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Autore: _Lady di inchiostro_    28/03/2017    1 recensioni
Secondo quanto si dice su Sibun, chi è affetto dalla Sindrome dell’Astronauta è convinto di poter percepire il dolore di un’altra persona anche se questa è distante anni luce. Di avere le stesse malattie, di ferirsi dove si ferisce l’altro, e di poterci comunicare attraverso i sogni. Questa persona è sempre un abitante del Pianeta Terra.
~
Oikawa Tooru è un promettente pilota del pianeta Sibun, nel Sistema Trappist-1.
Da un paio di giorni, però, sogna di trovarsi in un posto bellissimo e con un’altra persona, Iwaizumi Hajime, un abitante del Pianeta Terra. Ma su Sibun, si dice che la Terra sia ostile e che la vita sia impossibile. Chiunque dica il contrario è considerato folle.
Cosa avrà intenzione di fare Oikawa?
E soprattutto, siamo proprio sicuri che sulla Terra si possa ancora vivere?
~
[Science Fic] [Soulmate AU!] [Un po’ di Interstellar, un po’ di Your Name] [Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it]
Genere: Angst, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A quaranta anni luce di distanza'
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Iniziativa: Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it 
Numero Parole: 9163 
Prompt/Traccia: “Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non ti dovessi più svegliare? Come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?” (Matrix)




 
Capitolo primo
~
Atto primo






Era la prima volta che gli capitava di sognare una cosa del genere.
Si trovava sopra la vetta di una montagna, e un paesaggio bellissimo si estendeva davanti ai suoi occhi, le acque di quello che sembrava un mare che splendevano sotto i raggi del sole. Tutto aveva le sfumature brillanti del verde degli alberi e del rosa degli ultimi raggi che stavano per scomparire in lontananza.
Ammirò la scena, estasiato, lasciandosi sfuggire un verso di stupore.
Eppure, non era il solo che stava ammirando quello spettacolo. Si rese conto di essere in compagnia quando si guardò intorno, notando che dietro di lui c’era un enorme cratere, e se ci fosse caduto dentro sarebbe stato risucchiato per sempre dall’oscurità.
Un ragazzo della sua età si trovava a pochi metri da lui, ed era totalmente perso ad osservare ogni minimo particolare per accorgersi della sua presenza.
Si avvicinò, inclinando la testa, e solo allora quello sobbalzò, aggrottando subito le sopracciglia.
«Chi sei tu?» soffiò.
«Sai… potrei farti la stessa domanda.»



*


Sibun, a quaranta anni luce dal Sistema Solare



«Shimizu-san!» Una piccola ragazza, i capelli biondi e corti raccolti con una pinza alla bell’e meglio, si stava sbracciando per farsi notare dall’amica, che stava correndo all’impazzata verso di lei.
Si fermò pochi minuti dopo, respirando a tentoni e prendendo profonde boccate d’aria. «Scusate il ritardo!» disse, quando riuscì a parlare, cacciando in gola fiotti di saliva.
Tutti, all’interno della scuderia, le sorrisero, per poi tornare a guardare la scena sugli schermi. Il Team Principal, Keishin Ukai, si limitò solo a guardarla di traverso, teso più che mai; solo Takeda-sensei, il direttore tecnico, le sorrise e la salutò con un cenno della mano.
«Come sta andando?» chiese, serissima.
«Kageyama e Hinata si stanno contendendo il terzo posto; Daichi e Asahi sono rimasti indietro, e Tanaka è uscito fuori pista» rispose Yachi, spostando lo sguardo sul pilota in questione. Stava mormorando qualcosa tra i denti, probabilmente qualche insulto ai restanti piloti rimasti in gara.
Il fatto che non avesse tentato di saltarle addosso come era sua solito voleva dire che era fin troppo concentrato sulla gara per pensare a lei, al momento. Si avvicinò accanto a lui, mettendogli poi una mano sulla spalla. Quest’ultimo divenne rigido, le spalle che quasi tremarono. Conosceva fin troppo bene quel profumo…
«Non è colpa tua» gli disse.
Bastò quello perché Tanaka scoppiasse a piangere dalla gioia, asciugandosi le lacrime col braccio. «SHIMIZU-SAN!» Andava blaterando, seguito a ruota da Nishinoya, uno dei collaudatori, che non poteva fare a meno di invidiare l’amico.
«Vedete di tardavi una calmata, voi due!» urlò Ukai, la sigaretta ancora tra le labbra, seppure fosse spenta da un pezzo.
Un rombo a loro familiare li fece riscuotere, e tutti si voltarono quasi in contemporanea verso la pista: il tetto di plastica sintetica la ricopriva per intero, ma era comunque possibile vedere quello che succedeva dall’interno, la gente sugli spalti che si era alzata in piedi, incitando i concorrenti. Una navicella di colore bianco e azzurro stava per superare una di colore bianco e viola.
«Oikawa vuole soffiare il primo posto ad Ushijima…» mormorò Sugawara, il capo della squadra di ingegneri che gestiva la manutenzione delle navicelle.
Diventare un pilota da corse, su Sibun, aveva una notevole importanza: era l’evento sportivo che la popolazione aspettava con trepidazione, e ogni anno le varie scuderie eleggevano i loro piloti migliori, nel tentativo di superare i due gironi di qualificazione e arrivare in finale, dove a gareggiare sarebbero stati i migliori tre. Ed era per quella ragione che l’intera scuderia Karasuno era tesissima, perché ne valeva della loro fama oramai perduta da anni, una posizione in finale contava più di qualsiasi altra cosa.
Alcuni spostarono lo sguardo sulle telecamere, da cui era possibile ammirare ogni angolazione della pista, le due navicelle delle scuderie avversarie che quasi si sfioravano, mentre le loro, arancioni e nere, erano un po’ più indietro. Fecero tutti un balzo indietro, credendo che la navicella azzurra stesse per colpire quella viola, ma non fu così; semplicemente, tornò a ricoprire la posizione di poco prima.
Mancava poco alla fine dell’ultimo giro.
«Avanti ragazzi…» mormorò Takeda.
Le loro navicelle, sebbene fossero compagne, sembrava che stessero lottando tra di loro per l’ultimo posto rimasto. Alla fine, a tagliare il traguardo, fu quella contrassegnata dal numero nove, le prime due che erano già arrivate a destinazione.
All’interno della scuderia si levarono delle urla di gioia. «Ce l’abbiamo fatta!»





I piloti erano da poco rientrati nelle rispettive scuderie, la stampa e i fan che quasi li soffocavano.
«Non avevamo dubbi che sarebbe stato Ushijima Wakatoshi a tagliare il traguardo per primo!» disse una delle tante intervistatrice poste là vicino, la telecamera ovale che fluttuava davanti a lei. «Che sia la sua occasione per diventare campione per il terzo anno di fila?»
«Kageyama Tobio ci ha stupito, invece!» disse un altro presentatore, anche lui con la sua personalissima telecamera, inquadrando il pilota appena menzionato, che non sembrava comunque entusiasta della sua posizione, mentre i suoi compagni lo abbracciavano.
L’altro pilota della squadra Karasuno, Hinata Shoyo, invece, uscì dalla sua navicella proprio in quel momento, furioso più che mai, e le telecamere si premurarono di riprendere la scena per bene.
«Ma la vera star della pista è sempre lui…» continuò la presentatrice di prima, e il piccolo robot mise a fuoco sulla figura che stava uscendo dalla navicella bianca e azzurra, mentre si toglieva il casco e scuoteva i suoi capelli castani, facendo andare in visibilio milioni di fan.
Oikawa Tooru scese dalla sua amata navicella con un balzo, raggiugendo i suoi compagni e il suo Team Principal, che gli fecero i complimenti con vigorose pacche sulle spalle. 
«Quando hai preso la navicella di Wakatoshi, abbiamo temuto il peggio!» esclamò Hanamaki, il capo ingegnere, afferrandolo per il collo e cominciando strofinare le nocche sulla nuca del giovane pilota.
Oikawa riuscì a liberarsi dalla presa poco dopo, ridendo. Poi, i suoi si spostarono sui suoi avversari, determinatissimo. «Sono riuscito a battere il mio allievo… Manca solo da superare Ushijima!»
Sorrise, scoprendo i denti, l’intera scuderia della Shitorizawa e della Karasuno che stavano squadrando lui e i suoi compagni, i membri dell’Aoba Johsai, e parevano tre leoni in carne ed ossa che stavano lottando per la stessa preda. Si voltò poco dopo, con l’intento di togliersi la tuta dello stesso colore della navicella e rispondere alle domande dei giornalisti.
Quest’anno, ne era certo, sarebbe stato lui ad essere eletto campione.


