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Autore: Damnatio_memoriae    01/04/2017    2 recensioni
Alcune persone sono legate da fili invisibili che le tengono unite oltre il tempo e lo spazio, nonostante gli ostacoli e tutte le incomprensioni, lontano dal concetto di giusto o sbagliato. Elisabeth e Margaret sono semplicemente fatte per stare insieme, perché si sono create così, si sono trovate così e si sono amate così. E nessuno può pensare di sottrarsi ad un amore simile.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, FemSlash
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Into the Sea
 
II

Oltreoceano

1909, Liverpool
 
Sulla RMS Mauretania tutto era sfarzo e opulenza, dai tavoli in legno massello della seconda classe alle tappezzerie della prima, scolpite e curate nei più piccoli dettagli. I lampadari in stile francese, rifiniti con filamenti dorati e gocce di cristallo, illuminarono delicatamente ogni ambiente per tutta la traversata dal freddo Mare d’Irlanda fino all’Oceano e ritorno, conferendo ai salotti e ai saloni un tocco di raffinato fascino. Una grande cupola di vetro si apriva sulla sala da pranzo, permettendo agli ospiti di cenare osservando le stelle, qualora non avessero avuto piacere di guardarsi reciprocamente, e dalle finestre del secondo piano si poteva ammirare il mare e gli schizzi dell’acqua che arrivavano fino al pontile, mentre la nave si immergeva tra le onde, tagliandole come se fossero di burro, senza neanche un minimo scossone.
Era l’era dei transatlantici e il potere dell’uomo sugli oceani sembrava sconfinato. Ma a Maryanne tutta quella ricchezza pareva sterile, semplicemente fine a sé stessa, come anonimi e vuoti erano per lei i volti dei passeggeri, del personale di servizio ed ora anche quelli della sua famiglia, la quale sembrava scomparire in mezzo a tutto quel lusso privo di scopo. Suo fratello Robert si rifugiava nel tabacco e nella sala da poker ogni qualvolta gli fosse possibile, vincendo o più spesso perdendo anche ingenti somme di denaro con i rampolli delle famiglie dabbene dell’èlite londinese; suo padre Ermann discuteva animosamente di politica estera con l’ambasciatore francese e i diplomatici italiani e forse le sue chiacchiere erano anche preferibili a quelle della moglie, che pur di ingraziarsi le ladies dei salotti inglesi malignava su ogni donna che, secondo il suo alto parere, non si comportava come ci si sarebbe aspettato da una signora della loro classe.
Maryanne, dal canto suo, non pensava certo che tutto quello sfarzo fosse un male, e non rinnegava di aver avuto una vita agiata grazie ai sacrifici paterni, ma avrebbe preferito scoprire un minimo di sostanza oltre tutta quell’apparenza e dubitava che sarebbe riuscita a trovare qualcun altro come lei con cui condividere i propri pensieri. Nessuno sulla Mauretania badava a lei, o ai suoi interi pomeriggi passati a guardare l’oceano – aspettandosi di scorgere il profilo della costa americana in lontananza -o alle mattinate spese a leggere e rileggere i libri di Hardy, Stevenson, Kipling. Erano tutti così presi a viversi la loro traversata discutendo dell’ultimo giacimento petrolifero o delle insurrezioni nelle colonie, da non rendersi conto di star facendo, durante un viaggio che Maryanne riteneva a dir poco spettacolare, le stesse cose che avrebbero potuto fare seduti nei loro terrazzi nello Yorkshire.
Poi, come se avesse udito il suo richiamo, arrivò lei, o forse c’era sempre stata, e all’improvviso tornò ad avere un nome, un volto, un’identità ben definita, una voce che pronunciava parole che sarebbe valsa la pena di ascoltare. Semplicemente, tornò a farla respirare e a farle credere che ci fossero altre emozioni nella vita da scoprire, ben più intense e colorate di un incontro pomeridiano con il circolo del Guanto Bianco.
Maryanne non conosceva ancora il suo nome, ma avrebbe imparato presto ad intercettare gli sguardi di quella donna, a riconoscerne le espressioni sul volto e il suono dei tacchi sul ponte, a seguirne i gesti, a copiarne i modi, a sorridere alle sue battute taglienti e crude pensate appositamente per scandalizzare le signore dell’alta società. E i suoi occhi, di un blu intenso come il mare che si trovavano spesso a contemplare, riuscirono a metterla in soggezione fin dal primo istante.
La terza sera, dopo essersi lasciati Liverpool alle spalle, l’orchestra della Mauretania decise di allietare i propri commensali suonando sinfonie e valzer. Seguendo le indicazioni del direttore si mossero i flautisti, i violinisti e il pianista, gli ottoni, l’arpa e la grancassa. Nella sala l’atmosfera si fece improvvisamente più allegra e cordiale e quando i camerieri servirono agli ospiti i primi antipasti, l’appetito era stato stuzzicato a sufficienza.
«La signora Thompson vorrebbe che tu conoscessi sua figlia, Robert» disse Cathrine al figlio, facendo segno al cameriere di riempire di vino il calice del marito «Sarebbe un ottimo partito».
«Lo sarebbe senz’altro, madre» ribattè pacatamente il ragazzo, pulendosi la bocca dalle briciole «Se aspirassi a diventare un lustratore di scarpe».
