Sono viva! Evviva!
Ho una buona notizia e una cattiva notizia.
Quella cattiva è che la storia che sto traducendo
(Masterpiece) molto molto probabilmente verrà pubblicata in ritardo
(parafrasato: non domani); la notizia buona è che per non lasciarvi a mani
vuote (si dice così, no?) vi lascio l’ultimo capitolo di questa bella storia –
che ho concluso ieri invece di finire di tradurre… l’ironia.
Poi, lo so, per chi si era affezionato anche la
buona notizia sarà una cattiva notizia. Sento già i vostri pianti. I vostri
struggenti pianti.
Va be’, la taglio qui. Ringrazio con tanto affetto
la mia amica che ieri ha realmente pianto ed espresso strane fantasie quando ha
letto in anteprima la storia, e in generali tutti quanti.
Mi sono
divertita,
Coffee_Time
And I
thought you might be mine
In a small world on an exceptionally rainy
Tuesday night
In the right place and time
Knee socks, Arctic Monkeys
Mi sfioro la guancia.
Dimentica tutto.
Ma porca puttana, Gee, ho già dimenticato tutto ciò che non avrei dovuto dimenticare.
Non posso dimenticare anche di averlo dimenticato, sarebbe troppo. Sarebbe come
non averlo mai fatto. Come puoi chiedermi una cosa tanto idiota?
No, io lo voglio ricordare.
Però Gerard è già via.
Devo corrergli dietro? Con la macchina, magari. Però le chiavi sono in casa,
non farei in tempo, non sono sicuro che stia andando a casa sua.
Che fare?
Non ho voglia di correre. È presto.
Hm, forse dovrei dormire. Sì, potrei dormire e poi vedere Gerard, e sperare che
stia bene – sento un vuoto, dove c’è il cuore, una sensazione fugace che
scompare subito. Non voglio che stia male.
Gli occhi iniziano a bruciare e la mia voglia di tenerli aperti piano piano
scompare. Li serro, e appena li riapro cade solo una lacrima.
È davvero successo? Ci siamo baciati, e non me lo ricordo. Io e Gerard… Mi
avvicino due dita alle labbra. Non può essere… Sfioro le mie labbra. Non
succede nulla, sono normali, giusto un po’ secche per l’alcol e la dormita in
macchina. Due labbra normali. E Gerard dice di averle baciate. E io non me lo
ricordo.
Ma porca troia.
Devo dormire.
Quando apro gli occhi i colori
della mia camera sono diversi dal solito, più gialli, come per effetto di un
filtro. Sospiro, stare sotto le coperte è davvero confortevole, sono tiepide
grazie al calore del mio stesso corpo.
La schiena aderisce al materasso, e dopo aver intrecciato le mani sulla pancia
guardo in alto.
E mi sovviene che ieri io e Gerard ci siamo baciati, ma non mi ricordo un cazzo
di come è successo. E questa mattina ha pianto, e l’ho lasciato andare.
Adesso mi vesto, mi preparo e vado da lui. Sì.
Vorrei solo sapere da quando le cose sono state così complicate; voglio dire,
eravamo amici, stavamo bene insieme. E ora Gerard è lì a fare il criptico e
piange e io sono qui con degli scarabocchi sul braccio. Forse dovrei lavarmi il
braccio prima di andare da- no, dovrei fare la doccia, ho ancora i capelli
pieni di materiali organici. Anzi, meglio, vado da Gerard così. Chissenefrega,
no?
Proprio così, chissenefrega.
Rotolo giù dal letto, ma il pensiero di poter finalmente chiarire una questione
che con il sonno ho provato ad evitare mi mette una strana fretta e mi
precipito in bagno.
Mi scrollo i capelli velocemente, con una rapida occhiata allo specchio che mi
è di fronte decido che non è fondamentale pettinarli. Però mi devo lavare la
faccia, e i denti.
