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Autore: Coffee_Time    31/03/2017    5 recensioni
Frank, semplicemente, non ha voglia di andare a quel matrimonio.
Non da solo.
[Dal testo]
«Allora, hm… voi state insieme?»
Gerard diventa un peperoncino, e prontamente risponde: «Non- No.»
Insieme. Oddio, siamo insieme, ma non stiamo insieme. Non- No. Proprio come ha detto Gerard.
«Cosa te l’ha fatto pensare?» gli chiedo io.
Ci guarda, guarda sia me sia Gerard nello stesso momento, come se fossimo un’unica cosa. Non so come ci riesca. «Sembrate una bella coppia.»
«…di amici.» puntualizza Gerard, valorizzando lo scetticismo con un sopracciglio espressivo.
«Chi può dirlo?» detto questo, ammicca e scompare tra i suoi cavi e fili.
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Un po' tutti | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono viva! Evviva!

Ho una buona notizia e una cattiva notizia.

Quella cattiva è che la storia che sto traducendo (Masterpiece) molto molto probabilmente verrà pubblicata in ritardo (parafrasato: non domani); la notizia buona è che per non lasciarvi a mani vuote (si dice così, no?) vi lascio l’ultimo capitolo di questa bella storia – che ho concluso ieri invece di finire di tradurre… l’ironia.

Poi, lo so, per chi si era affezionato anche la buona notizia sarà una cattiva notizia. Sento già i vostri pianti. I vostri struggenti pianti.

Va be’, la taglio qui. Ringrazio con tanto affetto la mia amica che ieri ha realmente pianto ed espresso strane fantasie quando ha letto in anteprima la storia, e in generali tutti quanti.

Mi sono divertita,
Coffee_Time

 

 

 

 

 

And I thought you might be mine
In a small world on an exceptionally rainy
Tuesday night
In the right place and time

Knee socks, Arctic Monkeys

 

 

 

Mi sfioro la guancia.
Dimentica tutto
.
Ma porca puttana, Gee, ho già dimenticato tutto ciò che non avrei dovuto dimenticare. Non posso dimenticare anche di averlo dimenticato, sarebbe troppo. Sarebbe come non averlo mai fatto. Come puoi chiedermi una cosa tanto idiota?
No, io lo voglio ricordare.
Però Gerard è già via.
Devo corrergli dietro? Con la macchina, magari. Però le chiavi sono in casa, non farei in tempo, non sono sicuro che stia andando a casa sua.
Che fare?
Non ho voglia di correre. È presto.
Hm, forse dovrei dormire. Sì, potrei dormire e poi vedere Gerard, e sperare che stia bene – sento un vuoto, dove c’è il cuore, una sensazione fugace che scompare subito. Non voglio che stia male.
Gli occhi iniziano a bruciare e la mia voglia di tenerli aperti piano piano scompare. Li serro, e appena li riapro cade solo una lacrima.
È davvero successo? Ci siamo baciati, e non me lo ricordo. Io e Gerard… Mi avvicino due dita alle labbra. Non può essere… Sfioro le mie labbra. Non succede nulla, sono normali, giusto un po’ secche per l’alcol e la dormita in macchina. Due labbra normali. E Gerard dice di averle baciate. E io non me lo ricordo.
Ma porca troia.
Devo dormire.