«Il padre è maresciallo della marina, caro».
«Congedato» precisò Robert.
«Ma con onore».
«Solo i soldi devono avergli consentito di aver salvo il nome, se non la carriera. Si dice fosse in combutta con i russi».
Maryanne tirò un profondo sospiro, le mani posate sul tovagliolo che si era poggiata in grembo. «Sono noiosi questi discorsi, Robert, oltre che privi di qualsiasi discrezione».
«Ma sono necessari» la riprese lui, trattandola come una bambina e allungando la mano per darle un buffetto sulla guancia «Ma se proprio ci tieni a conoscere la signorina Thompson perché non ti presenti tu al mio posto?». Abbozzò un sorriso che divenne subito risata: «Potrebbe anche piacerti un suo corteggiamento, chi lo sa!».
«Robert!» lo riprese immediatamente la madre, guardando a destra e a sinistra per accertarsi che nessuno avesse udito quella battuta troppo sconveniente.
Ermann assestò una sonora pacca sulla spalla del giovane «Che Dio ce ne scampi» rise con lui «Acconsentirei piuttosto ad un matrimonio con un americano!».
Maryanne alzò gli occhi al cielo, sperando che quella serata si concludesse il più in fretta possibile. «Che cosa vi avranno mai fatto gli americani?» chiese sovrappensiero, senza prestare troppa attenzione alla risposta.
Quando in tavola venne servito il secondo piatto l’orchestra aveva completato la sua esibizione – secondo alcuni senza infamia e senza lode, il commento peggiore per un artista – ed il maestro si preparava al suo gran finale. Nella sala il chiacchiericcio si era fatto agitato, complici il buon vino, la politica e le signore, ma appena un suono lungo, vibrato ed energico, giunse alle orecchie dei presenti catturando la loro attenzione, le voci scemarono, lasciando il posto ad un silenzio trepidante di attesa. Anche Robert ed Ermann smisero di discutere delle banche d’affari tedesche e Maryanne alzò insieme a loro lo sguardo verso i musicisti. Solo una donna si apprestava a suonare un assolo, guidata dalla bacchetta del direttore d’orchestra - a cui tuttavia non prestava particolare attenzione. Un lungo vestito blu le avvolgeva morbidamente il corpo e lo strascico si posava come un’onda sulle assi del pavimento. Tra le gambe teneva uno strumento molto ingombrante, quasi più grande di lei, sicuramente più pesante. Pizzicò le corde del suo violoncello con le dita sottili e curate, nessuna imperfezione sulla pelle. L’espressione era talmente concentrata da far credere a Maryanne che quella ragazza si fosse addirittura scordata di star suonando dinnanzi ad un centinaio di persone e fra le più esigenti del paese.
Mosse l’archetto lentamente e le note uscirono dal suo strumento, diventando concrete nelle orecchie degli ascoltatori che, come incantati, si erano voltati ad osservarla.
Era un valzer incisivo, tecnico, una musica piena di intenzione, agitata e passionale, decisa, come sicura e decisa sembrava lei: il viso teso, la bocca serrata, il collo rigido, le palpebre abbassate per potersi concentrare esclusivamente sul suono del violoncello. Un ciuffo di capelli neri sfuggì alla sua stretta ed elaborata acconciatura, ricadendole sulle spalle quando le note si fecero più concitate.
Cathrine si lasciò scappare un cenno di assenso, un grande gesto per una persona impostata come lei. Maryanne, invece, la guardò estasiata, gli occhi spalancati, le emozioni sospese fino alla fine dell’esibizione.
La musicista mosse ancora l’archetto sulle corde e aprì gli occhi sulla sala, le iridi che indagavano tutti i commensali.
Una stretta colse Maryanne alla bocca dello stomaco quando il viso della donna si fermò su di lei per un secondo infinito.
Fu un cambiamento quasi impercettibile: le sopracciglia si corrucciarono, le labbra si schiusero, sul suo volto si susseguirono velocemente stupore, dubbio, incertezza, curiosità e la musica improvvisamente si arrestò, lasciando la melodia incompiuta, tranciandola a metà senza preoccuparsi del maestro che continuava a muovere la sua bacchetta.
Le note svanirono nel nulla, le corde smisero di vibrare, l’archetto quasi non le scivolò dalle dita e in quel momento rimasero solo loro due. Solo Maryanne e quella sconosciuta che la fissava come nessuno aveva mai fatto prima di allora.
«Oh…che peccato» sussurrò Cathrine, contrariata da quella dimenticanza, e i presenti applaudirono, battendo le mani con poca convinzione per quel finale incompiuto, sancendo di fatto la fine della sua esibizione. La donna si prese i suoi applausi senza gioirne, indossando anzi un’espressione neutra e impenetrabile.
Per quella sera Maryanne non incrociò più quegli occhi blu, ma avrebbe dovuto capirlo che qualcosa era già irrimediabilmente cambiato.
«Scusate…». Fu questa la prima parola che le rivolse Maryanne, ferma sulla prua della Mauretania, la notte successiva a quell’incontro così particolare che aveva però lasciato nel suo animo un certo disagio.