Dopo essermi lavato mi tolgo la maglietta, e corro in camera, dove ne afferro
una a caso e mentre la sto ancora infilando mi metto i jeans, poi salto nelle
scarpe e dove cazzo sono le chiavi della macchina? Cazzo. Alzo la testa e
scannerizzo la stanza e- ha iniziato a piovere. Cazzo. Dal nulla, giuro.
Prendo una felpa, guardo per terra e vedo delle chiavi, sono quelle di casa.
Bene, mi serviranno. Le metto in tasca poi continuo la ricerca. Dovrebbero essere
in cucina.
Come previsto sono vicino ai fornelli, le prendo e metto una mano in tasca
sperando ci sia il portafoglio. C’è. Benissimo, esco e mentre esco prendo
l’ombrello abbandonato a fianco allo zerbino, infine chiudo la porta.
Poi inizio a correre, giù per le scale, arrivato in strada continuo a correre e
sento la pioggia che mi sbatte addosso, usare l’ombrello risulterebbe utile,
perciò lo apro.
Il ticchettio costante mi rilassa, e rallento il passo – è da tanto che corro.
Inspiro, espiro.
Non so bene cosa stia facendo, cosa voglia dire a Gerard, cosa abbia provato
nelle ore passate e, accidenti a me, non ho idea di cosa sia successo di
preciso ieri. A pensarci bene, l’unica cosa di cui possa ritenermi certo è che
ho uno strano bisogno di parlare con lui, e per questo aumento la frequenza dei
miei passi.
Riconosco un semaforo – casa di Gerard è poco lontana da qui.
Merda, la macchina. Ho le chiavi della macchina, ma non ho preso la macchina,
sono un cretino. Mi giro e constato che la macchina è ormai parecchio lontana,
della serie che neanche la vedo. E a dirla tutta non ricordo neanche dove l’ho
parcheggiata. Mi rigiro e corro un po’.
Sto evitando di pensare a Gerard, e ogni volta che mi balena in testa o mi
accorgo di essergli sempre più vicino, il mio cuore sparisce per una frazione
di secondo.
Che abbia anche lui deciso di dormire?
Le strade sono pressoché vuote, ci sono un po’ di persone con ombrelli, altre
che corrono. Noto una signora, davanti a me, che prova a pararsi con una borsa
in modo un po’ goffo, e da quella posizione goffa ne deriva un’andatura
leggermente impacciata. Sembra in difficoltà.
Mi avvicino alla signora, anche perché è molto più lenta di me e stiamo andando
nella stessa direzione, prima o poi l’avrei raggiunta. «Buon giorno, ha bisogno
di aiuto?»
Si gira e mi guarda per un secondo, gli occhi socchiusi. Intanto ho già
provveduto a coprirla con l’ombrello.
«Che giovanotto gentile, grazie mille.» Dice, e inizia il nostro viaggio.
Parla, parla dei suoi figli e di suo marito, che secondo le sue parole ha occhi
simili ai miei. In pratica, in un minuto è riuscita a raccontarmi la storia del
suo matrimonio. E abbiamo fatto più o meno dieci metri. Cazzo.
Non arriverò mai a casa di Gerard. E poi dove deve andare questa signora?
Devo scappare, devo- «Mi scusi, devo assolutamente andare. Si può tenere
l’ombrello, signora…»
«Meredith.» Risponde lei.
Annuisco, e le abbandono l’ombrello tra le mani. «Ciao Meredith, io sono Frank,
tenga l’ombrello, non si preoccupi. E buona giornata.» Ormai sono sotto la
pioggia, e Meredith mi guarda confusa. Velocizzo il passo e mi metto il
cappuccio.
Alle mie spalle sento dire: «Grazie mille giovanotto!»
Ormai sono lontano, e alle mie spalle urlo: «Si figuri! Mi saluti Will!»
sperando che mi senta oltre allo scroscio dell’acqua. Poi corro via.
Continuo a correre, sempre più freddo, bagnato, e con sempre più impazienza.
Sento che l’acqua sta attraversando la felpa e mi sta bagnando anche i capelli,
ma allo stesso momento mi sento quasi incorporeo; è strano da spiegare, e da
provare in prima persona.