Quando apro gli occhi i colori della mia camera sono diversi dal solito, più gialli, come per effetto di un filtro. Sospiro, stare sotto le coperte è davvero confortevole, sono tiepide grazie al calore del mio stesso corpo.
La schiena aderisce al materasso, e dopo aver intrecciato le mani sulla pancia guardo in alto.
E mi sovviene che ieri io e Gerard ci siamo baciati, ma non mi ricordo un cazzo di come è successo. E questa mattina ha pianto, e l’ho lasciato andare.
Adesso mi vesto, mi preparo e vado da lui. Sì.
Vorrei solo sapere da quando le cose sono state così complicate; voglio dire, eravamo amici, stavamo bene insieme. E ora Gerard è lì a fare il criptico e piange e io sono qui con degli scarabocchi sul braccio. Forse dovrei lavarmi il braccio prima di andare da- no, dovrei fare la doccia, ho ancora i capelli pieni di materiali organici. Anzi, meglio, vado da Gerard così. Chissenefrega, no?
Proprio così, chissenefrega.
Rotolo giù dal letto, ma il pensiero di poter finalmente chiarire una questione che con il sonno ho provato ad evitare mi mette una strana fretta e mi precipito in bagno.
Mi scrollo i capelli velocemente, con una rapida occhiata allo specchio che mi è di fronte decido che non è fondamentale pettinarli. Però mi devo lavare la faccia, e i denti.
Dopo essermi lavato mi tolgo la maglietta, e corro in camera, dove ne afferro una a caso e mentre la sto ancora infilando mi metto i jeans, poi salto nelle scarpe e dove cazzo sono le chiavi della macchina? Cazzo. Alzo la testa e scannerizzo la stanza e- ha iniziato a piovere. Cazzo. Dal nulla, giuro.
Prendo una felpa, guardo per terra e vedo delle chiavi, sono quelle di casa. Bene, mi serviranno. Le metto in tasca poi continuo la ricerca. Dovrebbero essere in cucina.
Come previsto sono vicino ai fornelli, le prendo e metto una mano in tasca sperando ci sia il portafoglio. C’è. Benissimo, esco e mentre esco prendo l’ombrello abbandonato a fianco allo zerbino, infine chiudo la porta.
Poi inizio a correre, giù per le scale, arrivato in strada continuo a correre e sento la pioggia che mi sbatte addosso, usare l’ombrello risulterebbe utile, perciò lo apro.
Il ticchettio costante mi rilassa, e rallento il passo – è da tanto che corro. Inspiro, espiro.
Non so bene cosa stia facendo, cosa voglia dire a Gerard, cosa abbia provato nelle ore passate e, accidenti a me, non ho idea di cosa sia successo di preciso ieri. A pensarci bene, l’unica cosa di cui possa ritenermi certo è che ho uno strano bisogno di parlare con lui, e per questo aumento la frequenza dei miei passi.
Riconosco un semaforo – casa di Gerard è poco lontana da qui.
Merda, la macchina. Ho le chiavi della macchina, ma non ho preso la macchina, sono un cretino. Mi giro e constato che la macchina è ormai parecchio lontana, della serie che neanche la vedo. E a dirla tutta non ricordo neanche dove l’ho parcheggiata. Mi rigiro e corro un po’.
Sto evitando di pensare a Gerard, e ogni volta che mi balena in testa o mi accorgo di essergli sempre più vicino, il mio cuore sparisce per una frazione di secondo.
Che abbia anche lui deciso di dormire?
Le strade sono pressoché vuote, ci sono un po’ di persone con ombrelli, altre che corrono. Noto una signora, davanti a me, che prova a pararsi con una borsa in modo un po’ goffo, e da quella posizione goffa ne deriva un’andatura leggermente impacciata. Sembra in difficoltà.
Mi avvicino alla signora, anche perché è molto più lenta di me e stiamo andando nella stessa direzione, prima o poi l’avrei raggiunta. «Buon giorno, ha bisogno di aiuto?»
Si gira e mi guarda per un secondo, gli occhi socchiusi. Intanto ho già provveduto a coprirla con l’ombrello.
«Che giovanotto gentile, grazie mille.» Dice, e inizia il nostro viaggio.
Parla, parla dei suoi figli e di suo marito, che secondo le sue parole ha occhi simili ai miei. In pratica, in un minuto è riuscita a raccontarmi la storia del suo matrimonio. E abbiamo fatto più o meno dieci metri. Cazzo.
Non arriverò mai a casa di Gerard. E poi dove deve andare questa signora?
Devo scappare, devo- «Mi scusi, devo assolutamente andare. Si può tenere l’ombrello, signora…»
«Meredith.» Risponde lei.
Annuisco, e le abbandono l’ombrello tra le mani. «Ciao Meredith, io sono Frank, tenga l’ombrello, non si preoccupi. E buona giornata.» Ormai sono sotto la pioggia, e Meredith mi guarda confusa. Velocizzo il passo e mi metto il cappuccio.