*


Terra, a quaranta anni luce dal Sistema Trappist-1


Una bambina, la frangetta che le copriva gli occhi, stava correndo lungo una strada sterrata. C’erano solo campi attorno a lei, per la maggior parte di riso, e le sue belle scarpe, di tanto in tanto, affondavano in qualche pozzanghera di acqua sporca e dal colore marrone chiaro. Si fermò poco dopo davanti a un campo, un occhio lasciato per metà scoperto, respirando a tentoni. Una figura, una mascherina a coprirgli naso e bocca, stava estirpando le delicatissime piante.
La bambina, di appena dieci anni, sorrise, riconoscendo immediatamente di chi si trattasse. «Iwaizumi-san!»
Il ragazzo alzò lo sguardo, togliendosi poi la mascherina e sorridendo all’indirizzo della ragazzina. «Ciao Haruka» disse poi, camminando lentamente sul terreno acquoso, e con un piccolo sforzo le fu accanto.
Lei fece dondolare un cestino davanti ad Iwaizumi. «La mamma è riuscita a fare una crostata. E ti ho portato il libro che volevi!»
«Una crostata, sul serio?» disse, prendendo il cestino e dando una sbirciatina dentro. In effetti, all’interno di un contenitore di plastica trasparente, c’era una fetta di una crostata. «Sono more quelle?»
Haruka annuì vigorosamente. «Le ho prese in prestito da un fruttivendolo che sta in città. Aveva un sacco di frutta, non ne ho mai vista così tanta!»
Iwaizumi alzò lo sguardo dal cestino, puntandolo su di lei. «Haruka…» disse piano. «Lo sai che non dovresti rubare…»
La bambina abbassò lo sguardo, le guance che si colorarono di porpora. «Ma la mamma ci teneva così tanto a fare una torta! La nostra gallina ha fatto le uova dopo un sacco di tempo!»
Sospirò. Le loro madri erano stati amiche fin dai tempi del liceo, e da quando la madre di Hajime non c’era più, Haruka e la sua famiglia si erano sempre presi cura di lui e suo padre. Conosceva quella bambina da quando era ancora in fasce, era normale che si comportasse come un fratello maggiore un po’ austero.
Le accarezzò la chioma corvina con una mano ancora guantata. «Promettimi che non lo farai più… intesi?»
L’occhio blu come il mare lasciato scoperto dalla frangia sembrò quasi brillare per la contentezza. «Okay.»
Si diressero verso la casa alle loro spalle, distante un paio di metri, il tetto spiovente che un tempo era stato di colore rosso e le pareti di cemento armato.
«Papà!» chiamò Hajime non appena entrò, e una figura apparve da dietro un piccolo televisore mezzo smontato. «Haruka è venuta a trovarci.»
«Ho portato una fetta di crostata alle more!» esclamò poi la bambina, abbracciando l’uomo che era riuscito a scavalcare gli attrezzi lasciati per terra.
«Ancora che smanetti con quel televisore alla ricerca di qualche rete che prenda?» domandò, storcendo il naso.
«C’è ancora qualche canale che trasmette, abbi fede figliolo!» Si mise davanti il televisore, accendendolo col telecomando, e subito comparve l’immagine di una donna, vestita con un tailleur rosso, che stava leggendo una serie di notizie. «Hai visto?»
Hajime grugnì, tirando poi fuori il libro e la fetta di crostata; ne assaggiò giusto un pezzo, passando poi il contenitore al padre, che la mangiò con gusto. «Haruka, fai i complimenti alla mamma, è squisita, non ricordo quando è stata l’ultima volta che ho mangiato una crostata così!» disse, rivolgendosi poi al figlio. «Sei sicuro che non ne vuoi più?»
«Non ho fame papà – poi spostò lo sguardo sulla bambina, seduta davanti a sé, e le sorrise –, e tranquilla, è ottima!»
Haruka ricambiò il sorriso, guardando poi con curiosità il libro che il suo amico stava sfogliando. Era uno dei volumi che sua madre aveva tenuto come ricordo degli anni universitari oramai sfumati.
«A che ti serviva il libro sui sogni della mamma?»
Alzò le spalle. «Ho fatto un sogno strano stanotte, e volevo capire se stavo impazzendo del tutto…»
«Ah sì? E che cosa hai sognato?»
Iwaizumi parve rifletterci un attimo, indeciso se raccontarlo o meno. Alla fine, si lasciò andare, sistemando le pagine un po’ spiegazzate e ingiallite del libro. «Mi trovavo sopra quello che doveva essere un vulcano… Ed ero circondato da un sacco di verde. Era un posto che non avevo mai visto, e per certi versi mi sembrava estraneo…» Ingoiò un fiotto di saliva. «E c’era un ragazzo…»
«Un ragazzo?» Haruka inclinò la testa di lato, e per un attimo i loro occhi si incontrarono, blu e verde sembrarono mischiarsi.
Scosse la testa. «Lascia stare – e richiuse il libro – probabilmente avrò mangiato pesante ieri sera…»
«Hajime…»
«Papà, non cominciare, ieri sera ho mangiato!»
«No, non è per quello…»
L’uomo indicò fuori, una coltre di fumo rossastra che sembrava sollevarsi dal terreno lentamente, muovendosi quasi come se fosse una nuvola velenosa verso di loro.
«Cazzo! Questa non ci voleva» imprecò, alzandosi dalla sedia, seguito a ruota dal padre, e subito sbarrarono le finestre che davano sul campo coltivato, come se fossero già pronti ad una cosa del genere.
«Quanto manca?»
«Venti secondi. Aiutami a sbarrare la porta, coraggio!»
«Iwaizumi-san?» La bambina lo tirò per la maglietta. «Sta arrivando la tempesta rossa?»
La risposta alla domanda, arrivò poco dopo, quando le mura delle casa cominciarono a tremare. Da un piccolo spiraglio lasciato aperto dalle finestre sbarrate, era possibile vedere la coltre di fumo e sabbia che si avvicinava sempre di più, adesso con più velocità, come se avesse preso vita propria. Si abbatteva sul campo di riso, sugli altri campi più lontani, e per metà già perduti; si abbatteva sulle altre case, e la loro non faceva eccezione. Si misero al centro della stanza, lontano dalle pareti, Haruka che adesso si trovava in braccio ad Hajime. Il ragazzo tenne lo sguardo fisso sulla porta, mentre le mura della casa tremavano sempre di più, come se si trovassero dentro l’occhio di un ciclone, il tetto che produceva scricchiolii poco rassicuranti.
Non seppero quanto durò, ma si sentirono veramente al sicuro solo quando l’unico rumore udibile fu il pianto sommesso di Haruka contro la spalla di Iwaizumi.
«Shh, è passata. Puoi guardare adesso» mormorò, ricominciando comunque a respirare.





Iwaizumi Hajime non ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva visto il cielo di colore azzurro, o il mare che non fosse una distesa di acqua sporca. Non ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva visto un supermercato pieno di cibo, o che aveva respirato aria pulita.
La popolazione mondiale era stata decimata. Nessun posto era più sicuro, la tempesta rossa, fatta di sabbia e fumo, non risparmiava nessuno.
La Terra stava morendo. E l’essere umano se n’era accorto quando era già troppo tardi.