Sono vicino. Solo cento, forse trecento metri.
Al rumore della pioggia si aggiungono i miei passi che fanno guizzare l’acqua
che è in strada o sui marciapiedi. Il piede destro è il più freddo, ma non mi
interessa. Devo andare da Gerard e sapere che sta bene, semplicemente. È tutto
quello che ora importa.
Rallento, recupero un po’ di fiato e torno a correre, forse più veloce di prima
– oppure così è quello che voglio credere.
Vedo la sua porta, mi ci fermo davanti e suono il campanello vicino al nome dei
fratelli Way. Il bip prolungato mi ricorda la mia incessante fuga dal temp-
«Sì?»
È sveglio.
«Ger-Gerard… posso venire s-su?» Cavolo, non mi ero accorto di avere freddo.
Silenzio.
Poi il suono del segnale elettrico che mi concede di accedere alla sua dimora.
Le scale non le faccio correndo, non proprio. Diciamo di fretta, ma senza
palesarlo troppo. Quando arrivo al piano del suo appartamento noto una porta
socchiusa, quindi la apro e mi ci infilo dentro.
Gerard è qui, di fronte a me. Sguardo basso, una mano sul braccio e un braccio
lasciato cadere. Mi scaglio contro di lui e lo cingo in un abbraccio
particolarmente sentito. Lui è mio amico, non deve soffrire. E soprattutto, non
per un bacio.
«Gee… Non devi piangere.» Gli sussurro, dopo qualche ora, anche se ora non sta
piangendo. Mi abbraccia anche lui, annuisce – penso – mentre io continuo a
cercare il suo orecchio per parlargli. «Hai bevuto un altro caffè?» Annuisce di
nuovo.
Sussurra il mio nome, e io posso solo stringerlo un po’ di più.
«Scusa.» Dice, staccandosi e guardandomi negli occhi con il coraggio che a me
manca. Sì, ecco, sono ancora in imbarazzo per il fatto di non ricordarmi gli
avvenimenti di ieri… be’, il bacio. E poi chi vorrebbe baciare qualcuno che si
dimentica così facilmente cose tanto importanti?
Non mi rimane che parlare con il pavimento: «No, sei tu che mi devi perdonare…»
Lo guardo meno di un attimo, è molto vicino, stranamente serio, e per una volta
non ha i capelli a coprirgli quasi del tutto la testa – motivo per cui i nostri
sguardi si sono incrociati, per quel corto attimo. «Gee, dimmi… Quindi, ieri ti
sei divertito? Cioè, cos’è- Quando ci-» Mi interrompo. Cosa gli voglio
chiedere? Se è stato un bel bacio? Se vuole riviverlo? Voleva solo portarmi a
letto ma ci ha rinunciato perché ero troppo ubriaco e sarebbe stato eticamente
scorretto? Se si è sbagliato? O chi ha iniziato?
«Ho passato una serata magnifica, sì, grazie. Volevo dirti che mi dispiace di
essere scappato, prima, dal nulla.»
«Non preoccuparti, ci sei solo rimasto male perché probabilmente mi avevi
sopravvalutato… Forse non credevi potessi essere tanto cretino.»
Seriamente, Frank, la prossima volta che tocchi qualcosa di alcolico
ricordati di non fare cose rilavanti, come, ad esempio, baciare Gerard.
Che cazzo, cos’hai in testa? Magari è stato lui… Allora avresti dovuto
avvertirlo.
Che palle.
Mi poggia una mano sulla spalla. «Non sei cretino. Più che altro avrei voluto
parlarne e poi… mi dispiace che tu non abbia un ricordo così, insomma per me è
stato bello» noto uno spasmo, quasi un sorriso «e scommetto che non ti ricordi
neanche della ragazza che ha vomitato di fronte a Mikey.»
Scoppio a ridere, ma in effetti non ricordo nulla del genere.
«No, non ricordo nulla del genere. Ti va di raccontarmi ciò che mi sono perso?»
L’atmosfera adesso è notevolmente migliorata, questione di un paio di secondi.