Alle mie spalle sento dire: «Grazie mille giovanotto!»
Ormai sono lontano, e alle mie spalle urlo: «Si figuri! Mi saluti Will!» sperando che mi senta oltre allo scroscio dell’acqua. Poi corro via.
Continuo a correre, sempre più freddo, bagnato, e con sempre più impazienza. Sento che l’acqua sta attraversando la felpa e mi sta bagnando anche i capelli, ma allo stesso momento mi sento quasi incorporeo; è strano da spiegare, e da provare in prima persona.
Sono vicino. Solo cento, forse trecento metri.
Al rumore della pioggia si aggiungono i miei passi che fanno guizzare l’acqua che è in strada o sui marciapiedi. Il piede destro è il più freddo, ma non mi interessa. Devo andare da Gerard e sapere che sta bene, semplicemente. È tutto quello che ora importa.
Rallento, recupero un po’ di fiato e torno a correre, forse più veloce di prima – oppure così è quello che voglio credere.
Vedo la sua porta, mi ci fermo davanti e suono il campanello vicino al nome dei fratelli Way. Il bip prolungato mi ricorda la mia incessante fuga dal temp- «Sì?»
È sveglio.
«Ger-Gerard… posso venire s-su?» Cavolo, non mi ero accorto di avere freddo.
Silenzio.
Poi il suono del segnale elettrico che mi concede di accedere alla sua dimora.
Le scale non le faccio correndo, non proprio. Diciamo di fretta, ma senza palesarlo troppo. Quando arrivo al piano del suo appartamento noto una porta socchiusa, quindi la apro e mi ci infilo dentro.
Gerard è qui, di fronte a me. Sguardo basso, una mano sul braccio e un braccio lasciato cadere. Mi scaglio contro di lui e lo cingo in un abbraccio particolarmente sentito. Lui è mio amico, non deve soffrire. E soprattutto, non per un bacio.
«Gee… Non devi piangere.» Gli sussurro, dopo qualche ora, anche se ora non sta piangendo. Mi abbraccia anche lui, annuisce – penso – mentre io continuo a cercare il suo orecchio per parlargli. «Hai bevuto un altro caffè?» Annuisce di nuovo.
Sussurra il mio nome, e io posso solo stringerlo un po’ di più.
«Scusa.» Dice, staccandosi e guardandomi negli occhi con il coraggio che a me manca. Sì, ecco, sono ancora in imbarazzo per il fatto di non ricordarmi gli avvenimenti di ieri… be’, il bacio. E poi chi vorrebbe baciare qualcuno che si dimentica così facilmente cose tanto importanti?
Non mi rimane che parlare con il pavimento: «No, sei tu che mi devi perdonare…»
Lo guardo meno di un attimo, è molto vicino, stranamente serio, e per una volta non ha i capelli a coprirgli quasi del tutto la testa – motivo per cui i nostri sguardi si sono incrociati, per quel corto attimo. «Gee, dimmi… Quindi, ieri ti sei divertito? Cioè, cos’è- Quando ci-» Mi interrompo. Cosa gli voglio chiedere? Se è stato un bel bacio? Se vuole riviverlo? Voleva solo portarmi a letto ma ci ha rinunciato perché ero troppo ubriaco e sarebbe stato eticamente scorretto? Se si è sbagliato? O chi ha iniziato?
«Ho passato una serata magnifica, sì, grazie. Volevo dirti che mi dispiace di essere scappato, prima, dal nulla.»
«Non preoccuparti, ci sei solo rimasto male perché probabilmente mi avevi sopravvalutato… Forse non credevi potessi essere tanto cretino.»
Seriamente, Frank, la prossima volta che tocchi qualcosa di alcolico ricordati di non fare cose rilavanti, come, ad esempio, baciare Gerard. Che cazzo, cos’hai in testa? Magari è stato lui… Allora avresti dovuto avvertirlo.
Che palle.
Mi poggia una mano sulla spalla. «Non sei cretino. Più che altro avrei voluto parlarne e poi… mi dispiace che tu non abbia un ricordo così, insomma per me è stato bello» noto uno spasmo, quasi un sorriso «e scommetto che non ti ricordi neanche della ragazza che ha vomitato di fronte a Mikey.»
Scoppio a ridere, ma in effetti non ricordo nulla del genere.
«No, non ricordo nulla del genere. Ti va di raccontarmi ciò che mi sono perso?» L’atmosfera adesso è notevolmente migliorata, questione di un paio di secondi. E Gerard alza le spalle, si siede sul divano e lo seguo. E mi racconta di Bob, che gli ha puntato una torcia quasi al cervello, delle infinite partite e delle persone che man mano si aggiungevano e aiutavano Mikey a barare, di Ray che ha improvvisato una canzone sulla piega degenerata che aveva preso la festa e di me che sono corso ad abbracciarlo perché, a quanto pare, suonava molto bene. Scopro che la ragazza che ha vomitato in faccia a Mikey è stata poi accompagnata a casa da Ray, e che quando tutti gli invitati hanno iniziato ad andarsene io ero fermamente convinto di voler rimanere a dormire sul prato.