Le luci che provenivano dall’immenso salone e dalle cabine nei piani soprastanti illuminavano a sufficienza il ponte, ma tutto intorno a loro era nero, sia l’oceano che il cielo promettevano burrasca. L’aveva vista seduta lì, su uno sgabello arrangiato, intenta a suonare una melodia nuova, solo il brusio lontano degli ospiti ad accompagnarla. La donna aveva continuato a suonare, anche se era evidente che si fosse accorta della sua presenza, nonostante Maryanne avesse finto di trovarsi lì per pura coincidenza, passando le dita sulla ringhiera metallica, avvicinandosi a piccoli passi, quasi di soppiatto.
«Scusate…» le si era affiancata titubante quando la donna aveva smesso di suonare, coprendosi le spalle con il foulard. «Forse vi sembrerà una domanda sciocca, ma ci siamo già incontrate?».
L’altra incatenò gli occhi ai suoi, due pozze blu nelle quali chiunque si sarebbe potuto perdere facilmente. Per un momento sembrò pronta a darle una risposta seria, poi il suo sguardo si fece malizioso, la bocca sottile si stese in un sorriso sardonico. «Magari nei vostri sogni».
Maryanne, presa in contropiede, si sentì improvvisamente avvampare. «Siete insolente» constatò senza riuscire a reggerne lo sguardo, battendo nervosamente il piede a terra, ma quando si rese conto del rumore che faceva il suo tacco – un suono quasi assordante in mezzo a tutto quel silenzio – si costrinse alla rigidità.
«E voi facile da scandalizzare» ribattè, sondando la sua espressione da sotto le lunghe ciglia.
«É quello che avviene quando si ascoltano parole inopportune».
«Se non è tutta questa gente dabbene ad importunarvi, non lo saranno di certo le mie parole».
Maryanne deglutì per togliersi il nodo che sentiva stringerle la gola. «Voi non siete forse una ragazza dabbene?».
«Vi sembra così?». Alzò lo sguardo fieramente, con la chiara intenzione di metterla a disagio, perché nessuna risposta a quella domanda sarebbe stata conveniente: un diniego avrebbe potuto offenderla, ma dato il tono che aveva utilizzato neanche darle ragione sembrava la scelta più saggia.
«Suppongo di sì» rispose dubbiosa.
La donna si scostò i capelli neri dal collo. Si passò la lingua sulle labbra e disse: «Un vero peccato…».
«Cosa?».
«Mi sembravate più attenta» sollevò un sopracciglio «Forse dovrei lasciarmi guardare ancora un po’».
«Io non vi stavo guardando!» si mise subito sulla difensiva Maryanne, spalancando gli occhi.
«Ah, no?».
«No».
«Perché vergognarsene? Non avete fatto nulla di male».
«Ma io, io…». Si arrestò. Prese un profondo respiro. «Io posso assicurarvi che state fraintendendo».
«Come volete» alzò le spalle, tornando a concentrarsi sul suo strumento, ma prima che potesse posare nuovamente l’archetto sulle corde Maryanne la incalzò.
«Voi mi avete fissata».
«Se vi siete accorta che vi stavo guardando allora significa che i vostri occhi erano già su di me, non credete?».
Lei provò a ribattere. Aprì la bocca, ma non riuscendo a trovare nessuna obiezione e sentendosi tremendamente stupida, la richiuse. Le diede le spalle, pronta a rientrare.
«Aspettate» la fermò l’altra «Vorreste ascoltare una melodia? Avere tutto questo pubblico può far piacere» disse, scrutando il cielo «Ma le stelle non possono parlare. E di certo non sono buffe quanto voi» rise.
«Io non credo vi abbiano insegnato la buona educazione» ribattè risoluta Maryanne, il mento alto proprio come le aveva insegnato sua madre, eppure qualcosa la spinse a rimanere. Si passò le mani sulla gonna e sollevando appena l’orlo fece per inginocchiarsi.
«Fermatevi…» la scura le porse la mano e per un attimo sembrò anche lei imbarazzata, non sapendo come chiamarla. «Non serve vi sediate per terra, posso cedervi il posto».
Maryanne non la ascoltò e si accucciò sul legno freddo, mantenendo una discreta e decorosa distanza da quella sconosciuta. «Io ed il pavimento siamo ottimi conoscenti» precisò, pensando a tutti i pomeriggi passati sul tappeto a leggere libri «Essere una ragazza dabbene non significa certo sedersi esclusivamente su poltrone di velluto».
«E cosa significa essere una ragazza dabbene, allora?».
Maryanne ci pensò su. Era convinta di conoscere la risposta, ma in quel momento, con quegli occhi puntati addosso, non le sovvenì nulla. Quando la nera le sorrise, mostrandole i denti bianchi, lei chiarì altezzosamente: «Forse significa avere l’accortezza di non far attendere una spettatrice». Con la mano indicò il violoncello, invitandola ad iniziare.
«Non ho mai detto di essere una ragazza perbene, ricordate?».
Quando suonò per lei, la musica era più dolce e sofferta del valzer della sera precedente, e non aveva nulla di gioioso o incalzante. Prima un La, poi un Sol, un Mi e di nuovo un Sol. Le note erano chiare ma malinconiche, basse e vibrate. Sembrava volessero descrivere una mancanza, un vuoto incolmabile, un’inquietudine senza fine. Maryanne si strinse nelle spalle, incrociò le mani e continuò ad ascoltare con attenzione. Si sentiva come trasportata in un tempo lontano, troppo lontano, e addosso le cadde la sensazione di essersi dimenticata qualcosa di importante, di aver perso qualcosa di unico. Già, ma che cosa? Cos’era ad un tratto tutta quella sofferenza che le stringeva il cuore, quel freddo che le gelava le ossa? Cos’è che andava cercando da tutto quel tempo?