*


Sibun era uno dei pochi pianeti del sistema Trappist-1, il piccolo sole che gli forniva energia, in cui era possibile vivere. Ed era per questo che gli abitanti in esso presenti, vivevano in assoluta pace, rispettando comunque le condizioni climatiche di quel pianeta, come se gli parlassero e cercassero di capire gli eventuali problemi.
Le costruzioni di Sibun era piuttosto monotone e minimalistiche: il loro bianco brillante risaltava col grigio della terra e del mare di quel pianeta. Gli unici edifici che si distinguevano per imponenza e grandiosità erano le Piramidi, sede del Consiglio degli Scienziati e dell’Archivio Nazionale.
E uno dei membri di questo consiglio, nonché capo della classe dei Ricercatori, era proprio il padre di Oikawa Tooru. Quella sera, proprio quando suo figlio aveva conseguito un importante traguardo, lui era ritornato dalla sua ultima esplorazione, accompagnato dalla figlia.
«A Tooru!» disse il capofamiglia, seduto a capotavola, alzando il boccale verso il figlio. «Per averci resi fieri ancora una volta!»
«Non parlare troppo presto, papà! Non è stato ancora incoronato campione!» si intromise la figlia maggiore.
Tooru storse il naso. «Spiritosa, Hoshi. Davvero molto spiritosa… E dire che io volevo brindare al successo tuo e di papà.»
«Ah, non abbiamo fatto chissà che!» disse, tornando a mangiare il suo piatto. «Non siamo neanche scesi a terra, quel pianeta aveva una temperatura pari a quella di una fornace!»
«Avete già pensato a un nome?» chiese Oikawa.
Era questo quello che facevano i Ricercatori. Viaggiare da un pianeta all’altro alla ricerca di pianeti che fossero, almeno lontanamente, simili a quelli di Sibun. Nel loro sistema ve n’era già due, ed erano stati chiamati con il nome di Cnosso e Festo: fungevano da basi per le colture, principalmente, in modo che rimanessero comunque delle porzioni di terra libera e non sfruttate dall’uomo.
Fin ad ora, però, erano stati gli unici ad essere riconosciuti come pianeti possibilmente “abitabili”; gli altri che erano stati via via scoperti e archiviati, avevano una struttura assolutamente incompatibile con Sibun.
«Pensavo ad Ignis, che te ne pare?» domandò l’uomo, i gomiti sopra il ripiano del tavolo.
«Uh, mi sembra perfetto!» disse, sorridendo poi all’indirizzo della madre, che si era alzata da tavolo e gli aveva stampato un bacio tra i capelli. «Ho letto le ricerche che avete riportato, e mi sembra azzeccato!»
«Ottimo!» Poi si rivolse alla moglie. «Tesoro, perché non lasci che sia Asimo a occuparsi dei piatti?»
«Perché per una volta voglio farlo da sola, senza l’ausilio dell’intera casa, posso?» disse, voltandosi in direzione del suo consorte, la mano su un fianco.
Tutti quanti, a Sibun, avevano le case robotizzate. Asimo era il processore che controllava tutto, dalle pulizie, agli elettrodomestici, a far comparire le porte non appena qualcuno digitava il campanello automatico posto sulla parete. Faceva tutto lui, in modo che la gente del posto potesse dedicarsi alle proprie attività. Del resto, la gente di Sibun era per la maggior parte votata alla scienza o ad attività che fossero utili per la società. In quel caso, le corse era uno dei pochi divertimenti che la popolazione poteva permettersi.
«Sei sempre la solita» disse, dirigendosi verso di lei e cominciando baciarle il collo. I figli fecero entrambi una faccia disgustata.
«Tooru, andiamocene, prima che comincino con le smancerie davanti a noi!»
Il ragazzo seguì il consiglio della sorella, e, dopo aver premuto il bottone, la porta comparve davanti a loro; li accolse un grazioso corridoio e una scala che portava al piano superiore.
«Domani hai le prove?» chiese Hoshi, non appena giunsero alle loro stanze, e premendo un altro bottone, una porta comparve proprio davanti a lei.
Oikawa annuì. «Simulazione di gara. Devo testare tutte le possibili piste.»
Dello Stadio, l'unica cosa esistente erano gli spalti; per il resto, le piste cambiavano ogni volta, sempre rivestite dalle loro cupole di plastica trasparente, per evitare che qualche pezzo volasse tra il pubblico in caso di incidenti.
«Okay, cerca di dormire bene...» Il castano sbatté le palpebre, confuso. «Stanotte ti ho sentito mentre ti agitavi, si può sapere che cosa hai sognato?»
Tooru aprì la bocca, come a volerle spiegare, per poi chiuderla e scuotere la testa. «Ero solo nervoso per la gara, sta tranquilla!»
Hoshi lo guardò, poco convinta, ma preferì non indagare oltre e lasciare perdere. Gli augurò la buonanotte, ed entrambi si recarono nelle loro stanze.
Oikawa era quasi pronto a mettersi a letto, ma qualcosa lo distrasse, qualcosa che era rimasto sopra la sua scrivania. 
Quella sera, dopo quello strano sogno, si era subito alzato e si era recato alla scrivania in cerca di carta e penna. Era rimasto sveglio fino alla mattina, disegnando il paesaggio che aveva visto, col timore di dimenticarlo.
Si sedette, perdendosi poi ad osservare i disegni che aveva appeso sulla parete sopra la scrivania: li aveva fatti quando era più piccolo e già sognava di diventare un pilota, le navicelle colorate che brillavano sulla carta bianca. 
Erano l'unica cosa con un po' di colore a Sibun.
Intrecciò le dita, abbassando poi lo sguardo sul disegno che aveva sul ripiano.
Si chiese se, anche per quella notte, avrebbe sognato quello strano individuo.


 
Atto secondo





«Ancora tu?»
«Ma che bella maniera di rivolgersi a una persona, lo sai?»
«Tu non sei una persona, sei solo il frutto della mia testa! Anche se non ho la più pallida idea del perché abbia creato un tipo come te…»
«Voleva essere un insulto?»
«Tu che dici?»
«Sei una proiezione antipatica, lo sai?»
«Quindi sarei io la proiezione?»
«Certo, io sono una persona reale.»
«Anche io lo sono.»
«Ma io non ti ho mai visto da nessuna parte…»
«Neanche io ho mai visto la tua faccia di cazzo.»



*

Quella mattina, dopo essere passato a vedere le condizioni della loro piantagione di riso, Hajime e suo padre avevano deciso di recarsi in città, alla ricerca di qualche cosa da portare a casa. Non speravano tanto nel cibo. Con la “piaga”, il flagello che si nutriva di azoto e consumava l’ossigeno nell’aria, solo pochissime colture sopravvivevano; di conseguenza, mancando le materie prime, non era possibile creare tutte quelle pietanze articolate che un tempo si trovavano sui banconi di qualsiasi supermercato. A stento, gli animali riuscivano a rimanere in vita per più di due anni, e anche da morti la loro carne non era utile: la maggior parte delle volte, era veleno per l’essere umano.
Le città, da qualsiasi parte del mondo si andasse, erano tutte semiabbandonate, solo qualcuno si ostinava ancora a vivere tra quei palazzi di cemento che, oramai, non avevano più valore. La tempesta rossa si era abbattuta principalmente nelle metropoli più popolose, passando di tanto in tanto nelle zone di campagna. Era come se la Terra si fosse improvvisamente ribellata e avesse riversato le sue urla su quelle strutture abusive, che non le appartenevano e la stavano degradando lentamente.
Per Hajime, la città di Kagoshima era esattamente identica a Tokyo, quando l’aveva vista l’ultima volta: deserta e con degli scheletri di ferro che si ergevano da terra, le strade semi distrutte e la gente che vagava dandosi alla criminalità.
Suo padre posteggiò in una strada piuttosto appartata, sperando che nessuno gli rubasse la macchina, erano l’unico mezzo di trasporto funzionante che avevano a disposizione.
Camminarono per le strade, qualche bambino che andava scorrazzando qua e là, alcune persone che li fissavano dall’alto in basso. Hajime preferiva non avere a che fare con gente del genere, non perché avesse paura, ma perché aveva ancora una parvenza d’integrità e umanità: quella gente aveva perso tutto, anche l’ultimo briciolo di razionalità, e si comportavano come animali, se non peggio; arraffavano tutto quello che potevano, uccidendo se era necessario. Forse i bambini si salvavano, ma erano così fragili che molti morivano prima di compiere cinque anni. Haruka era un caso eccezionale, non si vedeva tanti bambini della sua età in giro.
Entrarono dentro quello che doveva essere un piccolo supermercato, gestito da un uomo e una donna tarchiati e con tatuaggi su entrambe le braccia.
«Che volete?» chiese la donna, il marito che subito gli puntò un coltellino, che lei gli fece abbassare, almeno per il momento.
«Assi. E qualche attrezzo da lavoro» rispose il padre di Hajime, asciutto, senza lasciarsi intimorire.
La donna ci pensò un attimo prima di indicare, con l’indice, uno scaffale alle loro spalle, infondo al piccolo locale. Non c’era molto, giusto un paio di assi e qualche attrezzo un po’ malandato. Avrebbero potuto vedere da un’altra parte, ma Kagoshima era grande e non era detto che avrebbero trovato di meglio. Presero solo il necessario.
«Cosa offrite?» parlò a quel punto l’uomo, notando la merce che avevano messo sul bancone bianco sporco.
Il denaro non serviva più a niente, forse solo per gli uomini più ricchi del pianeta, ma molti si erano rifugiati chissà dove o erano morti durante un colpo di stato ordito dalla povera gente. Del resto, il mondo stava andando in pezzi e loro parevano fregarsene.
Hajime gli fece vedere un sacco colmo di riso. Loro storsero il naso. «E come dovremmo cucinarlo?»
«Non prendeteci per cretini, il gas funziona ancora!»
«Hajime!»
«Vedi di andarci piano, ragazzo!» L’uomo si alzò in piedi, e la lama del coltello era a un passo dalla gola del giovane.
«Perché, altrimenti che cosa faresti? Mi taglieresti la gola? E cosa ci guadagneresti?»
«Ora basta, Hajime!» Suo padre lo spostò indietro, ponendosi davanti all’omone. «Abbiamo anche della carne secca. È poca, ma l’abbiamo già mangiata, e come vedete siamo ancora vivi.»
La moglie sbarrò immediatamente lo sguardo, sussurrando qualcosa all’orecchio del marito, che gli lanciò un’occhiata poco convinta, prima di accettare l’accordo.