Poi si interrompe e guarda nel vuoto. Si gira verso di me e mi fissa qualche attimo, contemplativo.
E cambia argomento: «Sai, Frank… Non sono ancora abituato a questa storia del bacio- cioè, al fatto che tu non te lo ricordi- è che, non so come continuerà il nostro rapporto, se sarà meglio che lo dimentichi anch’io, se per te non è stato importante… O se-»
Spalanco gli occhi, e gli fermo le braccia perché ha iniziato a gesticolare quasi convulsamente e a spostarsi i capelli dal viso ogni tre secondi. «Gee, no, lo è stato… Immagino. Insomma me lo sono scritto sul braccio. Vedi? Quando sono ubriaco sarò anche ubriaco, ma non stupido. Sapevo di dovermene ricordare e l'ho scritto, significa che per me era importante. Vedi?» Mi scopro il braccio e glielo mostro per bene, lui lo sfiora e ad ogni lettera che traccia con il polpastrello il sorriso diventa più evidente sul suo viso. Sento gli occhi inumidirsi. «Mi dispiace un casino, vorrei ricordarmi tutto anch’io.»
Cosa fare? Lo bacerei anche adesso, ma non penso sarebbe giusto.
Allora lo guardo, gli rimetto le mani sulle braccia anche se non c’è bisogno di fermarlo, mi lascio cadere verso di lui e cingo il suo corpo. Adesso vedo solo il suo collo e molti dei suoi capelli, che gli coprono l’orecchio.
«Gee, che ne dici di uscire? Non dico di dimenticare cos'è successo, o che è successo, solo... potremmo andare avanti. Ti va di uscire con me? Tipo, un appuntamento non da amici. Se vuoi ti passo a prendere io e ti regalo dei fiori, anche. O cioccolatini, accendini. Che ne dici Gee, vuoi uscire con me?»
Mi sento più compresso dalle sue braccia, e un sussurro mi dice: «Certo, Frankie… Ti ringrazio così tanto.»
«Per…ché?» Siamo ancora coinvolti nello stesso abbraccio, ma molto più rilassati. Come se ci stessimo appoggiando l’uno all’altro.
«Di preciso non so per cosa, ma solo la tua presenza è straordinariamente rassicurante. Rimanimi accanto.»
Sento qualcosa di caldo che mi inonda le viscere e sorrido, con gli occhi, le labbra, e tutto me stesso. Noi due siamo estremamente simili, è quello che mi sta dicendo e confermando. E non sta mentendo. Non può.
«Dammi uno schiaffo Gee, per favore.» Gli domando.
Si spinge via, e allarmato e confuso cerca l’ironia nei miei occhi; solo che in questo momento non la può trovare, sono completamente serio. Voglio che mi dia uno schiaffo, per essermi permesso di creare un ricordo che non potrò rivivere e condividere con lui.
«Sei serio? E perché dovrei?»
«Perché me lo merito. Per essere stato così stupidamente incauto da aver creato un ricordo che non potrò più condividere con te, che tu sarai costretto a tenere per te. E per averti fatto stare male questa mattina.»
Sorride, divertito. «Non essere sciocco… Non è colpa di nessuno.» Sospira «Però so che sei testardo, quindi ti accontenterò o mi farai perdere la testa.»
Quest’ultima affermazione mi sorprende, però gli do ragione. Lo guardo, in attesa.
Alza la mano destra e me la porta sulla guancia, colpendola piano, producendo un suono leggerissimo, poi mi fa una carezza.
Sbuffo.
«Ho capito, mi schiaffeggerò da solo a casa.» Dopotutto anche lui è un gran testardo. Per dargliela parzialmente vinta accenno ad un piccolo broncio.
Continua a sorridere e ad accarezzarmi, si ferma e aiutandosi con la mano fa in modo che le nostre fronti si tocchino. Fa anche in modo che i nostri nasi si sfiorino. I suoi occhi sono vicinissimi ai miei e sono chiusi, mi balena in mente un’immagine simile, meno luminosa… Una specie di déjà-vu. Vogliamo baciarci entrambi. Io forse più di lui, perché per me è come il primo, qualcosa di nuovo, l’essere umano è curioso per natura; oppure lui più di me, perché l’ha già provato e non vede l’ora di riviverlo.
La situazione è statica. Il sangue mi circola in corpo impazzito, e non vedo niente ma sento cose che non credo di aver mai sentito. Inclino un po’ la testa per avvicinare le labbra, ma il tempo di arrivare a sfiorare le sue e mi stacco.
Con lentezza mi allontano.
Non qui, non così.
Mi guarda con una confusione tale, un dispiacere, tutto in un misero secondo di occhi spalancati; si ravvede, annuisce con un leggero cenno. Poi sorride, perché ha capito.
Intanto, il mio cuore si rifiuta di placarsi.