Si sentì esposta quando la donna la guardò di sottecchi, forse per sondarne le emozioni. Mosse l’archetto, pizzicò la seconda e la terza corda. Una ruga nuova intorno alla bocca tradì un certo coinvolgimento.
La sinfonia scemò lentamente, nota dopo nota, fino a quando rimasero solo il rumore del mare e le voci attutite dei passeggeri a circondarle.
Fu la musicista a rompere il silenzio per prima, riponendo lo strumento nella sua custodia. «Perché state piangendo?» le chiese in un sussurro, neanche l’ombra di ironia.
«Io?» domandò confusa Maryanne, sfiorandosi una guancia con le dita e quando la sentì bagnata riuscì solo a bisbigliare «Oh…io non…non me ne ero resa conto». Imbarazzata, si alzò da terra il più velocemente possibile, non senza qualche impaccio.
«Tenete» le disse la sconosciuta, mettendosi in piedi a sua volta e allungandole un fazzoletto pulito.
«Oh, no, davvero, non ce n’è bisogno».
«Insisto» continuò, ma temendo di essere stata troppo burbera aggiunse: «Per favore».
Maryanne guardò prima la donna, poi il fazzoletto, indecisa sul da farsi. Infine, tirando su col naso – e se solo lo avesse saputo la sua governante quante ramanzine avrebbe dovuto sopportare – la accontentò. Il tessuto era morbido e profumato, ricamato ai bordi con il suo nome.
«Ellen…» sussurrò leggendolo, prima di tamponarsi la guancia.
«Già».
«È un nome particolare. Non siete inglese?».
«Americana» guardò il mare e per una frazione di secondo il suo viso si rasserenò «Sto tornando a casa». Si dondolò sui piedi, il vento che si alzava e le prime gocce di pioggia che iniziavano a cadere.
Maryanne ne osservò il profilo regolare, la bocca sottile, l’occhio attento. Quell’immagine le sembrò familiare al punto che il suo cuore saltò un battito e dovette scuotere con veemenza la testa per scrollarsi di dosso quel déjà-vu
«Io non conosco ancora il vostro nome» si voltò Ellen «Sarebbe scortese continuare ad ignorarlo, non siete d’accordo con me?».
«Mhm? Ignorare cosa?» boccheggiò Maryanne.
«Il vostro nome».
«Il nome? Oh, sì, certo, il nome…».
«Non vi distraete in questo modo. Potrei male interpretare».
«Si vede che è una cosa che vi riesce bene» ribattè «E ora, se volete scusarmi…» allungò una mano per stringere quella dell’altra «É stato un piacere Ellen, un vero piacere, ma non credo si ripeterà l’occasione, pertanto vi auguro un buon viaggio e un buon ritorno a casa».
Si allontanò a passi pesanti, poi, ricordandosi di stringere ancora tra le mani il suo fazzoletto, si arrestò. Tornò indietro, rossa in viso.
Ellen la guardò di sbieco «Quasi pensavo voleste dormirci insieme stanotte…» la prese in giro.
Lei finse di non aver colto l’allusione e si limitò a porgerle la pezzuola. Si fermò. Ci ripensò. Ritirò veloce la mano. «Ve l’ho sporcato di cipria, sono mortificata» battè i tacchi «Lo farò lavare e ve lo restituirò il prima possibile».
«Non occorre. Noi poveri americani non ci scandalizziamo per così poco» le fece l’occhiolino.
«Insisto».
«Come volete» alzò le spalle. I suoi occhi si riempirono di strafottenza «Siete certa che non sia una scusa per assicurarvi di potermi rivedere?».

 
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Ferma sul pianerottolo del secondo piano, la pancia premuta contro la ringhiera delle scale, Ellen si sporse quanto più possibile per osservare il via vai di camerieri e domestiche che in tutta fretta salivano e scendevano gli scalini trasportando cloches di vetro, biancheria pulita e argenteria. Storse il naso pensando a quanto fossero simili a dei topi che abbandonano la nave che affonda.
Dietro di lei il sole tramontava placido, quasi annoiato, e dalle vetrate filtrava una luce calda che colorava l’ambiente di un tenue rosso.
La notte precedente Ellen non era riuscita a prendere sonno, nonostante la stanchezza che aveva sentito gravarle sulle spalle e sulle palpebre. Quando era tornata nella sua cabina, appena dopo la mezzanotte, si era seduta al suo scrittoio e aveva composto, composto, composto. Nota dopo nota, accordo dopo accordo, aveva continuato quella melodia che ormai da diversi anni tentava di completare. Era la più riuscita del suo repertorio, di certo la più complicata, e anche la sola che davvero sentiva sua, l’unica che parlava di lei come nemmeno Ellen era riuscita a fare a parole. Eppure, anche quando la creatività la pervadeva, quando improvvisamente le balenava nella mente un nuovo passaggio, qualcosa le sfuggiva. Era estremamente mortificante.
E poi quella ragazza. Quella ragazza ancora senza nome, come senza nome era la sua sinfonia.