Iwaizumi era seduto in macchina, in attesa che suo padre tornasse. Usciti dal market – e dopo che entrambi avevano avuto un piccolo bisticcio –, gli aveva chiesto se potesse passare da un suo amico, che gli forniva sempre merce di ottima qualità, ed era grazie a lui se, in parte, erano riusciti a tirare avanti.
Aveva deciso di non scendere col padre per fare da guardia al veicolo, e adesso si ritrovava a fissare i bambini che giocavano con un pallone improvvisato, mentre si mangiucchiava un’unghia spezzata. Non sapeva per quale ragione, ma aveva sognato ancora una volta quel ragazzo, quel paesaggio bellissimo, e persino in quel momento gli passavano davanti le immagini della loro discussione, quella voce fastidiosa che gli rimbombava ancora in testa.


«Rude! Ma ti comporti sempre così?»
«Solo con le persone presuntuose come te.»
«Io non sono presuntuoso!»
«Ah no? Quindi mi vuoi dire che paparino non ha tanti soldi?»
«E tu? Sembri un contadino… anzi, un gorilla.»
«Ripetilo, e ti faccio saltare tutti i denti»



Avevano continuato così per quelle che dovevano essere delle ore. Alla fine, prima che il sole di quello strano mondo calasse, avevano scoperto l'uno il nome dell'altro.


«Piacere Iwa-chan, io mi chiamo Oikawa Tooru!» Gli porse la mano, che lui non strinse.
«É Iwaizumi. Vedi di non dimenticarlo.»
«Iwa-chan é più carino!»
«Non m'interessa!»
«Iwa-chaaan ~»
«IWAIZUMI!»



Non sapeva perché si fosse comportato così, sembrava che fosse tornato ad avere quindici anni, e non ventitré. In fondo, era tutto frutto della sua testa, quel ragazzo non esisteva veramente, quel mondo strano non c'era.
Eppure, sembrava tutto così maledettamente reale: tutto aveva un suo ordine, dal fruscio delle acque e delle foglie, al sole che si spegneva all'orizzonte e che lo faceva ripiombare nella realtà. E quel ragazzo, nei suoi modi di fare, non sembrava una proiezione, un ologramma inventato dalla sua mente, ma sembrava una persona qualunque, una di quelle che si potevano incontrare per strada per puro caso.
Gli era già capitato di fare dei sogni fin troppo realistici. Ma questo... li batteva tutti. E per di più, aveva sognato lo stesso luogo e la stessa persona per due volte di fila.
Fece schioccare la lingua, le urla dei bambini che si fecero sempre più forti. E che sovrastavano le urla di paura di un'altra persona.
Hajime notò qualcuno che stava correndo in lontananza, un paio di mele strette al petto, e ci volle un po' prima che si accorgesse che si trattava di Haruka. Sbarrò gli occhi, mentre la bambina veniva spinta con la faccia a terra da un ragazzo più grande e alto di lei, la faccia macchiata per via di chissà quale malattia.
Adesso, le stava stringendo il collo con entrambe le mani. 
Hajime scese dalla macchina e si diresse correndo verso di loro, la rabbia che gli offuscava la mente e la vista. Mollò un calcio sull'orecchio al giovane, che cadde di lato, mezzo stordito.
«Stai bene?» chiese poi ad Haruka, abbassandosi al suo livello, e lei annuì, tossendo un paio di volte per riprendere aria.
Sentì il fischio di uno sparo poco dopo, e lo zigomo destro cominciò a bruciare e pizzicare, un rivoletto di sangue caldo che gli colava sulla guancia. Il ragazzo di poco prima, probabilmente di quattordici anni, si teneva a malapena in piedi e aveva tra le mani una pistola che, quasi sicuramente, non sapeva usare.
Non ci volle molto prima che Iwaizumi lo atterrasse di nuovo, dandogli una gomitata sotto il mento e prendendosi la pistola.
«Sparisci!» urlò, puntandogliela contro, e il ragazzo indietreggiò, per poi scappare a gambe levate.
«Iwaizumi-san...» sentì pigolare, e vide che Haruka si era messa in piedi e stava guardando con insistenza il graffio sullo zigomo.
Hajime la prese per un braccio e la strattonò. Non voleva essere così brusco con lei, ma il panico aveva cominciato a montargli dentro, e si poteva percepire anche nel suo tono di voce. «Mi avevi promesso che non avresti più rubato!»
«Io...» Haruka tirò su col naso. «Mi dispiace... Mi dispiace tanto...»
Scoppiò a piangere poco dopo, continuando a chiedere scusa tra i singhiozzi.
Hajime l'abbracciò stretta. «Ora smettila di piangere…» e nel dirlo, non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.


*


Nello stesso momento, su Sibun…


Oikawa, quella mattina, si era svegliato col sorriso sulle labbra. Fin dal primo momento, il ragazzo del sogno gli era sembrato diverso da tutte le altre persone che aveva sognato. Sembrava reale, sembrava una persona veramente esistente.


«Ora che ci penso… Non si sognano persone totalmente sconosciute… magari ti ho visto passeggiare per strada.»
«Ne dubito fortemente.»
«Beh, non lo scopriremo mai se non mi dici come ti chiami!»



