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Autore: SherryVernet    18/03/2017    3 recensioni
Pochi oggetti sono letterari quanto la maschera. Sono ovunque, le maschere; hanno molti ruoli, molti significati, altrettanti usi. Anche in Saint Seiya ce ne sono tante.
Qualche volta le maschere, forse, vogliono confessarsi; talvolta, bisogna interrogarle.
I: La fiera della vanità (Shion)
II: Lettera da una sconosciuta - o Sul bianco (Marin)
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Aries Shion, Eagle Marin, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La Rosa dei Venti'
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Confessioni di una maschera

 
- Why are you wearing a mask? Were you burned by acid or something like that?
- Oh, no, it's just they're terribly comfortable, I think everyone will be wearing them in the future.
- William Goldman, The Princess Bride (film, 1987) -

 
 

 

I
La fiera della vanità
(Shion)

 
 

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme. Il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta ormai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Ormai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.
- Giacomo Leopardi, "A se stesso": Canto XXVIII -

 
 



Col senno di poi, ti saresti detto che era stata folle vanità.
Eri vecchio. Eri tanto stanco. Eri troppo solo - e lo eri stato troppo a lungo. Dovevi sopravvivere e aspettare. Avresti voluto essere morto, duecent'anni prima o un qualunque altro giorno.
Il senno di poi è sempre assai più saggio di quanto non ci rendano saggi i nostri anni. E tu di anni ne avevi già vissuti tanti: troppi, per aver voglia di contarli; troppi, per ricordare ancora che si può sbagliare.  Contare gli anni, non si poté evitare.  Erano tutti giovani, quelli che avevi dovuto salutare, che non avevi potuto neanche seppellire; Dohko ebbe la grazia di vivere a rilento, quasi a metà, come congelato; a te era toccato d'invecchiare.
Quando si aspetta, non si può non contare; contare gli anni fu quasi ricordare.
Il senno di poi è un amico distratto, un po' pignolo e sempre in ritardo; importa poco che le sue intenzioni siano buone: puntando il dito contro le tue azioni, immancabilmente viene a rivelarti gli intenti segreti, i taciti moventi che tu - ostinatamente - avevi tentato d'ignorare.
Il senno di poi vince con poco: arriva alla fine, quando il gioco è fatto; incassa e prende il banco. Ma tu eri al tavolo già da molto prima: giocavi una partita contro il tempo che era troppo lento e ti si attaccava addosso; giocavi contro il mondo e contro il buon senso; giocavi contro te stesso innanzitutto. Non c'era nessun altro che ti potesse aiutare; non c'era una spalla, un occhio lesto, a suggerire; né dita scaltre che ti potessero passare un paio d'assi o di carte a colore. Non c'era neanche Libra a bilanciarti: Dohko non era lì per contraddirti, per farti ragionare. C'eri soltanto tu, guardiano d'una tomba saccheggiata, seduto a una giocata un po' troppo azzardata, con un mazzo incompleto. Ma se la posta è alta, si fa quel che si può per non perdere tutto - anche barare, raccontarsi scuse. Dopo, il senno di poi le smonterà comunque, amico senza tatto.
La voce nota, familiare, delle armature vuote - rinchiuse come te in una gabbia d'oro - si limitò a tacere; col senno di poi, avresti dovuto provare ad ascoltare.
 