Ne aveva incrociato gli occhi per caso e quella coincidenza era bastata per perdere il ritmo, saltare il re diesis e sbagliare uno spartito che sarebbe stata in grado di recitare a memoria. E nonostante la pessima figura, il rimprovero del direttore d’orchestra e le burle dei colleghi, non riusciva proprio ad essere arrabbiata. Era certa – lo era? – di non averla mai incontrata prima, e senza voler malignare si poteva benissimo dire che fosse una persona abbastanza mediocre: capelli chiari, pelle chiara, abiti chiari. Poco più di una bambola mai usata.
E allora perché si era fermata? Cos’era scattato nella sua mente? Perché la pelle d’oca, il tremito, l’esigenza di volerla guardare e, allo stesso tempo, di voler sfuggire alla sua vista?
Poi aveva pianto, ma non era solo quello, non erano solo le lacrime che aveva visto uscirle dagli occhi, ma il fatto che si fosse commossa per lei, che avesse pianto per la sua canzone senza nemmeno accorgersene, quasi tralasciando il decoro –che sicuramente doveva tenere in gran considerazione, visto il suo portamento. Una piccola, chiara, sensibile bambolina dell’alta società che si sarebbe scandalizzata per un capello fuori posto.
Giocò con l’anello d’oro che portava all’anulare, l’ultimo regalo di sua madre, seconda violinista del Teatro Bol’jov, prima che un brutto male gliela portasse via. Alzò le braccia e si stiracchiò la schiena, incurante del fatto che gli inservienti potessero reputarla poco aggraziata. Evidentemente, pensò divertita, le donne d’alto borgo preferivano rimanere indolenzite.
Un colpo di tosse alle sue spalle non fu sufficiente a richiamarne l’attenzione, ma quando si sentì chiamare per nome non ebbe nessun dubbio su chi fosse a cercarla.
«Ellen…».
«Eccovi, dunque». La guardò di sghembo, accennando un sorriso.
Maryanne si irrigidì all’istante, contrariata da quel tono divertito. Serrò la mascella e si sforzò di sembrare garbata. «Vi ho riportato il vostro fazzoletto».
«Sì, lo vedo» sorrise, squadrandola da capo a piedi e compiacendosi nel vederla arrossire. Era tutto fin troppo facile, ma per una volta Ellen non ne rimase annoiata. «Quello che non so, a dire il vero, è il vostro nome. Mi sembra una mancanza alquanto irrispettosa da parte vostra, siete d’accordo con me? Tanto più che è la seconda volta che ve lo domando».
La bionda si scurì in viso, ma non fu sufficiente per renderla minacciosa. «Maryanne» disse velocemente, allungando una mano per invitare l’altra a riprendersi ciò che era suo.
«Maryanne, eh?» sussurrò Ellen, saggiandone ogni lettera. «Sì, vi si addice» schioccò la lingua sul palato «È molto dolce».
Colta alla sprovvista, l’altra non rispose.
«Per fortuna che il vostro nome non arrossisce quanto voi» ne approfittò Ellen, riprendendosi il suo fazzoletto. Era più morbido e più bianco e portava con sé un odore nuovo.
«In America non insegnano la moderazione?».
«No. In America insegnano a dire quello che si pensa».
«Avete una mente davvero molto rumorosa, allora».
«E’ lo scotto da pagare per un’intelligenza brillante, Mary».
«Maryanne. Il mio nome è Maryanne».
«Per me sarete solo Mary».
«Non voglio essere solo Mary» ribattè stizzita.
«Ah, no? E che cosa vorreste essere?».
«Rispettata, signorina Ellen. Rispettata».
«Il rispetto bisogna guadagnarselo».
«No, il rispetto va preteso».
«Preteso?» arcuò un sopracciglio. «Vi svelerò un segreto, Mary» le disse avvicinandosi al suo viso e quando si trovarono guancia contro guancia le sussurrò all’orecchio: «Da me non potete pretendere nulla. E ora, col vostro permesso…» imitò una finta riverenza e la sorpassò, urtandole la spalla.
«Aspettate» la fermò perentoria l’altra, negli occhi tutta l’intenzione di farsi valere. Eppure, quando Ellen la guardò, vide piano piano scivolarle di dosso tutta la convinzione e l’arrabbiatura, come se in quel momento non avesse più molta voglia di confrontarsi con il suo caratteraccio. La trovò carina, a suo modo.
Maryanne intrecciò le mani, premendosi i polpastrelli sulle nocche come a voler trovare la spinta.
«Dovete dirmi qualcosa?».
«Ecco, io…».
«Abbiate coraggio, Mary. Non mordo» le sorrise, recuperando la sua inesauribile leggerezza «A meno che la cosa non vi dispiaccia, s’intende».
L’altra non colse l’allusione, o forse la trovò così fuori luogo da non volersene preoccupare, e rispose: «Siete proprio sicura che non ci siamo già incontrate prima?».
Ellen serrò la mascella, ma si costrinse a non mostrare alcun tipo di sorpresa. Possibile che anche quella ragazza avesse avuto la sua stessa sensazione?
«Io» continuò la bionda «Ho l’impressione di conoscervi. Sembra folle, lo so, ma…».
Lei la interruppe. «No. Io non penso affatto sia folle» soppesò le sue parole e il tono si fece austero «Credo solo che per alcune persone funzioni così».