E Gerard alza le spalle, si siede sul divano e lo seguo. E mi racconta di Bob,
che gli ha puntato una torcia quasi al cervello, delle infinite partite e delle
persone che man mano si aggiungevano e aiutavano Mikey a barare, di Ray che ha
improvvisato una canzone sulla piega degenerata che aveva preso la festa e di
me che sono corso ad abbracciarlo perché, a quanto pare, suonava molto bene.
Scopro che la ragazza che ha vomitato in faccia a Mikey è stata poi
accompagnata a casa da Ray, e che quando tutti gli invitati hanno iniziato ad
andarsene io ero fermamente convinto di voler rimanere a dormire sul prato.
Poi si interrompe e guarda nel vuoto. Si gira verso di me e mi fissa qualche
attimo, contemplativo.
E cambia argomento: «Sai, Frank… Non sono ancora abituato a questa storia del
bacio- cioè, al fatto che tu non te lo ricordi- è che, non so come continuerà
il nostro rapporto, se sarà meglio che lo dimentichi anch’io, se per te non è
stato importante… O se-»
Spalanco gli occhi, e gli fermo le braccia perché ha iniziato a gesticolare
quasi convulsamente e a spostarsi i capelli dal viso ogni tre secondi. «Gee,
no, lo è stato… Immagino. Insomma me lo sono scritto sul braccio. Vedi? Quando
sono ubriaco sarò anche ubriaco, ma non stupido. Sapevo di dovermene ricordare
e l'ho scritto, significa che per me era importante. Vedi?» Mi scopro il
braccio e glielo mostro per bene, lui lo sfiora e ad ogni lettera che traccia
con il polpastrello il sorriso diventa più evidente sul suo viso. Sento gli
occhi inumidirsi. «Mi dispiace un casino, vorrei ricordarmi tutto anch’io.»
Cosa fare? Lo bacerei anche adesso, ma non penso sarebbe giusto.
Allora lo guardo, gli rimetto le mani sulle braccia anche se non c’è bisogno di
fermarlo, mi lascio cadere verso di lui e cingo il suo corpo. Adesso vedo solo
il suo collo e molti dei suoi capelli, che gli coprono l’orecchio.
«Gee, che ne dici di uscire? Non dico di dimenticare cos'è successo, o che è
successo, solo... potremmo andare avanti. Ti va di uscire con me? Tipo, un
appuntamento non da amici. Se vuoi ti passo a prendere io e ti regalo dei
fiori, anche. O cioccolatini, accendini. Che ne dici Gee, vuoi uscire con me?»
Mi sento più compresso dalle sue braccia, e un sussurro mi dice: «Certo,
Frankie… Ti ringrazio così tanto.»
«Per…ché?» Siamo ancora coinvolti nello stesso abbraccio, ma molto più
rilassati. Come se ci stessimo appoggiando l’uno all’altro.
«Di preciso non so per cosa, ma solo la tua presenza è straordinariamente
rassicurante. Rimanimi accanto.»
Sento qualcosa di caldo che mi inonda le viscere e sorrido, con gli occhi, le
labbra, e tutto me stesso. Noi due siamo estremamente simili, è quello che mi
sta dicendo e confermando. E non sta mentendo. Non può.
«Dammi uno schiaffo Gee, per favore.» Gli domando.
Si spinge via, e allarmato e confuso cerca l’ironia nei miei occhi; solo che in
questo momento non la può trovare, sono completamente serio. Voglio che mi dia
uno schiaffo, per essermi permesso di creare un ricordo che non potrò rivivere
e condividere con lui.
«Sei serio? E perché dovrei?»
«Perché me lo merito. Per essere stato così stupidamente incauto da aver creato
un ricordo che non potrò più condividere con te, che tu sarai costretto a
tenere per te. E per averti fatto stare male questa mattina.»
Sorride, divertito. «Non essere sciocco… Non è colpa di nessuno.» Sospira «Però
so che sei testardo, quindi ti accontenterò o mi farai perdere la testa.»
Quest’ultima affermazione mi sorprende, però gli do ragione. Lo guardo, in
attesa.