Vestivi ormai da secoli i panni d'un morto, ed anche il morto li aveva ereditati: non era tua la veste; non erano tue la croce e le collane; non era tuo quell'elmo che ti schiacciava il capo, ti stancava il collo, t'adombrava il viso - quell'elmo che era come una corona, il marchio d'un ruolo, una funzione -; non era tuo quel trono che spezzava la schiena a doverci sedere.
Allora ti eri detto che era per assumere un'aria più sacrale; per dare un altro vessillo da seguire al tuo Santuario vuoto, da ricostruire. In fondo, era sempre stato un segno sacerdotale. Già ti sentivi ad una mascherata; tanto valeva renderla letterale.
Come spesso succede, la verità era un'altra - come spesso succede, non te la volevi confessare.
Vestivi da secoli i panni dei morti, quei panni informi che ti eri ormai cucito addosso; portavi l'elmo, la croce, le collane, simboli d'un potere che inevitabilmente opprime; sedevi su un trono che non sarebbe stato mai davvero di nessuno - perché solo un Nessuno poteva sedere su un trono d'assoluta abnegazione.
Volesti, infine, qualcosa di tuo, che ti appartenesse, fra i lasciti scartati dagli spettri.
A stento ti restava quello che fu il tuo nome - dimezzato: ad Aries, tuo malgrado, avevi rinunciato. Qualcuno, all'inizio, osò chiamarti Shion, almeno fra quei pochi che potessero chiamarti: qualche buonuomo, qualche ragazzina di Rodorio, che salivano alle Case per raccoglierne i pezzi, per nutrirti; quegli altri che, di rado ma a intervalli regolari, venivano ad assicurarsi che fossi ancora lì, ancora in piedi, che fossi ancora vivo - quelli che erano sempre uguali, sempre giovani e forti; e che, a un certo punto ormai indefinito, incominciasti a odiare. Eppure lentamente, col volgere degli anni che fecero di te un uomo adulto - dopo, un vecchio - e del Santuario un luogo un po' meno deserto, per quasi tutti fosti semplicemente Sommo - ma non per quelli: per loro rimanevi un ragazzino. Quando arrivarono i bimbi promessi, ridivenisti solamente Shion, però per troppo poco: crescendo iniziarono a chiamarti Sommo Shion,  Shion il Sommo. Soltanto Dohko, uguale nei decenni - non importava quanti -, uguale come sono solo gli assenti, ti chiamò sempre come t'aveva chiamato; ti chiamò in silenzio, ogni notte, fra le stelle; ti chiamò cose cui il più delle volte non volevi pensare e che non volevi ricordare, perché oramai sapevi a stento che volessero dire. Poi un giorno ricevesti un altro piccolino, un figlio della tua stessa stirpe, delle tue stesse stelle; desiderasti che ti chiamasse padre - ti chiamò maestro.
Non ti restava neanche la tua faccia: il tempo s'era preso pure quella in un colpo di mano, con l'oro delle tue antiche vestigia, l'oro dei tuoi capelli, l'oro che Dohko aveva sulla pelle, l'oro svalutato della tua giovinezza. Fu un colpo basso ed un colpo grosso. Della tua faccia, restavano le rughe - scavate, profonde, come cicatrici. Neppure l'ombra dell'elmo - l'elmo pesante, l'elmo dei morti, l'elmo che ti privò di ogni tua fattezza -  allora t'impediva di vederle.
Vestivi ormai da secoli i panni d'un morto; eri vissuto troppo a lungo, e avevi vissuto così poco...
Fu folle vanità, scellerato vezzo. Tu ti dicesti che era tuo dovere, un tuo diritto. Ma con la verità del senno di poi, non volevi vedere chi era diventato il tuo riflesso.
 
La verità è che non volevi essere visto. Non volevi che - con la spossatezza, gli acciacchi, il freddo nelle ossa - anche il tuo viso ti ricordasse sempre quanto fossi vecchio. Se mai l'avessi rincontrato, non volevi leggere nei suoi occhi la pietà e il disgusto. Non volevi che Lei, quando fosse tornata, si trovasse di fronte all'innegabile evidenza di tutto quello che t'aveva tolto, della tua stanchezza, del tuo risentimento commisto al rimorso. Non volevi che fosse chiaro a tutti quanto tu fossi solo e abbandonato - neanche a te stesso. Non volevi in bocca il gusto pungente della tua amarezza, dei tuoi denti marci.
Volevi regalarti - vanità! -, per un momento appena, la frivola illusione d'essere ancora bello, che la tua carne vibrasse fremente, che avesse sempre senso il desiderio. Volevi che le fanciulle di Rodorio venissero a cercarti, che ti scrutassero sotto le ciglia lunghe, che ardissero toccarti con le dita fini, affusolate. Volevi dimenticare il sogno sfocato delle sue mani ruvide e squadrate. Volevi almeno una parte di te che non facesse ribrezzo.
Volevi il fascino segreto, conturbante, sul volto immoto delle Sacerdotesse - ed il ricordo selvaggio di Yuzuriha, che pur tanto di rado si degnò di coprirsi. Volevi ritrovare quella sfacciatezza.
Volevi essere qualcuno che non eri stato. Volevi essere di nuovo chi non eri più.
Ma più di tutto, volevi essere morto - morto, forte, giovane, come tutti loro.
Sotto una maschera, ci si può negare.
Sotto la maschera, avesti un angolino per sognare - cose perdute prima di diventare. Sotto la maschera, avesti l'illusione che ti saresti, un giorno, potuto confessare - e quella è un'illusione in cui è facile agire.
Sotto la maschera, potevi pregustare l'essere cadavere.
Nel far della tua maschera una maschera funebre, Saga di Gemini t'usò cortesia, ti fece un favore. Che cosa fu per lui, poi, quella stessa maschera, neanche lo volevi immaginare; col senno di poi, lo potevi capire.
 
Infine, l'altra sera, hai messo in scena l'estrema mascherata. Della finzione ti saresti quasi accontentato: per una notte tornato ragazzo, ti sei sentito forte come già eri stato, con quel vigore che avevi scordato; fianco a fianco con lui, di nuovo hai combattuto; con tanta leggiadria ti sei dileguato - per una volta, tu il primo ad andare. Per una volta, t'è stato concesso di non aspettare in una prigione che esala già il tanfo della putrefazione.
Per dodici ore, avete ritrovato i vostri diciott'anni. Ma dodici ore non sono abbastanza per parlare, per vomitare quello che c'è da dire: è un tempo a stento sufficiente per morire - e i diciott'anni non lasciano pensare, non hanno niente da dover confessare.
 