Dopo varie insistenze, alla fine glielo aveva detto. E se la sua teoria si sarebbe rivelata vera, allora doveva aver visto quel ragazzo da qualche parte, magari aveva incrociato il suo sguardo, chi lo sa.
Per questa ragione, finiti gli allenamenti su pista, si era diretto di gran carriera alle Piramidi. Al centro vi era la strada principale, e la piramide di sinistra, la più piccola, altro non era che l’Archivio di Sibun, dove veniva conservato qualsiasi cosa, dalle informazioni su un pianeta che era stato appena scoperto, agli articoli di giornale. E questo, ovviamente, includeva anche la lista di tutti quanti gli abitanti del pianeta, che veniva aggiornata ogni volta che ci fosse un qualche nascita o qualche decesso. Questo significava che avrebbe trovato lì tutte le informazioni che cercava su Iwa-chan. Certo, se fosse riuscito sul serio a incontrarlo, forse gli avrebbe detto che non l’aveva mai visto in vita sua, tanto meno sognato. Tuttavia, Oikawa aveva come una sorta di presentimento: era sicuro che, invece, Iwa-chan l’avrebbe riconosciuto.
I sogni non hanno nulla di scientifico, non si fondano su basi certe. C’era chi, però, diceva che da questi si potesse risalire a tante cose, alla parte più profonda di un individuo.
Oikawa, lo sapeva, qualcun altro su quel pianeta l’avrebbe preso per un folle; ma lui, in fondo, era sempre stato diverso dagli altri, tutti improntati sulla razionalità degli eventi. Un po’ sognatore, un po’ anticonvenzionale, era anche questo che gettava su di lui un’aura di fascino, perché non era il classico ragazzo che si incontrava su Sibun, o sugli altri pianeti di Trappist-1. Al contrario dei suoi connazionali, aveva sempre creduto alla fatalità e al destino, cosa che invece vengono considerate come dei tabù sul suo pianeta. Ne aveva sentito parlare solo perché, una volta, aveva trovato quelle parole in un vecchio dizionario di sua madre.
Ovviamente, nessuno sapeva di questa sua indole abbastanza passionale, figuriamoci: per molti, quella era solo una facciata, un modo di atteggiarsi per catturare l’attenzione del pubblico.
Si trovava dentro l’enorme stanza che conteneva il Catalogo degli Abitanti, delle enormi braccia robotiche che lavoravano sulla tastiera di diversi computer, scrivendo senza sosta. La graziosa ragazza del banco informazioni l’aveva accompagnato di persona, e dopo essere entrati, Oikawa la stava seguendo lungo uno stretto corridoio, verso il computer principale.
«Stai cercando una persona, giusto?» Il castano annuì, e la ragazza si mise davanti ad un leggio, parlando poi al computer. «Ciao Giunone!»
Il computer fece una serie di rumori, come a dire che aveva sentito, e l’enorme schermo fece apparire l’elenco di tutti i nomi, e ogni tanto ne compariva qualcuno nuovo o qualcun altro spariva.
«Basta che dici il nome al microfono e lei farà il resto!» disse la ragazza, lasciandogli il posto.
Tooru scandì per bene le parole, e non appena il nome fu captato dal computer, una barra cominciò a scorrere freneticamente verso il basso, alla ricerca del nome richiesto. Si fermò alla lettera i, segnalando poi un errore nel processo di ricerca.
Oikawa trasalì: no, di certo non si aspettava di ricevere una risposta del genere, e non poteva neanche dubitare della validità di quello che diceva la macchina, veniva revisionata ogni mese, in modo che tutto funzionasse alla perfezione e non ci fossero intoppi. Era sicuro della sua idea, non poteva essere che la sua mente avesse inventato dal nulla quel tizio. Aveva una grande fantasia, ma non fino a quel punto: Iwa-chan aveva mille sfaccettature, che si potevano attribuire solo e soltanto ad una persona in carne ed ossa.
«Siamo sicuri che fosse questo il nome?» chiese la ragazza, titubante. Non dubitava di Oikawa-san, figurarsi, chissà quante ragazze avrebbero smaniato per essere al suo posto. Volveva solo svolgere il suo lavoro al meglio.
Il ragazzo guardò lo schermo, gli occhi ancora spalancati e la bocca semi aperta, scuotendo poi il capo e ridendo imbarazzato all’indirizzo della ragazza. «Ops, devono avermi dato il nome sbagliato! Scusami di averti fatto perdere tempo.»
Lei sorrise, rassicurandolo e dicendogli che sarebbe sempre stata a disposizione per qualsiasi sua richiesta, arrossendo come un peperone, ma Oikawa si limitò a sorridere com’era solito fare con ogni sua pretendente.
Fu in quel momento che l’espressione della ragazza cambiò, indicando il suo zigomo destro con dito tremante. «Oikawa-san… Sanguini…»
In effetti, aveva sentito dolere proprio in quel punto, ma non ricordava di essersi graffiato da qualche parte. Si asciugò col dorso della mano, trovandolo sporco di sangue. Rimase a fissare quella macchia rossa con sgomento, chiedendosi che cosa diavolo potesse essere successo.


*


Come al solito, il sole stava tramontando ed Iwa-chan era già accanto a lui; questa volta, era seduto, le gambe che dondolavano nel vuoto. Si sedette anche lui, spingendolo poi di lato, come a fargli perdere l’equilibrio.
«Ma ti sei bevuto il cervello?»
«Mi hai mentito» disse piano, sul volto un’espressione offesa. «Sputa il rospo, qual è il tuo vero nome?»
«Prego?»
«Oggi sono andato a cercare il tuo nome all’Archivio Nazionale, ma non c’era…»
Hajime storse il naso. «Che fai, mi stalkeri? E che cosa diavolo sarebbe l’Archivio Nazionale?»
Oikawa sbatté gli occhietti. «Iwa-chan, sei serio? Ma su quale pianeta vivi?»
«Forse sei tu ad essere un alieno!»
«Un che?»
«Senti, lascia perdere!»
Ci fu un attimo di silenzio, prima che Tooru si lasciasse andare ad un’esclamazione piuttosto colorita, e Hajime lo guardò di traverso, torvo.
«Ma certo! Tu vieni da un altro pianeta!»
«Cosa?»
«Ecco perché non ti trovavano sul Catalogo!» Si girò a guardare l’altro, una faccia sconvolta che si era palesata sul suo viso, mentre Oikawa lo squadrava dall’alto in basso. «E ora che ci penso, sei diverso dalla persone che vivono su Sibun…»
«Okay, è ufficiale…» disse Iwaizumi, tra sé e sé. «Sono uscito fuori di testa…»
Il castano si sporse verso di lui. «Dai, dimmi da quale pianeta vieni! Così posso suggerire a mio padre di recarsi sulla tua galassia!»
Lo guardò, sempre più sgomento. Quel ragazzo faceva sul serio? No, perché non gli pareva proprio di parlare con una persona matura, ma con un bambino di cinque anni. Si passò una mano sul viso, evitando di perdersi ad osservare troppo quegli occhi color cioccolato e che lo guardavano allo stesso modo di un gatto che aspetta di mangiare la sua porzione di cibo.
«Lo sai…»
«Se lo sapessi, non te l’avrei chiesto.»
Hajime sospirò «Il Pianeta Terra. È abbastanza sconvolgente come notizia?»
La domanda che aveva posto, ovviamente, era retorica, sicuramente si aspettava che quel ragazzo si mettesse a discorrere con lui su quanto quel pianeta fosse bello un tempo, e a quel punto avrebbe capito che si trattava di un sogno; un sogno ricorrente e ogni volta strano, ma pur sempre un sogno.
E invece, quando si girò verso Oikawa, lo trovò boccheggiante e con lo sguardo stralunato. Il sole calò improvvisamente, e quando Hajime aprì gli occhi, si trovava nella sua stanza, il cielo fuori ancora blu come la notte.

 

