento; guardò il ragazzo che sfiorava delicato la superficie riflettente e sobbalzò quando vide questa diventare liquida.
Il ragazzo lasciò andare il bigliettino nello specchio e questo lo assorbì in silenzio, per poi ritornare solido come prima.
Mi chiedo perché io mi stupisca ancora di cose del genere, pensò ironica.
«Che cosa hai appena fatto?» domandò poi.
Sargas sorrise.
«Ho mandato un messaggio agli altri master della mia Fazione. Se è davvero come penso e le cose sono legate – cosa che credo – dovrai andare a cambiarti: ti porterò dagli altri master»
Ophelia sospirò.
Forse avrei preferito continuare a rimanere nella mia ignoranza.

  
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