Adesso non è notte, è di nuovo mattina. Porti il rigoglio di quei diciott'anni, e la stanchezza di più di duecento. Raggiungere le stanze che per due secoli avevi infestato, t'ha tolto il fiato, ti ha lasciato esausto. A camminare senza disperazione, senza l'urgenza di salvare il mondo, anche Dohko non è più abituato. Forse il peso dell'anima è quanto basta per sfiancare il corpo, per renderne vana la freschezza.
Siete risorti entrambi, e il gelo dell'Ade resta addosso: che tutt'e due calziate le vesti che furono d'un morto, non è inappropriato - e non c'è nient'altro che possiate indossare. Saga, evidentemente, le aveva trasformate nei suoi panni: ti stanno troppo corte; sul collo e sul petto, sono troppo grandi. Prima, non erano mai state così comode, così confortanti. Dohko pare sprofondarci, ci sembra annegare - ma Dohko, per te, è stato sempre vivo, giovane, vibrante, come lo sono soltanto i fantasmi.
Ed ora Dohko fissa, con i suoi occhi grandi e un poco oblunghi, la maschera deposta ai piedi del letto - la maschera che era stata tua e fu di Saga. Ti rendi conto che non l'aveva vista. Ti rendi conto anche che neppure lei ti era appartenuta; che ad essere tua fu solo la vanità di reclamarla, di prendere possesso d'una faccia liscia, che non cambia.
Il tempo, quanto l'anima, è opprimente; lo è anche di più un lungo silenzio. La responsabilità, lei pesa molto meno. Hai voglia di esser più leggero; forse di sgravarti la coscienza,  prendendoti le colpe che ti spettano nell'intera faccenda, riconoscendo la tua frivola arroganza.
Col senno di poi, sai che avresti dovuto confessarti prima, parlargli sinceramente fra le stelle, ammettere quanto ti mancava - lui, i tempi andati, i compagni perduti, la vicinanza oscena dei metalli. Col senno di poi, saresti dovuto andare a visitarlo, senza paura di non ritornare; e, dopo, senza il terrore di farti vedere, di mostrargli quanto fosse orribile invecchiare e la bruttezza del non poter morire.
Il senno di poi non perde occasione, ma non ha mai il momento. Tu non hai vent'anni e ne hai avuti duecento; adesso hai anche un vecchio amico e un altro po' di tempo.
Prendi la maschera: è fredda, estranea, sotto le tue dita. La tieni lì, non la porti al viso; per un attimo, pensi di spezzarla. Sospiri, tiri il fiato, come una rincorsa.
"Dohko, amico mio..."
 

 
 
 
 
 
Note dell'autrice:
Ormai sono consapevole che il mio rovinoso modo di combattere contro lo stress e contro le mille cose da fare, è fondamentalmente non fare quello che devo e mettermi a fare altro. È un modo piuttosto stupido e controproducente. Ma erano un paio di settimane che l'idea di scrivere qualcosa del genere mi ronzava in testa; dopo un po' il ronzio diventa molesto, una distrazione.
Non sono una scribacchina per inclinazione, ma ultimamente mi sono resa conto di star adagiandomi su un tono, su un certo stile che inizia a sembrarmi corroborato, familiare - o, se vogliamo, che inizia a suonare come la mia voce. Avevo bisogno di cambiare un po', per non assestarmi in una confort zone.  Questo dunque sarà un esperimento, perché ho voglia di scrivere qualcosa che normalmente non scriverei mai - per genere, per personaggi, per stile di scrittura.
Pertanto, vi beccate questa prima one-shot su Shion (che annuso poco e che mi annusa anche di meno), alla seconda persona - che detesto. Seguiranno altri esercizi, piccoli test di laboratorio su varie soluzioni  narrative e/o studi su altre figure che mi sfuggono un po'. La prossima in scaletta è Marin. Ed ho anche in programma di fare una scappatina in Lost Canvas - tanto perché appunto qui si rifuggono le cose confortevoli.
 
Inizio con le migliori intenzioni di mantenermi su un arancione moderato - ma ormai sappiamo tutti dove vadano a finire le mie buone intenzioni...
 
Ovviamente, ho rubato il titolo della raccolta a Yukio Mishima e quello di questo capitolo a William Makepeace Thackeray.
 
Ho l'impressione di star dimenticando qualcosa, ma non ricordo cosa... Il rimbambimento senile ha colpito anche me, tanto per rimanere a tema.
 

   
 
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