«Ma non è razionale» scosse la testa.
«Dovrebbe esserlo?».
«Si» disse piena di tutta la semplicità di questo mondo.
«In Inghilterra non insegnano ad usare la fantasia?».
Maryanne provò a trattenere un sorriso, portandosi una mano alla bocca per non sembrare maleducata. «Proprio no» confessò divertita «Non da dove vengo io, quantomeno».
Ellen non poteva ancora immaginarlo, ma non sarebbero state sufficienti due vita per dimenticarsi quella risata.
Si portò le mani alla vita e Mary la trovò buffa nella posa da istitutrice bontempona. «Che ne direste se facessimo due passi?» la invitò, porgendole la mano, ma la ragazza non la afferrò.
«Mio fratello mi aspetta».
«Coraggio» insistette «Le donne devono farsi attendere, non lo sapete?». Poi, quando la vide ancora reticente, aggiunse scherzosamente: «Giuro di non avere buone intenzioni».
Quel giorno, e per quelli a venire, Robert si ritrovò ad aspettare la sorella inutilmente.
 
​≈​ ≈​ 

«Non me l’aspettavo davvero così spaziosa» ammise Ellen, guardandosi intorno. Il disimpegno delle cabine di prima classe era stato ricoperto da una boiserie in legno di noce e il soffitto a cassettoni, in verità non molto alto, donava alla camera un’eleganza raffinata e calda, ma allo stesso tempo severa. Ovunque posasse lo sguardo, Ellen riusciva a scorgere solo mobili e vetrine, vasi e fiori freschi, servizi di porcellana e tempere appese al muro. Con la coda dell’occhio intravide, dalla porta lasciata socchiusa, la camera da letto: sul tappeto verde muschio giacevano quattro o cinque libri, alcuni aperti, altri impilati.
«Mi avevate detto che amavate leggere» disse a Maryanne «Ma non avevo capito fino a questo punto».
La ragazza, imbarazzata dal disordine, raccolse in fretta i volumi da terra, disponendoli alla bell’e meglio sulla cassapanca. «Ecco, io…» iniziò a dire con aria colpevole «Ho molto tempo libero e poche persone con cui passarlo».
Ellen incrociò le braccia al petto «Sembra una vita solitaria, la vostra».
Mary si strinse nelle spalle, abbassando il viso per fissare la punta degli stivaletti. «Sono stata fortunata» sussurrò poco convinta e senza la presunzione di poter convincere Ellen, che aveva ormai imparato a leggerla troppo bene «Ho i miei libri. Le storie mi tengono compagnia». Tossì un paio di volte e, dandole le spalle, si sforzò di cambiare discorso. «Questa è la francesina di cui vi parlavo» si avvicinò allo scrittorio per aprirlo, girando la chiave nella serratura «Come vedete, non ho avuto modo di usarla quanto avrei voluto. E qui...» si spostò vicino al letto «C’è abbastanza spazio per il vostro violoncello e per il leggio».
«A quanto pare…».
«Se cercate un posto tranquillo per esercitarvi» continuò la bionda, sistemandosi il fiocco dell’abito «Credo che questo potrebbe fare a caso nostro. Vostro!» si corresse in fretta, mettendo le mani avanti.
«Mi sembrate agitata» la stuzzicò Ellen.
«Perché dovrei?» si difese.
«Non lo so, perché dovreste?».
Maryanne eluse la domanda. «Non si sentono rumori e il corridoio di giorno è praticamente deserto. Anche di notte, in verità. Insomma, è sempre molto silenzioso. E gli inservienti sono discreti, si premurano di bussare prima di entrare, quindi non vi infastidiranno e quando non sarete impegnata con l’orchestra penso potreste venire qui. Io suppongo. Se volete. È…» prese un profondo respiro «…una stanza troppo grande per una persona sola». La guardò da sotto le ciglia, aspettando trepidante un cenno di assenso.
La musicista storse il naso. «Di norma non mi esercito davanti a terzi. Sapere che qualcuno è in ascolto uccide la mia ispirazione e questo mi distoglie dal pezzo».
L’altra si rigirò la chiave di bronzo fra le dita. Si sforzò di sembrare indifferente «Allora fate come se non vi avessi detto nulla» sussurrò, avvicinandosi alla porta, la schiena incurvata.
«Mary» la chiamò Ellen prima di vederla superare la soglia. Le labbra sottili si incurvarono, scoprendo gli incisivi pronunciati. «Credo che per voi farò un’eccezione. Non mi lascerei mai scappare l’occasione di burlarmi del vostro impaccio quando mi avete vicina. E non fate quella faccia» la guardò di sbieco, senza più remore «Le signorine perbene dovrebbero celare meglio l’entusiasmo».
«Io non sono entusiasta» mentì, lanciandole un’occhiataccia «Inoltre “Non ho mai detto di essere una ragazza perbene”» la imitò, ingrossando la voce.
«Non so se siate peggiore come attrice o come mimo. Vediamo…» le girò intorno, squadrandola «Vi piace atteggiarvi da prima donna, eppure non sembrate soddisfatta della vita che conducete. Vi mostrate garbata, prudente, educata, altolocata, ma in realtà vi diverte trasgredire le regole».
«E questo chi ve lo avrebbe detto?».