 

 

΅΅΅

 

L’ho invitato a casa mia, non so per quale cazzo di motivo, però.
Merda.
Cazzo.
Perché.
Ho, diciamo, ancora un’ora e quaranta minuti per rendere me e il mio appartamento presentabili. Le cose stanno così. Ho faticosamente percorso centinaia di scivolosi metri per arrivare alla macchina, ho trovato il primo alimentari aperto, sono tornato in casa e abbandonato la spesa sul tavolo. E dopo due ore passate a lanciare vestiti nell’armadio, impilare libri e, in generale, fare il necessario per permettere a qualsiasi turista di vedere pavimenti e pareti delle stanze posso guardarmi intorno rassicurato. Sono riuscito a far trasparire una parvenza di vita civilizzata.
Quindi, ricapitolando, mi rimane da spazzare, preparare la pasta che ho promesso a Gerard, togliermi questi vestiti lerci e, finalmente, farmi la doccia.
Corro in bagno, mi svesto e getto tutto in terra. Sarà divertente pulire il pavimento.
Mentre mi lavo l’acqua arriva allo scarico marrone, poi scende solo schiuma, infine acqua quasi limpida.
Esco. Arriverà Mussolini a bonificarmi la doccia. La doccia e il bagno, ci sono ancora le zolle che mi sono tolto dai capelli e adesso ci sto perdendo sopra molta acqua. Potrei chiudere il bagno a chiave e dire che è fuori servizio, per evitare di pulirlo. È un peccato a volte non essere un Walmart.
Mi avvio in cucina, prendendo sul serio la mia ultima proposta.
Automaticamente tiro fuori una pentola e la riempio d’acqua, come mi hanno insegnato i miei orgogliosi parenti; sostengono di saper cucinare la pasta come la fanno gli italiani, io prendo per buona la loro parola.
Metto il tagliere sul tavolo.
Fisso il legno. Gerard. Le mani, appoggiate al piano, si irrigidiscono e impallidiscono. Che accadrà? Non voglio che il clima tra noi cambi, mi sono sempre sentito inspiegabilmente a mio agio in sua presenza.
Mi ritrovo con un coltello in mano, a tagliare cibo. È indecente. Cadere in uno stato confusionale tanto profondo solo perché Gerard sta per arrivare, e probabilmente mi toccherà parlare di cosa io abbia voglia di fare, di cosa vuole lui, quindi del futuro, è indecente. Indecente, cavolo.
Come se non bastasse non ho cloroformio, nessun piano B.
Buttarsi dalla finestra potrebbe essere un piano B interessante.
Mi serve un piano C, meno rischioso del B. E l’A quale sarebbe? Resistere? Andata.
Allora il piano C sarà urlare fino alla porta, uscire e correre giù urlando, arrivare in strada e urlare, con le mani tra i capelli.
L’addome reclama attenzioni, fa finta di scomparire, si nasconde, il pensiero che probabilmente ci baceremo mi disorienta.
Intanto continuo a preparare la cena, immerso in me stesso; dalla padella mi raggiungono promettenti crepitii.
Me lo immagino già, dietro alla porta, con il suo bel sorrisino, la bocca che asimmetrica mi chiede di entrare, e le sue mani che non sanno dove stare e si consumano a vicenda e- ahia!
Sangue, bruciore. Mi sono tagliato.
Accidenti alla mia testa fluttuante. Mi lecco via un po’ di sangue dall’indice, ma sembra voler fuggire dal mio corpo e glielo impedisco con un primo rudimentale bendaggio fatto con un tovagliolo.
Una volta in bagno, apro la cassetta di pronto soccorso – un simpatico regalo donatomi dai miei genitori, che effettivamente è nella lista delle cinque cose più utili in casa mia – e pesco un buffo cerotto verde fosforescente con disegni casuali di animali. Mi bagno il dito, lo asciugo poco accuratamente con il tovagliolo, che poi lascio cadere per terra, tanto devo ancora pulire – merda – e ci appiccico il cerotto.
Dicono che le prime impressioni siano importanti. Per fortuna mi conosce.