Alza la mano destra e me la porta sulla guancia, colpendola piano, producendo
un suono leggerissimo, poi mi fa una carezza.
Sbuffo.
«Ho capito, mi schiaffeggerò da solo a casa.» Dopotutto anche lui è un gran
testardo. Per dargliela parzialmente vinta accenno ad un piccolo broncio.
Continua a sorridere e ad accarezzarmi, si ferma e aiutandosi con la mano fa in
modo che le nostre fronti si tocchino. Fa anche in modo che i nostri nasi si
sfiorino. I suoi occhi sono vicinissimi ai miei e sono chiusi, mi balena in
mente un’immagine simile, meno luminosa… Una specie di déjà-vu. Vogliamo
baciarci entrambi. Io forse più di lui, perché per me è come il primo, qualcosa
di nuovo, l’essere umano è curioso per natura; oppure lui più di me, perché
l’ha già provato e non vede l’ora di riviverlo.
La situazione è statica. Il sangue mi circola in corpo impazzito, e non vedo
niente ma sento cose che non credo di aver mai sentito. Inclino un po’ la testa
per avvicinare le labbra, ma il tempo di arrivare a sfiorare le sue e mi
stacco.
Con lentezza mi allontano.
Non qui, non così.
Mi guarda con una confusione tale, un dispiacere, tutto in un misero secondo di
occhi spalancati; si ravvede, annuisce con un leggero cenno. Poi sorride,
perché ha capito.
Intanto, il mio cuore si rifiuta di placarsi.
΅΅΅
L’ho invitato a casa mia, non
so per quale cazzo di motivo, però.
Merda.
Cazzo.
Perché.
Ho, diciamo, ancora un’ora e quaranta minuti per rendere me e il mio
appartamento presentabili. Le cose stanno così. Ho faticosamente percorso
centinaia di scivolosi metri per arrivare alla macchina, ho trovato il primo
alimentari aperto, sono tornato in casa e abbandonato la spesa sul tavolo. E
dopo due ore passate a lanciare vestiti nell’armadio, impilare libri e, in
generale, fare il necessario per permettere a qualsiasi turista di vedere
pavimenti e pareti delle stanze posso guardarmi intorno rassicurato. Sono
riuscito a far trasparire una parvenza di vita civilizzata.
Quindi, ricapitolando, mi rimane da spazzare, preparare la pasta che ho
promesso a Gerard, togliermi questi vestiti lerci e, finalmente, farmi la
doccia.
Corro in bagno, mi svesto e getto tutto in terra. Sarà divertente pulire il
pavimento.
Mentre mi lavo l’acqua arriva allo scarico marrone, poi scende solo schiuma,
infine acqua quasi limpida.
Esco. Arriverà Mussolini a bonificarmi la doccia. La doccia e il bagno, ci sono
ancora le zolle che mi sono tolto dai capelli e adesso ci sto perdendo sopra
molta acqua. Potrei chiudere il bagno a chiave e dire che è fuori servizio, per
evitare di pulirlo. È un peccato a volte non essere un Walmart.
Mi avvio in cucina, prendendo sul serio la mia ultima proposta.
Automaticamente tiro fuori una pentola e la riempio d’acqua, come mi hanno
insegnato i miei orgogliosi parenti; sostengono di saper cucinare la pasta come
la fanno gli italiani, io prendo per buona la loro parola.
Metto il tagliere sul tavolo.
Fisso il legno. Gerard. Le mani, appoggiate al piano, si irrigidiscono e
impallidiscono. Che accadrà? Non voglio che il clima tra noi cambi, mi sono
sempre sentito inspiegabilmente a mio agio in sua presenza.
Mi ritrovo con un coltello in mano, a tagliare cibo. È indecente. Cadere in uno
stato confusionale tanto profondo solo perché Gerard sta per arrivare, e
probabilmente mi toccherà parlare di cosa io abbia voglia di fare, di
cosa vuole lui, quindi del futuro, è indecente. Indecente, cavolo.