«Nessuno. Ma non vi ho mai vista ridere così tanto come quando abbiamo cambiato rotta al timone nella sala di comando. O come quando abbiamo importunato la signora Petill scambiandole il vino con l’aceto».
«O quando avete vinto contro Robert nella sala da poker» sorrise, portandosi una mano alla bocca.
«Vi curate molto delle apparenze, forse persino troppo, eppure state con me. Inizio a chiedermi se la maschera che avete indossato con così tanta cura non si stia sfaldando».
«E questo che cosa vorrebbe dire?».
«Lo sapete benissimo cosa vuol dire Mary, non fingete con me. Si mormora su questa nave, si mormora di continuo. E i pettegolezzi corrono più veloci dei transatlantici».
«Non riesco a seguirvi» confessò, incrociando le braccia al petto.
«Davvero? Allora lasciate che vi schiarisca le idee». Le scivolò alle spalle, sul volto nemmeno l’accenno di un sorriso, priva di tutta quella malizia che aveva sempre contraddistinto i suoi atteggiamenti.
«Che cosa volet…?» iniziò Mary ma il sonoro «Sssh!» che Ellen le soffiò dentro l’orecchio la zittì, seppur in malo modo.
Un nodo la colse alla bocca dello stomaco quando la ragazza le sfiorò il collo con le dita lunghe e si stupì nel sentirle calde sulla pelle nonostante il freddo che percepiva. Ellen le circondò la vita con un braccio, stringendola a sé, premendo il petto sulla sua schiena, i fianchi contro i suoi, e anche se Mary provò ad allentare la stretta, forzandole debolmente il polso, non la allontanò. Si sentiva improvvisamente accaldata, impacciata, confusa, annebbiata, sensazioni che aveva già avuto il dispiacere di provare in compagnia di quella donna ma che, in qualche modo, era sempre riuscita a nascondere. Eppure in quel momento, in mezzo a tutto quel contatto, lontana da sguardi indiscreti, con il profumo inconfondibile di Ellen che la inebriava, si sentiva sopraffatta dalla marea che le stava montando dentro. Contro ogni aspettativa, al di là di ogni buon senso, la voleva.
Ellen le scostò i capelli dalle spalle per baciarle il collo e quando Mary rabbrividì sotto il suo tocco non si curò di trattenere un sorriso di compiacimento. Un troppo debole «No» fu l’unica resistenza che la bionda le oppose, decisamente insufficiente per indurla a fermarsi. Le baciò la tempia e la guancia, seguì il contorno del suo viso alla ricerca della bocca, senza però soffermarsi sulle sue labbra. Si compiacque del respiro affannoso della ragazza, dei brividi, dell’imbarazzo che le leggeva in viso e del desiderio che invece le suggerivano i suoi occhi. Le posò una mano sulla gola, scese sulla clavicola, lungo il seno, le slacciò il fiocco che ne chiudeva il corpetto e subito Mary si riscosse.
«No, no, aspetta!». La realtà la colpì come un sonoro schiaffo. Si divincolò e a malincuore sgusciò via da quella calda stretta. «Che cosa stiamo facendo?».
«Non lo so» rispose duramente Ellen, ergendosi in tutta la sua altezza «Tu a quale gioco stai giocando?».
«Giocando?» ripetè confusa «Ma io non sto…».
«Lo sai quello che si dice su di me Mary, lo sai quello che sono. Non abbiamo esattamente gli stessi gusti in fatto di uomini, mi sembra più che evidente» la guardò di sbieco «anche se, se così fosse, mi risparmierei davvero molte, molte fatiche. Eppure ti sei avvicinata a me, perché?».
La ragazza boccheggiò alla ricerca di una risposta sensata. «Non lo so» riuscì solo a dire.
«Perché mi hai portata nella tua camera?».
«Non lo so».
«E allora che cosa vuoi?».
«Non lo so».
«C’è qualcosa che sai?!».
«C’è qualcosa che vorresti sentirti dire?».
«Che ne diresti di iniziare con la verità?».
«Sono sempre stata sincera con te» iniziò ad indispettirsi.
«Allora prova ad esserlo anche adesso».
Maryanne si torturò le mani. «A me non importa quello che dicono su di te» sussurrò e quando vide l’altra aprire la bocca per ribattere la precedette «E non mi chiedere il perché! Non c’è un perché, è così e basta!».
«Risulteresti più credibile se lo dicessi guardandomi» si indurì.
«Mi metti a disagio».
«E’ solo questo quindi: vergona. Ti vergogni di me».
«No, non è quello che ho detto».
«Allora spiegati» le ordinò.
«Non c’è nulla da spiegare!» rispose, infastidita da quel tono così perentorio «C’è da sentire! Tu non…non…».
«Io non-non cosa?».
«Tu non senti nulla per me? Non hai la sensazione che ci sia qualcosa che…Non lo so, che ci tiene unite? Non lo senti così ovvio? È come se mi fossi mancata per tutto questo tempo…Dio, mi sei mancata fino a questo punto» la voce le si ruppe e prima che altre stupide lacrime la facessero sembrare ancora più patetica, le diede le spalle, asciugandosi in fretta le guance con un fazzoletto. 
Dietro di lei Ellen tirò un profondo sospiro e quando parlò la voce si era fatta più dolce e rassicurante. «Perché stai piangendo, ora? Non mi piace quando piangi».