Ha qualcosa in mano; un regalo.
Un regalo?!
Cazzo, mi ero dimenticato del dettaglio appuntamento. È un appuntamento, un fottuto appuntamento. Con Gerard. Oddio.
Ha del vino. Del vino! Vuole portarmi a letto, ecco, cazzo.
Nel mio letto, poi! Che cosa poco galante.
Povero me.
Non mi vuole bene, vuole il mio corpo.
Frank, svegliati, reagisci! Ti sei incantato come al solito.
«Ehi Gee! Ciao. » Sto sorridendo. La bottiglia, Frank. Nei film fanno così, no? Prendono la bottiglia e la appoggiano sul tavolo e poi la bevono e si ubriacano e scopano. Io però non sono in un film. Prendo la bottiglia. «Non importava prendere il vino, anch’io ho da bere. Però grazie.»
Gerard struscia i piedi sullo zerbino, con il suo sorriso storto e tutto il resto. «Lo so, ma Mikey l’ha definito un “obbligo sociale”, mi pare. E sono sicuro che ti piacerà, è una delle bottiglie che era al matrimonio.»
«Cazzo, hai ragione.» La prendo per esaminarla, ma l’istinto mi ferma a metà. Ho troppa voglia di aprirla. «Vieni Gee, metti la giacca dove vuoi.» Mi guardo intorno, mentre gli faccio strada. Per poco non vedo i brilluccichii da cartone animato, questo appartamento non è mai stato tanto pulito.
In cucina, accendo il fuoco sotto alla pentola dell’acqua e cerco il cavatappi. Gerard mi sta osservando dall’altra parte della stanza, sorriso nello sguardo, mano una nell’altra, il solito dolce Gee.
Apro il cassetto e tiro fuori il cavatappi rubato a mio padre, il finto metallo si oppone, fa qualche verso, e appena libero il collo della bottiglia dispiego i gingilli del cavatappi, infilo, ruoto, ottengo il tappo e uno schiocco. Assaggio il vino. Come un barbone, sì, dalla bottiglia.
È davvero buono, e mi ricorda il prato di ieri.
Verso questo strano succo nei bicchieri, abituati a bevande gasate e acqua del rubinetto. Non ho proprio dei calici da vino. Non ho neanche dei calici, figuriamoci.
Lui ha già raggiunto me e i bicchieri, e ne prende uno.
Brindiamo ai prati, all’ombra, agli gnomi, ai nostri sorrisi; brindiamo ai tombini dove finiscono le illusioni quando si rompono, al caffè, al caso, alle nuvole rosse e agli abbagli del sole, brindiamo alla solitudine, brindiamo alla salvezza, e alla speranza.
Lui dice: «Alla vita?»
Io alzo le spalle, avvicino il bicchiere, e un leggero tin suggella il tutto.
Mi sento come quel tin, quando sono con Gerard.

