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Autore: _Lady di inchiostro_    02/04/2017    5 recensioni
Secondo quanto si dice su Sibun, chi è affetto dalla Sindrome dell’Astronauta è convinto di poter percepire il dolore di un’altra persona anche se questa è distante anni luce. Di avere le stesse malattie, di ferirsi dove si ferisce l’altro, e di poterci comunicare attraverso i sogni. Questa persona è sempre un abitante del Pianeta Terra.
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Oikawa Tooru è un promettente pilota del pianeta Sibun, nel Sistema Trappist-1.
Da un paio di giorni, però, sogna di trovarsi in un posto bellissimo e con un’altra persona, Iwaizumi Hajime, un abitante del Pianeta Terra. Ma su Sibun, si dice che la Terra sia ostile e che la vita sia impossibile. Chiunque dica il contrario è considerato folle.
Cosa avrà intenzione di fare Oikawa?
E soprattutto, siamo proprio sicuri che sulla Terra si possa ancora vivere?
~
[Science Fic] [Soulmate AU!] [Un po’ di Interstellar, un po’ di Your Name] [Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise – Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it]
Genere: Angst, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A quaranta anni luce di distanza'
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Iniziativa: Questa storia partecipa allo Sci-Fi Fest “Sci-Fi Enterprise - Non è mai troppo TARDIS!” di Torre di Carta e Fanwriter.it 
Numero Parole: 10912 
Prompt/Traccia: Solo due cose sono infinite: l’Universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima” (Albert Einstein)
Note della piratessa spaziale (?): Quest'ultimo capitolo va ad Alexys_Tenshi, perché si è affezionata fin troppo a questa storia <3 




 
Capitolo quarto
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Atto primo






Controllò che fosse tutto nella norma assieme a Issei e Takahiro. Azionarono un paio di pulsanti, per vedere se la navicella funzionasse, se ci fosse abbastanza carburante per un viaggio lungo come quello, se il rivestimento avrebbe ceduto all'improvviso.
Avevano concesso a Kageyama e Hinata di partire quel pomeriggio stesso. I due piloti erano dietro di lui, assieme a un paio di soldati che poi l'avrebbero portato via, mentre lui era chino sulla sua creazione. L'avrebbero tenuto sotto osservazione, almeno fino a quando quei due non sarebbero tornati; se non fosse stato così, l'avrebbero arrestato, o forse l'avrebbero portato da qualche parte, magari in un covo di pazzi.
Non era questo a spaventare Oikawa, però, era sicuro di quello che diceva.
Aveva paura che la Nave non sarebbe mai atterrata sulla Terra. Temeva che Iwa-chan non sarebbe mai arrivato su Sibun.
«È tutto nella norma» disse, asciutto, girandosi poi verso i due giovanissimi piloti, che quasi si misero sull’attenti. Era livido in viso.
Annuirono, e rimasero per un attimo in silenzio, poi Oikawa si rivolse a Kageyama: «Posso parlarti?»
Il ragazzo rimase sorpreso e si scambiò un’occhiata con Hinata, che stranamente intuì al volo, chiedendo se potesse già entrare dentro la navicella; Oikawa gli diede il suo consenso, e il ragazzetto si diresse quasi trotterellando dentro l’abitacolo.
Il castano fece due passi verso il suo kohai, studiando il suo viso: era serio quanto lui. «Tra andata e ritorno, il viaggio durerà ottanta giorni» gli disse.
«Lo so.»
A quanto pare, gli scienziati erano riusciti a trovare una formula per riuscire a superare la velocità della luce. Per questa ragione, il viaggio sarebbe durato solo una manciata di giorni nonostante il pianeta fosse distante anni luce. Se avessero utilizzato una Navicella dei Ricercatori forse ci avrebbero messo meno tempo, ma purtroppo avevano pochissimo spazio.
Oikawa tirò fuori un pezzetto di carta. L’aveva strappato dal suo taccuino, e sopra vi erano scritte le coordinate per arrivare sulla Terra e atterrare a Kagoshima. «Qui ci sono le coordinate. Sono approssimate… Io e Iwa-chan abbiamo fatto del nostro meglio.»
Il minore annuì. «Devo sapere altro?»
«Fai solo attenzione a non bruciare vivo.»
La temperatura su Sibun era molto bassa, e per almeno due volte all’anno arrivava a livelli quasi glaciali. Di conseguenza, per quanto sulla Terra non ci fossero delle temperature così alte, non sapevano se le loro navicelle avrebbero retto.
Kageyama annuì ancora, non sapendo se Oikawa-san glielo stesse dicendo perché ci teneva veramente alla sua vita, o solo per convenzione. Non ebbe il tempo di scoprirlo. Si voltò, dandogli le spalle, e l’ultima cosa che vide furono le manette fluorescenti che si legavano ai polsi di Oikawa, i due soldati che lo presero per l’avambraccio, con l’intento di trascinarlo.
Poi si girò anche lui. Per poco, però, perché quando stava per salire sulla nave, il suo rivale lo chiamò di nuovo. «Tobio!»
Aveva un’espressione malinconica sul viso, e quasi non gli si addiceva. Lo stava squadrando con intensità, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Portamelo qui vivo» affermò, la voce strozzata.
Kageyama aveva solo una vaga idea di come si sentisse. O almeno, si trovava in una di quelle strane situazioni in cui poteva immaginare benissimo cosa stesse sentendo l’altro e cosa avrebbe fatto lui al suo posto. E il suo cuore fece un capitombolo nel pensare che, sì, per Hinata avrebbe fatto esattamente la stessa cosa.
Guardò Oikawa-san negli occhi. «Lo farò!»