«E’ perché non ha alcun senso, ti conosco appena! Ma con te sembra sempre così diverso. È come se fosse…».
«Necessario?».
Annuì. «E giusto. Anche se in realtà è tutto così sbagliato, così tremendamente sbagliato».
«Perché sono una donna o perché sono americana?».
«Oh! Sarebbe una combinazione fatale per mio padre!» si sforzò di sorridere «Anche tu provi quello che provo io?» le domandò poi, voltando appena il viso per poterne sondare l’espressione, ma Ellen era indecifrabile.
Quando non ottenne alcuna risposta scosse con veemenza la testa «Dio, ho frainteso tutto» si passò una mano sugli occhi «Era tutto nella mia testa…quanto sono stupida!».
La scura alzò un sopracciglio, confusa «Ma io non ho ancora detto nulla».
«L’assenza di risposta è già una risposta».
«Non per me, vi stavo solo ascoltando».
«Siete una donna, non riuscite a fare più cose contemporaneamente?».
«Oh, certo…» bisbigliò maliziosa «Ne volete una dimostrazione forse?».
«Siete pessima!».
«E voi tremendamente ansiosa. Mary…» la chiamò, avvicinandosi a lei lentamente «Quello che accadrà tra di noi su questa nave rimarrà su questa nave».
«Potrebbe andare diversamente?» domandò cinica, conscia di un futuro già segnato con qualche ragazzo dell’alta borghesia «So solo che adesso sono qui, con te, in mezzo all’oceano e non ho idea di quanti nodi ci separino dal fondale, ma non vorrei uscire da questa cabina per il resto del viaggio e…» si zittì di colpo «Non ti basta questo?».
«Oh, Mary, Mary…» le tese una mano, invitandola ad afferrarla, e la avvolse tra le sue braccia «Ma non l’hai ancora capito? A me bastava già dalla prima sera».
Si piegò su di lei, alzandole il mento per catturarne la bocca, ma la bionda la fermò con impaccio.
«Non so come si fa» confessò, rossa fino alla punta delle orecchie.
«Non lo sai?».
«No».
«Sei davvero una bambola. Non si fa. Lo hai detto anche tu: si sente. Questo non c’era scritto nei tuoi libri, dico bene?».
«Ad essere onesta, nei miei libri c’è scritto molto, molto di più. Mai sentito parlare di Anna Karenina?».
«D’accordo, d’accordo piccola stella. Procediamo per gradi, che cosa ne dici?».
Mary si alzò in punta di piedi, vincendo la sua ritrosia, sfiorandole le labbra con le proprie. «Io dico che imparo in fretta».
Ellen scosse la testa con fare divertito, sorridendo contro la sua bocca prima di schiuderla e perdersi in quella dolcezza tanto familiare. Non si era mai davvero sentita a casa fino a quel momento.

 
≈​ ≈​ 
 
Si trascinò dietro il suo piccolo bagaglio e il suo strumento. Mai come in quel momento si era sentita il cuore così affaticato o l’animo così pesante. Ancora quattro, tre, due passi oltre il ponte e avrebbe potuto dire di essere finalmente tornata in patria, dopo tutto quel tempo passato oltreoceano.
La Mauretania aveva attraccato al molo, sul pontile uomini, donne e bambini si sbracciavano, allungavano i colli, aguzzavano la vista, abbracciavano i loro cari. In lontananza, Ellen scorse suo padre, ritto vicino alla finestra della panetteria appena aperta.
Sulla schiena sentiva ancora lo sguardo di Maryanne che, ferma a poppa, la osservava allontanarsi per sempre da lei. Avrebbe continuato a seguirla con gli occhi fino a quando non si fosse persa tra la folla o fino a quando il dolore non fosse diventato così insopportabile da costringerla a fuggire via.
Ellen si diresse lentamente verso suo padre, strisciando i piedi. Non riusciva ad arrestare il pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se avesse gettato all’aria i suoi bagagli e avesse corso per tornare sulla Mauretania prima che salpasse. Più si allontanava da Mary, più l’aria sembrava diventarle un macigno nei polmoni.
Si voltò un’infinità di volte verso di lei, scolpendosi ogni suo lineamento nella mente, così come quella notte si era impressa il suo profumo. Sperava sempre di non vederla, sperava sempre che avesse deciso di renderle quel distacco più semplice rientrando in cabina, ma non poteva trattenere il sollievo di vederla ancora lì, per lei.   
La guardò un’ultima volta. Mollò la sua borsa, lasciò cadere a terra la custodia del violoncello e cercando di sovrastare il chiacchiericcio dei presenti la chiamò. «Ho trovato un titolo alla melodia!».
«Come?» urlò di rimando la bionda, sforzandosi di sentire.
«Ho detto» continuò Ellen, portandosi le mani vicino alla bocca per amplificare il suono «Che ho trovato un titolo alla sinfonia!».
«Quale?».
Lei fece spallucce. «Lo vedrai!». Sorrise nel mandarle il suo ultimo saluto.
Appoggiato sullo scrittoio della cabina, uno spartito ricolmo di note portava a lettere chiare e rimarcate il nome “Maryanne” e un biglietto recitava:
 
Buona fortuna, piccola stella. Avrai sempre un posto speciale nel mio cuore.
Con grande, grande affetto,
tua
Ellen

 
   
 
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