Ha apprezzato molto la mia pasta, come mi aspettavo. Nei piatti non è rimasto nulla, la bottiglia invece è piena fino a poco sotto la metà. Non c’è fretta.
E poi cazzo quel vino è buonissimo, bisogna preservarlo un minimo.
«Ti va una sigaretta?» Mi chiede, con già l’accendino in mano.
Con questa sua agilità nel tirare fuori oggetti infiammanti forse mi converrebbe tornare alle mie vecchie teorie che lo vedevano piromane. Ma forse no.
«Cazzo, sì. Tu vai di là, io di solito fumo davanti alla finestra perché è grande e ha una vista decente. Io metto in ordine qui, ma ci metto poco.»
«Allora ti aspetto. Anzi no, vuoi che ti aiuti?»
«Ma scherzi? Vai di là a vedere quanto mi sono impegnato per pulire, e non essere ridicolo. Puoi anche iniziare a fumare.»
«Sicuro?»
Alzo fintamente scocciato gli occhi al cielo, lo sento ridacchiare. Si alza, mi accarezza i capelli ed esce. Io inclino un po’ la sedia e mi guardo la pancia soddisfatto. Mi alzo e metto tutto nel lavandino. Adesso con il cazzo che mi metto a lavare i piatti.
Prendo la bottiglia, che tanto la finiremo oggi.
Ha l’etichetta rovinata, un po’ a sinistra del nome del vino, curioso; la tocco, ci sono delle linee- la avvicino. Quelle sono delle lettere, porco cane.
La avvicino ancora.
F + G
La G sembra più una mezza picca, ma è una G. Sorrido. Non le avevo notate… Mi chiedo se sia stato Gerard o quello strambo di suo fratello. Chiunque l’abbia fatto, comunque, non mi interessa, non è importante. Ormai tanto è palese che siamo interessati uno all’altro, la cena è stata un lungo flirt.
È appoggiato al davanzale. Il cielo nero, inquinato dalle luci della città, è deturpato dal fumo.
Gli arrivo accanto, appoggio la bottiglia davanti a me, lui continua come se non si fosse accorto di niente.
Gli chiedo una sigaretta senza parlare, perché qui le luci di casa mia non servono, solo dalla cucina arriva un bagliore che ci tocca i piedi, e questo è uno di quei momenti da vivere in silenzio. Questo è uno di quei momenti in cui sarebbe ideale baciarsi, anche.
Mi passa la sigaretta, me l’accende lui, io mi fisso qualche attimo in quegli occhi perfetti.
Aspiro, sputo il fumo, chiudo gli occhi, appoggiato al davanzale.
In questo istante non esiste niente. C’è Gerard, ci sono io, c’è la città, e da qualche parte anche tutto il mondo, c’è la mia casa e del passato c’è solo quello che voglio salvare. Il futuro non esiste, non importa.
Il passato mi permea.
Sento un peso sulla spalla, Gerard che finisce la sigaretta.
Il peso scompare, invece di aspirare mi giro, con la mani sul davanzale. Mi raddrizzo di poco.
Si avvicina, la bocca vicina alla mia, io immobile, e contrae lentamente il diaframma. Schiudo la bocca, accolgo lo schifo che dalla sigaretta è arrivato ai suoi polmoni, il catrame e la nicotina evaporati, il tempo di raccoglierli che li sto subito esalando via, mentre mi avvicino a lui.
E così, avvolti dal fumo ci baciamo per la prima volta.

  
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