Come se non bastasse non ho cloroformio, nessun piano B.
Buttarsi dalla finestra potrebbe essere un piano B interessante.
Mi serve un piano C, meno rischioso del B. E l’A quale sarebbe? Resistere?
Andata.
Allora il piano C sarà urlare fino alla porta, uscire e correre giù urlando,
arrivare in strada e urlare, con le mani tra i capelli.
L’addome reclama attenzioni, fa finta di scomparire, si nasconde, il pensiero
che probabilmente ci baceremo mi disorienta.
Intanto continuo a preparare la cena, immerso in me stesso; dalla padella mi
raggiungono promettenti crepitii.
Me lo immagino già, dietro alla porta, con il suo bel sorrisino, la bocca che
asimmetrica mi chiede di entrare, e le sue mani che non sanno dove stare e si consumano
a vicenda e- ahia!
Sangue, bruciore. Mi sono tagliato.
Accidenti alla mia testa fluttuante. Mi lecco via un po’ di sangue dall’indice,
ma sembra voler fuggire dal mio corpo e glielo impedisco con un primo
rudimentale bendaggio fatto con un tovagliolo.
Una volta in bagno, apro la cassetta di pronto soccorso – un simpatico regalo
donatomi dai miei genitori, che effettivamente è nella lista delle cinque cose
più utili in casa mia – e pesco un buffo
cerotto verde fosforescente con disegni casuali di animali. Mi bagno il dito,
lo asciugo poco accuratamente con il tovagliolo, che poi lascio cadere per
terra, tanto devo ancora pulire – merda – e ci appiccico il cerotto.
Dicono che le prime impressioni siano importanti. Per fortuna mi conosce.
Ha qualcosa in mano; un regalo.
Un regalo?!
Cazzo, mi ero dimenticato del dettaglio appuntamento. È un appuntamento,
un fottuto appuntamento. Con Gerard. Oddio.
Ha del vino. Del vino! Vuole portarmi a letto, ecco, cazzo.
Nel mio letto, poi! Che cosa poco galante.
Povero me.
Non mi vuole bene, vuole il mio corpo.
Frank, svegliati, reagisci! Ti sei incantato come al solito.
«Ehi Gee! Ciao. » Sto sorridendo. La bottiglia, Frank. Nei film fanno così, no?
Prendono la bottiglia e la appoggiano sul tavolo e poi la bevono e si ubriacano
e scopano. Io però non sono in un film. Prendo la bottiglia. «Non importava
prendere il vino, anch’io ho da bere. Però grazie.»
Gerard struscia i piedi sullo zerbino, con il suo sorriso storto e tutto il
resto. «Lo so, ma Mikey l’ha definito un “obbligo sociale”, mi pare. E sono
sicuro che ti piacerà, è una delle bottiglie che era al matrimonio.»
«Cazzo, hai ragione.» La prendo per esaminarla, ma l’istinto mi ferma a metà.
Ho troppa voglia di aprirla. «Vieni Gee, metti la giacca dove vuoi.» Mi guardo
intorno, mentre gli faccio strada. Per poco non vedo i brilluccichii da cartone
animato, questo appartamento non è mai stato tanto pulito.
In cucina, accendo il fuoco sotto alla pentola dell’acqua e cerco il cavatappi.
Gerard mi sta osservando dall’altra parte della stanza, sorriso nello sguardo,
mano una nell’altra, il solito dolce Gee.
Apro il cassetto e tiro fuori il cavatappi rubato a mio padre, il finto metallo
si oppone, fa qualche verso, e appena libero il collo della bottiglia dispiego
i gingilli del cavatappi, infilo, ruoto, ottengo il tappo e uno schiocco.
Assaggio il vino. Come un barbone, sì, dalla bottiglia.
È davvero buono, e mi ricorda il prato di ieri.
Verso questo strano succo nei bicchieri, abituati a bevande gasate e acqua del
rubinetto. Non ho proprio dei calici da vino. Non ho neanche dei calici, figuriamoci.
Lui ha già raggiunto me e i bicchieri, e ne prende uno.