Kageyama entrò dentro la navicella, mettendosi seduto al suo posto di pilota. Le Navi Passeggeri avevano la fortuna di avere ben due comandi, in modo che non ci fosse soltanto il comandante, ma anche il suo copilota. In quel caso, sarebbe stato Hinata.
Il ragazzo stava guardando per bene i pulsanti, cercando di capire quali fossero quelli giusti da premere, e ogni tanto Kageyama interveniva per aiutarlo, facendolo di conseguenza innervosire.
«É tutto pronto?» chiese poi, mettendo le mani sul timone.
«Siamo pronti! Possiamo partire!» affermò, Kageyama si perse a fissare il ragazzo che gli stava accanto. Un tempo, erano stati rivali, e la scuderia di cui faceva parte Shoyo era misera e con pochissimi componenti. Era stato facile batterlo.
Mai si sarebbero aspettati, a distanza di anni, di ritrovarsi nella stessa scuderia come compagni. E mai Kageyama si sarebbe aspettato di essersi innamorato di lui, un totale incapace che non sapeva sfruttare bene le sue potenzialità. Lo stesso incapace con cui si sentiva invincibile.
Aprì la bocca, per poi richiuderla, mentre Hinata lo guardava, sbattendo gli occhi. «Cosa c'è? Ho qualcosa sulla faccia?»
Tobio prese un profondo respiro, puntando gli occhi scuri su quelli chiari del giovane compagno. «Devo dirti una cosa, Hinata...»
Il ragazzo lasciò il volante, girandosi totalmente verso di lui. Non l'aveva mai visto così.
«Nel caso in cui non dovessimo tornare...» disse, ingoiando un grumo di saliva. «Voglio che tu sappia...»
«Alt!» Shoyo gli mise una mano davanti al viso. «Non me lo dire.»
Tobio parve sorpreso. «Cosa?»
«Me lo dirai quando torneremo a casa» rispose Hinata, inclinando la testa di lato. «Così sarai costretto a rimanere vivo, no?»
Gli occhi blu del campione si spalancarono leggermente. Erano molto giovani, non avevano mai avuto l'occasione di fare un viaggio lontano dal proprio pianeta. E forse era su questo che speravano i membri del Consiglio, sul fatto che non sarebbero stati in grado di completare la missione perché non avevano esperienza.
Per un attimo, Tobio si era lasciato soggiogare da questa possibilità, pensando al peggio, quando non aveva messo in conto la forza d'animo che aveva Hinata. La forza d'animo che avevano entrambi.
Assieme creavano una reazione chimica, un'esplosione, e potevano sbaragliare qualsiasi cosa.
Kageyama ghignò, e vide sul volto del compagno la sua medesima espressione. «Io non ho alcuna intenzione di morire!»
«E allora facciamogliela vedere ai membri del Consiglio!»