Atto terzo




La prima volta che aveva sentito parlare del pianeta Terra, aveva appena compiuto sei anni. Una donna, ancora in vestaglia, veniva portata via da due individui, due infermieri forse, mentre lei urlava. Urlava, e tra quelle urla aveva sentito nominare quella parola. Aveva chiesto a sua madre che cosa stesse succedendo, e allora lei gli aveva spiegato che quella donna aveva la Sindrome dell'Astronauta.
Cosa significasse quella parola, nessuno pareva saperlo, e il dizionario di sua madre mancava delle prime pagine, quindi non l'avrebbe scoperto mai. Sapeva solo quello che significava per gli abitanti di Sibun.
Si diceva che ci fossero alcune persone in grado di entrare in contatto con gli abitanti del pianeta Terra, al punto da sentire le loro sofferenze fisiche. E questo, implicava che sulla Terra ci fosse vita.
Tutti quelli che cercavano di convincere la gente a muoversi verso quel pianeta, venivano considerati vittime della Sindrome dell'Astronauta.
Sulla Terra non c'era vita, questo era quello che riportavano le informazioni sul quel pianeta. La gente lo odiava, perché molta gente di Sibun era morta per andare ad esplorarlo. Quella volta, era tornato solo metà equipaggio, e da allora la Terra era stata considerata il pianeta più ostile che ci potesse essere.
Nessuno, però, sapeva effettivamente quando fosse avvenuta quella spedizione. Era solo una leggenda che si raccontava ai bambini, ma qualcuno si era effettivamente informato sulla sua veridicità?
Eppure era strano, tutto su Sibun aveva una sua logica, non c'era nulla che non avesse una sua spiegazione. Perché, allora, quando la gente chiedeva di raccontare qualcosa in più su quella fatidica spedizione, nessuno sapeva rispondere? Possibile che a nessuno importasse?
Oikawa fu colto da un brivido freddo, mentre ripensava a come si fosse svegliato in preda al panico, in un bagno di sudore e con la stanza totalmente avvolta nel buio. Aveva paura. Aveva paura di stare impazzendo. E sapeva bene che le persone che cadevano vittime della Sindrome, prima o poi sparivano nel nulla: su di loro, rimanevano solo i pettegolezzi e le malelingue che metteva in giro la gente.
Si strinse nel suo pesante giaccone, quella mattina era sceso presto da casa pur non avendo gli allenamenti; in ogni caso, non sarebbe riuscito a riaddormentarsi, e aveva quasi il terrore di farlo ancora, come se dormire non fosse un bisogno assolutamente necessario per il suo corpo.
Cercava di cancellare con tutte le sue forze l’espressione corrucciata di Iwa-chan mentre lo fissava, probabilmente senza capire il motivo della sua reazione. Se avesse avuto anche solo la forza di tenere la matita in mano, magari sarebbe persino riuscito a disegnarla in ogni minimo dettaglio: la fronte contratta, gli occhi verdi che risplendevano di una luce diversa sotto i raggi del sole, la ferita sullo zigomo destro…
Oikawa si toccò la zona dove ieri si era ferito, senza sentire la minima traccia di qualche graffio o altro. Era tutto sparito qualche ora dopo. E Iwa-chan aveva una ferita proprio nello stesso punto, e anche bella evidente.
C’era qualcosa di strano in tutto questo, quasi di anomalo. Possibile che quella storia fosse vera?
Tooru non si sarebbe mai tolto quel tarlo dalla testa, e per questa ragione aveva deciso di recarsi ancora una volta all’Archivio Nazionale, per saperne di più su quella faccenda. Si era appoggiato al bancone, aspettando che la ragazza di ieri finisse di parlare al telefono e si accorgesse della sua presenza.
«Oh, buongiorno Oikawa-san!» disse poi, con un sorriso smagliante e contornato da un rossetto rosso. «È tornato per cercare quel nome?»
«In realtà sono qui per qualcos’altro…» Si sporse lentamente verso di lei, senza smettere di sorridere, anche se le sue mani tremavano. La ragazza, come si aspettava, divenne rosso magenta, e lui ne approfittò per farle l’occhiolino. «Sono qui per una missione top secret!»
La giovane fece un’esclamazione di totale stupore: del resto, era risaputo che il padre di Oikawa Tooru era un Ricercatore di grande fama.
«Sai mantenere un segreto?» le disse. Lei annuì. «Bene, perché mi servirebbero tutte le informazioni che avete sul Pianeta Terra…»
Fu a quel punto che la ragazza spalancò gli occhi, tenendo le pupille fisse su quelle del castano; le spostò poco dopo, verso il pulsante di accensione del telefono, e quel gesto bastò ad Oikawa per capire quali fossero le sue intenzioni: prima che fosse troppo tardi, aveva già afferrato il polso della ragazza.
«Oikawa-san… mi fai male…» disse, cercando di liberarsi, e Oikawa si rese conto che lo stava guardando come se fosse un disadattato mentale, un reietto, una persona pericolosa.
Diminuì la presa, senza comunque lasciarla, parlando poi piano. «Non devi spaventarti…» disse, deglutendo fiotti di saliva e respirando a tentoni. In realtà, avrebbe dovuto, si faceva paura persino da solo. «Non ho la Sindrome dell’Astronauta… Anzi, sto cercando una cura per questa malattia, per questo mi servono più informazioni necessarie.»
«Davvero?» esclamò. «Vuole entrare a far parte del Consiglio degli Scienziati?»
Era così che funzionava su Sibun: se si voleva diventare un membro del Consiglio si doveva essere degli scienziati che avevano già lavorato per migliorare la vita dei cittadini, oppure si poteva presentare una scoperta eccezionale, al punto da scioccare tutta la platea, compresa la normale popolazione. Di certo, scoprire la cura per quella sindrome avrebbe giovato a tutti.
Lui le fece cenno di abbassare la voce, ma annuì poco dopo. Era l’unica scusa plausibile per poterlo lasciare lavorare in pace, altrimenti l’avrebbero considerato un sospettato e l’avrebbero portato chissà dove. «Ora capisci perché non posso dirlo a nessuno?»
La ragazza annuì, e vedendo che non c’era alcuna parvenza d’orrore nel suo sguardo, le lasciò il polso. In poco tempo, si era già alzata e aveva chiamato una sua collega per sostituirla, accompagnandolo poi nel posto meno frequentato dell’intero Archivio: il Catalogo dei Giornali.





C’era una scrivania dentro quel posto tutto impolverato. L’unica luce disponibile la forniva un robot dalla forma ovale – tipica forma dei robot su Sibun – e Oikawa dovette sbattere le dita sulla struttura metallica un paio di volte prima che si accendesse. La ragazza gli aveva spiegato che quel robot era lì da una vita e che, alla fine, tutti avevano finito per affezionarcisi: era un ferro vecchio, questo era vero, ma la sua luce era ancora buona, aveva solo bisogno di carburare un po’ prima che funzionasse.
«Okay Beemo – si rivolse al robot, stiracchiandosi, e questi sembrò quasi risvegliarsi nel sentire la voce di qualcuno che chiamava il suo nome –, diamoci da fare!»
Gli era stato portato un solo fascicolo dal Catalogo dei Ricercatori, misero e con qualche informazione sparsa, per il resto aveva soltanto qualche ritaglio di giornale, che il computer gli aveva mostrato sotto il nome di Sindrome dell’Astronauta: beh, era ovvio.
Il fascicolo non diceva granché, non sembravano neanche delle informazioni così antiche come credeva. Erano tutte informazioni che già conosceva, e più che parlare di quale fosse la reale struttura di quel pianeta, se sul serio non ci fosse alcuna possibilità di vita, si limitavano a esaltare l’eroismo di quei Ricercatori che erano morti nell’impresa. Di quell’equipaggio, però, non c’era neanche una foto. C’era solo un elenco di nomi, e Oikawa decise di tenerlo per sé, nel caso avesse avuto la possibilità di cercare quei nomi.
Per antonomasia, riuscì a ricavare maggiori informazioni su cosa fosse la Sindrome vera e propria, rendendosi conto che, ad esserne vittima, erano state diverse persone. Non tantissime, in confronto al numero di abitanti di Sibun, ma erano comunque parecchie. I sintomi erano tutti gli stessi: la convinzione di sentire il dolore di un’altra persona, strani sogni, il presentimento di avere qualche malattia o di essersi feriti, senza in realtà avere nulla, fino alla totale follia, in cui si andava urlando contro la gente che c’era vita sulla Terra e che si doveva salvare il genere umano.
Oikawa si toccò lo zigomo, avvertendo un formicolio dietro la nuca: quel graffio non poteva esserselo immaginato, un’altra persona l’aveva visto sanguinare. Anche se, sicuramente, la ragazza del banco informazioni avrebbe fatto finta di niente nel caso in cui fosse stato scoperto e le chiedessero qualcosa.
Rabbrividì, continuando poi a leggere caso dopo caso, riga dopo riga, finché un nome non attirò la sua attenzione. Non era un caso vero e proprio, parlava solo di una giovane i cui sospetti sul suo essere vittima della Sindrome si era rivelati infondati. Il fratello aveva smentito tutto, e lei aveva confermato.
Il cognome della ragazza era Ukai. E il fratello della donna era Ukai Ikkei, il famoso pilota di corse divenuto campione per ben cinque volte, ora possessore della scuderia Karasuno.