Brindiamo ai prati, all’ombra, agli gnomi, ai nostri sorrisi; brindiamo ai
tombini dove finiscono le illusioni quando si rompono, al caffè, al caso, alle
nuvole rosse e agli abbagli del sole, brindiamo alla solitudine, brindiamo alla
salvezza, e alla speranza.
Lui dice: «Alla vita?»
Io alzo le spalle, avvicino il bicchiere, e un leggero tin suggella il
tutto.
Mi sento come quel tin, quando sono con Gerard.
Ha apprezzato molto la mia
pasta, come mi aspettavo. Nei piatti non è rimasto nulla, la bottiglia invece è
piena fino a poco sotto la metà. Non c’è fretta.
E poi cazzo quel vino è buonissimo, bisogna preservarlo un minimo.
«Ti va una sigaretta?» Mi chiede, con già l’accendino in mano.
Con questa sua agilità nel tirare fuori oggetti infiammanti forse mi
converrebbe tornare alle mie vecchie teorie che lo vedevano piromane. Ma forse
no.
«Cazzo, sì. Tu vai di là, io di solito fumo davanti alla finestra perché è
grande e ha una vista decente. Io metto in ordine qui, ma ci metto poco.»
«Allora ti aspetto. Anzi no, vuoi che ti aiuti?»
«Ma scherzi? Vai di là a vedere quanto mi sono impegnato per pulire, e non
essere ridicolo. Puoi anche iniziare a fumare.»
«Sicuro?»
Alzo fintamente scocciato gli occhi al cielo, lo sento ridacchiare. Si alza, mi
accarezza i capelli ed esce. Io inclino un po’ la sedia e mi guardo la pancia
soddisfatto. Mi alzo e metto tutto nel lavandino. Adesso con il cazzo che mi
metto a lavare i piatti.
Prendo la bottiglia, che tanto la finiremo oggi.
Ha l’etichetta rovinata, un po’ a sinistra del nome del vino, curioso; la
tocco, ci sono delle linee- la avvicino. Quelle sono delle lettere, porco cane.
La avvicino ancora.
F + G
La G sembra più una mezza picca, ma è una G. Sorrido. Non le
avevo notate… Mi chiedo se sia stato Gerard o quello strambo di suo fratello.
Chiunque l’abbia fatto, comunque, non mi interessa, non è importante. Ormai
tanto è palese che siamo interessati uno all’altro, la cena è stata un lungo
flirt.
È appoggiato al davanzale. Il cielo nero, inquinato dalle luci della città, è
deturpato dal fumo.
Gli arrivo accanto, appoggio la bottiglia davanti a me, lui continua come se
non si fosse accorto di niente.
Gli chiedo una sigaretta senza parlare, perché qui le luci di casa mia non
servono, solo dalla cucina arriva un bagliore che ci tocca i piedi, e questo è
uno di quei momenti da vivere in silenzio. Questo è uno di quei momenti in cui
sarebbe ideale baciarsi, anche.
Mi passa la sigaretta, me l’accende lui, io mi fisso qualche attimo in quegli
occhi perfetti.
Aspiro, sputo il fumo, chiudo gli occhi, appoggiato al davanzale.
In questo istante non esiste niente. C’è Gerard, ci sono io, c’è la città, e da
qualche parte anche tutto il mondo, c’è la mia casa e del passato c’è solo
quello che voglio salvare. Il futuro non esiste, non importa.
Il passato mi permea.
Sento un peso sulla spalla, Gerard che finisce la sigaretta.
Il peso scompare, invece di aspirare mi giro, con la mani sul davanzale. Mi
raddrizzo di poco.
Si avvicina, la bocca vicina alla mia, io immobile, e contrae lentamente il
diaframma. Schiudo la bocca, accolgo lo schifo che dalla sigaretta è arrivato
ai suoi polmoni, il catrame e la nicotina evaporati, il tempo di raccoglierli
che li sto subito esalando via, mentre mi avvicino a lui.
E così, avvolti dal fumo ci baciamo per la prima volta.