Prima di schizzare fuori dalla Piramide, era passato al Catalogo degli Abitanti, alla ricerca dei nomi di quella famosa lista. Aveva scoperto che erano tutte persone morte e che, per saperne di più, avrebbe dovuto cercare al Catalogo dei Defunti, che si trovava presso il Cimitero Nazionale, appena fuori città.
Decise di passarci dopo, non appena avrebbe parlato con Ikkei-san. Per quanto fosse a capo di una scuderia tra le sue acerrime nemiche, portava comunque rispetto a quell’individuo: per tanti anni, era stata una leggenda nel mondo delle corse.
Inoltre, sebbene potesse risultare circospetto, le sue intenzioni riguardavano qualcosa che andava al di fuori della gara. Riguardavano Iwa-chan. Doveva sapere… doveva sapere se non stava impazzendo del tutto, se era vero che Iwa-chan veniva da un altro pianeta, del perché lo stesse sognando.
Lo trovò alla scuderia principale della Karasuno, fornita di pista come tutte le altre, e stava assistendo all’allenamento che si stava svolgendo in quel momento. Se non avesse avuto altro per la testa, probabilmente anche lui avrebbe rinunciato al suo giorno libero per allenarsi. Era riuscito a entrare evitando la sicurezza, e adesso si trovava davanti a lui, anche se quello gli rivolgeva le spalle. Era in compagnia di suo nipote, e a giudicare dal numero contrassegnato sulle navicelle, quelli che si stavano allenando dovevano essere il piccoletto e Kageyama.
«Ukai-san!» urlò, dopo aver ripreso fiato, ed entrambi gli uomini si girarono, sorpresi della sua presenza. «Le devo parlare!»
«E tu come diavolo sei riuscito a entrare?» Keishin si avviò a passo di marcia verso di lui, come a volergli intimare di andarsene.
Oikawa lo ignorò totalmente. «Riguarda sua sorella.»
Le spalle dell’anziano ebbero un sussulto, ma l’uomo cercò di non darlo a vedere. «Non sono tenuto a parlarne con te, giovanotto! È forse un piano di Irihata per depistarci? Siamo arrivati fino a questo punto?»
«Irihata-sensei non c’entra nulla, sono venuto qui di mia spontanea volontà!» Preferì evitare di sollevare polemiche sul fatto che il suo Team Principal era stato appena accusato di essere un uomo meschino.
Ikkei lo guardò di traverso. «Allora sei venuto inutilmente.»
Oikawa digrignò di denti, accorgendosi solo adesso che i due piloti più giovani della Karasuno avevano finito il loro consueto giro di pista e si stavano dirigendo verso di loro. Hinata, per poco, non balzò all’indietro, proteggendosi con una sorta di posizione ninja. «Che cosa ci fa qui Oikawa-san?»
Il castano li guardò appena, concentrandosi giusto un attimo sullo sguardo di Kageyama che, dallo stupito qual era, passò ad essere determinato. Un tempo, quando erano ancora dei principianti, avevano fatto parte della stessa scuderia, la Kitigawa Daiichi, e Oikawa aveva sempre visto Kageyama Tobio come una possibile minaccia. Avevano anche avuto un battibecco per tale questione, e da allora tutto ciò che volevano era fare a pezzi l’altro. In quel momento, però, non aveva tempo per badare a lui.
«È una questione urgente!»
«Sei sordo? Ti è già stato detto di andartene!» Il più giovane degli Ukai lo prese per il braccio, forse con l’intento di trascinarlo fuori, nonostante fosse più alto e forse più pesante di lui.
Fu allora che Oikawa, conscio che non avrebbe più avuto un’altra occasione come quella, sbottò. «Ho sognato un abitante del Pianeta Terra!»
L’atmosfera raggelò di colpo, il giovane Ukai che non riusciva più a tenere la presa sul suo braccio. Tutti lo stavano guardando come se avesse appena detto un’eresia, compreso Ikkei-san.
«La Sindrome dell’Astronauta…» disse Hinata in un sussurro, muovendo appena le labbra.
«Questo è troppo…» Keishin aveva già afferrato il suo cellulare per chiamare qualcuno, ma a fermarlo in tempo fu suo nonno, serio come non lo era stato mai.
Tenne lo sguardo fisso sugli occhi di Tooru, che sembravano quasi implorarlo, eppure non c’era alcuna parvenza di paura, alcun risentimento per quello che aveva appena detto: era convinto al cento per cento.
«Non possiamo parlarne qui… Casa mia è nelle vicinanze.»
Se possibile, tutti fissarono sgomenti l’anziano uomo, tranne Oikawa, che annuì al suo indirizzo. «Ottimo!»





«Vorrei sapere perché siete venuti anche voi due…» sibilò il castano tra i denti, spostando poi lo sguardo sui piloti della Karasuno, intenti a prendere il tè come se nulla fosse.
La casa di Ukai-san non era diversa dalle altre di Sibun, era anch’essa robotizzata e del colore della carta; solo i mobili erano un po’ datati.
«Perché vogliamo sapere anche noi se sei pazzo!» esclamò Hinata, afferrando poi un pugno di biscotti e infilandoseli in bocca in un solo colpo.
Oikawa emise un grugnito. «Non sono pazzo…»
«Sarebbe un bel vantaggio per te» aggiunse Kageyama, rivolgendosi al rosso. «Se Oikawa-san viene dichiarato pazzo, sarà costretto a uscire dalla gara, e di conseguenza entreresti tu al suo posto.»
«Wow, sul serio?»
«Vi ho già detto che non sono pazzo!»
«Questo lo stabiliremo noi!» Si accorsero solo adesso che Keishin Ukai era rientrato dalla cucina, seguito dal nonno, ed entrambi si accomodarono di fronte a loro, uno accanto all’altro.
Per un attimo, calò un silenzio tombale, in cui la tensione era palpabile nell’aria, fino a quando non fu Ukai senior a parlare. «Descrivimi i tuoi sintomi.»
«Nonno, non gli crederai sul serio!» Quello lo zittì con cenno della mano, e adesso tutta l’attenzione era rivolta ad Oikawa.
Il ragazzo prese un profondo respiro, infossando un po’ il collo. «Niente di particolare, per adesso… Ho solo sognato questo ragazzo, Iwa-chan, più di una volta, e all’inizio ho pensato che fosse un nostro connazionale. La teoria che fosse l’abitante di un altro pianeta è venuta dopo, magari era una qualche specie in grado di connettersi con noi attraverso i sogni in maniera inconscia…» Stava divagando, per cui riprese il discorso. «Non avrei mai pensato che provenisse dal Pianeta Terra. Di recente, mi sono persino accorto che lui ha una ferita sullo zigomo destro, e ieri ho iniziato a sanguinare nello stesso punto all’improvviso… senza che avessi nulla.»
Ikkei annuì. «Di solito dove ti trovi quando sogni?»
«Siamo sulla vetta di una montagna… o di un cratere, non sono ancora riuscito a capirlo. E sulle pendici ci sono diversi boschetti sparsi, mentre all’orizzonte si estende il mare e nel cielo il sole sta tramontando, sempre. Quando la luce scompare, mi ritrovo nella mia stanza. »
«Riconosci qualcosa di Sibun in quel paesaggio?»
Oikawa parve rifletterci su un attimo. «Poco. Giusto qualcosa.»
«Questo perché è il frutto dell’unione tra il tuo spirito e quello di questo Iwa-chan.»
Tutti, nessuno escluso, rimasero di sale dinanzi a quella affermazione, espressa senza alcun tentennamento. Keishin credeva che suo nonno avesse qualche rotella fuori posto per dare corda a quelle assurdità.
L’anziano si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia, parlando con assoluta serietà e franchezza. «Secondo quanto si dice su Sibun, chi è affetto dalla Sindrome dell’Astronauta è convinto di poter percepire il dolore di un’altra persona anche se questa è distante anni luce. Di avere le stesse malattie, di ferirsi dove si ferisce l’altro, e di poterci comunicare attraverso i sogni. Questa persona è sempre un abitante del Pianeta Terra.» Guardò dritto negli occhi il giovane che gli stava seduto davanti e che pendeva dalle sue labbra. Sospirò. «Beh… Queste persone hanno ragione. O almeno, mia sorella ne aveva.»
Hinata per poco non sputò il tè, mentre gli altri ospiti rischiavano quasi di cadere indietro con la sedia; solo Tooru rimase fermo, incapace di esprimere qualsiasi emozione, o di accennare qualsiasi movimento.
«Un attimo, nonno, sei stato tu stesso a farla scagionare!»
«Perché altrimenti sarebbe sul serio impazzita» rispose al nipote. «Molte delle persone che cadano nella più completa follia non lo fanno per via della Sindrome in sé, ma per il fatto che vergono emarginati dall’intera società, arrivando al punto di credersi seriamente pazzi…»
Spostò lo sguardo di lato, sui tre giovani che gli stavano seduti davanti. «Oikawa, conosci il significato della parola destino?» Vedendo il castano annuire, continuò. «Mia sorella diceva che era come se fosse destinata a quel giovane ragazzo del suo sogno, come se fossero legati. Ha raccolto delle informazioni sul quel pianeta che nessuno possiede, e tutto grazie a quei sogni. Credimi, sono descrizioni troppo accurate persino per un bambino con molta fantasia.» Si fermò un attimo, giusto per riprendere fiato. «Gli astronauti sono i nostri Ricercatori per i terrestri. È stato dopo il caso di mia sorella che si è diffuso questo nome, perché era stata lei a utilizzare per la prima volta quella parola. Voleva andare a trovarlo… ma come hai ben capito, non le è stato permesso. Mi ha raccontato di averlo sentito morire…»
Ukai prese un respiro profondo, l’aria che era diventata colma di un’elettricità a loro sconosciuta. «Ascoltami Oikawa, io non ho mai dubitato delle parole di mia sorella, mai. Era una scienziata, e ha dovuto fingere di non avere nulla solo per poter sopravvivere e sperare che, un giorno, potesse incontrare questa fatidica persona. Io non so perché tu sia legato proprio a quel giovane, ma sappi che un motivo c’è!»
«Ovvero?» Fu Kageyama a parlare, anche se non si aspettava seriamente una risposta quella domanda. Ukai-san, però, sembrava avere la risposta a tutto.
«Mia sorella mi raccontava che il Pianeta Terra, un tempo, era stato florido, ma che stavano avvenendo troppe catastrofi e troppe persone morivano per via delle malattie.» Non smise nemmeno un attimo di guardare il castano, che adesso aveva le pupille ridotte a due fessure, le mani sudate e appiccicaticce. Perché aveva il presentimento che quello che avrebbe detto l’uomo non sarebbe stato positivo?
«In parole povere, ci stai dicendo che il Pianeta Terra stava diventando seriamente un pianeta ostile?» chiese il nipote, ora più che mai interessato alla conversazione.
L’altro alzò le spalle. «Non nei modi che decantiamo noi, mai sì… Sì, è così. Sono convinto che, adesso, la Terra sia arrivata a livelli di vivibilità tra i più bassi…»
Era questo allora il motivo per cui sognava Iwa-chan? Per essere destinato a sentirlo soffrire, sentirlo morire, senza poter fare nulla? Non c’era davvero niente che potesse fare?
No, era destinato a fare altro, e doveva farlo lui, per via del suo carattere, per via del suo comportamento un po’ fuori norma.
Qualcosa c’era, ma significava che doveva rinunciare al suo ruolo di bravo cittadino di Sibun e comportarsi come un matto. Ma era l’unica alternativa, se voleva salvare Iwa-chan e migliaia di altre persone possibilmente.
«Ukai-san» disse, dopo interminabili minuti di silenzio. «Posso avere le informazioni raccolte da sua sorella?»





Kageyama e Hinata erano seduti, le gambe a penzoloni nel vuoto, sul cornicione dalla terrazza che la famiglia di Kageyama aveva sul tetto. Si erano scambiati a malapena due parole usciti da casa di Ukai-san, giusto per dividersi i soldi per dei ghiaccioli, che adesso stavano gustando assieme. Anche se quello di Tobio, a dirla tutta, si stava sciogliendo sulla sua mano. Era ancora troppo preso dalle immagini di Oikawa-san che gli scorrevano davanti, mentre prendeva i fascicoli tra le mani, e i suoi occhi brillavano di una luce particolare, non era la sua solita determinazione. Kageyama non credeva che la determinazione potesse assumere le sfumature più differenti.
«Cosa credi che abbia intenzione di fare Oikawa-san?» chiese poi, senza pensarci, senza rendersi conto del soggetto che aveva accanto.
Hinata alzò le spalle. «Non ne ho idea… Ma sono convinto che farà di tutto per andare sul Pianeta Terra.»
«Quindi tu credi a tutto quello che ci ha raccontato Ukai?»
«Tu no?»
«Non lo so…»
«Io ci credo!» disse, mangiando l’ultimo pezzo rimanente del suo ghiacciolo. «E credo anche che farei la stessa cosa di Oikawa-san!»
Kageyama inarcò un sopracciglio. «Ah?»
«Se sapessi che sono destinato a una persona, e che quella persona è in pericolo, anch’io fare di tutto per salvarla.» Si girò verso il compagno e acerrimo rivale di sempre, inclinando la testa e sorridendo. «No?»
Tobio sentì una sensazione calda all’altezza del petto, pressante e che rischiava di schiacciargli la cassa toracica. Succedeva da diverso tempo in compagnia di quel cretino di Hinata Shoyo. La sola idea che si fosse preso una cotta per quell’incapace lo mandava sui nervi.
Scostò lo sguardo, le punte dell’orecchie rosse come due pomodori maturi, e gli rispose, bofonchiando. «Forse sì.»






Domande? (sì, chiedo scusa di essermi presentata così ^^)
Perché questo prompt? Per la questione dei sogni, ovvio. Sono abbastanza realisti, quindi non riescono a capire se quello che stanno sognando sia vero oppure frutto della loro testa, almeno finché Oikawa non riceve quelle informazioni da Ukai. E poi, io amo Matrix *piange tutto*
Che cosa sono gli Atti? In origine, questa storia doveva avere più capitoli, ma per rispettare le regole del contest (qui) ho dovuto unirli assieme. La suddivisione in atti è solo un modo simpatico di far capire che la trama cambia leggermente (no, in realtà faccio come San Tommaso e le sue questioni nella Summa Theologiae, divido tutto *la mettono al rogo*);
Trappist-1? Sibun? Il primo è il sistema da poco scoperto dalla Nasa, ed è formato da sette/otto pianeti, se non sbaglio. Ho deciso di scegliere il pianeta sette (PERCHE’ SETTE E’ LA MISURA MASSIMA DI QUALSIASI COSAH!), citando comunque gli altri due pianeti che gli scienziati hanno individuato come simili alla conformazione terrestre. Sibun, in gotico, significa sette :’)
Che cosa è la tempesta rossa? È la piaga? Se non avete visto Interstellar, queste due cose prendono spunto da questo film. Dura quasi tre ore, ma dopo che mio padre me l’ha fatto scoprire, mi si è aperto un mondo. Sulla Terra, si è abbattuta questa piaga, che distrugge ogni cosa poiché si nutre d’ossigeno, e ci sono frequenti tempeste di sabbia. Nella mia storia, sono leggermente più devastanti;
Come funziona la questione delle gare? Sono come delle normalissime gare di Formula1, solo con le navicelle spaziali fighe :’D I vari ruoli che cito associati ai personaggi prendono spunto proprio dai ruoli che le varie persone occupano all’interno della scuderia Ferrari. Prometto che farò un documento Word in cui scriverò i ruoli dei personaggi e lo posterò su Twitter, appena avrò tempo... *pensa agli esami e si dondola sulla sedia*;
Come funziona la questione dell’Archivio? Perché proprio le Piramidi? Su Sibun la scienza conta più di qualsiasi altra cosa. Sono organizzatissimi, per cui tendono a conservare qualsiasi cosa. Il Consiglio, beh, è un po’ come la nostra sede del Parlamento. Per quanto riguarda le Piramidi… si tratta di un possibile indizio :’)
Che cosa è la Sindrome dell’Astronauta? Si capirà con lo scorrere dei capitoli, ma avrete ben capito che funziona come una sorta di legame tra due soulmate. Intanto, vi lascio dire che prende spunto da questa canzone <3
Qualche riferimento? Cnosso e Festo prendono spunto dai palazzi minoici: oltre ad essere sede del sovrano, venivano anche conservati gli approvvigionamenti. Scusatemi, ma Storia Greca si è impossessata di me. Giunone, ovviamente, è la divinità protettrice delle donne partorienti per gli antichi greci, di conseguenza mi sembrava adatto per il computer del Catalogo. Beemo è… beh, conoscete Adventure Time? No? È questo robot qui. Asimo è un prototipo di robot umanoide inventato dai giapponesi. Ignis, invece, prende spunto dalla parola fuoco, proprio perché era un pianeta con una temperatura altissima;
Ho detto tutto? Per adesso sì. Fatemi sapere che cosa ne pensate dei miei OC e della caratterizzazione dei personaggi! Qualsiasi commento costruttivo è ben accetto! <3
Ci si vede, pirati spaziali! ;)
*parte la canzone di Capitan Harlock a caso*
_Lady di inchiostro_
  
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