I due ragazzi partirono poco dopo. Dal Deposito si levò una nuvola di fumo densa e chiara, sul cielo si disegnò un striscia bianca. Oikawa ebbe il tempo di vederla prima che lo facessero salire su un veicolo, per portarlo da qualche parte. 
Stette a fissare con intensità quella linea bianca, nella speranza che il suo pensiero arrivasse a Iwa-chan.






*




 
Quaranta giorni dopo, sul Pianeta Terra






Era andato a trovare Haruka. L’albero non era più rigoglioso come prima, il suo manto non faceva quasi più ombra, ma non nonostante questo rimaneva ancora in piedi. Stava morendo, stava marcendo dentro.
Hajime, a questo punto, avrebbe fatto il paragone con se stesso, ma non in quel momento. Aveva delle promesse da mantenere. Doveva resistere, doveva raggiungere Sibun, poi forse avrebbe potuto pensare alla sua malattia.
Alzò lo sguardo sulle poche foglie rimaste, facendo un piccolo sorriso. «C’è una cosa che non ti ho detto, prima che te ne andassi…» Era stupido parlare con una persona che fisicamente non c’era? Eppure, per lui Haruka c’era sempre. Forse stava solo impazzendo, ma la vedeva ancora correre verso il campo di riso, sentiva la sua risata e la sua voce che lo chiamava da lontano. «Volevo ringraziarti, di tutto.»
Prese un bel respiro, tirando su col naso, ma non smise mai di sorridere. «Mi sono innamorato di Oikawa» ammise. «Te lo dico perché so che ti avrebbe fatto piacere. E avevi ragione… hai sempre avuto ragione.» Guardò per un’ultima volta il cielo annuvolato, gli occhi che pizzicavano. «Dovrai aspettarmi tra molti di anni, ovunque tu sia. Ho intenzione di sopravvivere e di stabilirmi su Sibun. Per questo sono venuto a salutarti.»
Diede le spalle all’albero, il vento che cominciava a sollevarsi. «Ti vorrò sempre bene, Haruka.»






Era tornato a casa e aveva messo in un borsone tutto quello che poteva. Non sapeva cosa potesse servigli, effettivamente, su Sibun, Oikawa gli aveva detto che le caratteristiche erano simili a quelle della Terra, salvo per la temperatura.
Pensare a Oikawa, al suo viso l’ultima volta che l’aveva visto, gli fece venire una fitta lanciante allo stomaco e al petto. Non si erano sognati, nell’ultimo periodo, e Iwaizumi aveva capito che c’era qualcosa che non andava da quando aveva sentito un dolore lanciante in diversi punti del corpo e in diversi momenti nella stessa giornata. Avrebbe voluto chiederglielo la sera stessa, ma nulla, non sognò assolutamente nulla; o almeno, non lo ricordava. Se avesse sognato Oikawa se lo sarebbe ricordato, quei sogni erano sempre stati… intensi, reali, non sapeva neanche lui come spiegarli, neanche ora che era passato del tempo, neanche ora che sentiva qualcosa per quel ragazzo frivolo e petulante.
Troppe cose erano cambiate in lui, da quando aveva conosciuto Oikawa Tooru, e in quel caso la malattia non c’entrava: si era innamorato di una persona che conosceva da pochi mesi, proveniente da un altro pianeta, senza essere certo della sua esistenza, fidandosi ciecamente. Per certi versi, la parte più razionale di lui gli urlava contro che stava sbagliando tutto, tuttavia aveva smesso di dargli ascolto da quando Haruka era morta.
Per questa ragione, smaniava per rivedere Oikawa, per capire cosa diavolo fosse successo. Quei quaranta giorni erano stati estenuanti.
Il ragazzo non gli aveva dato una data precisa su quando sarebbe arrivato, aveva solo calcolato che sarebbe potuto attraccare nella seconda settimana del mese, all’incirca, dipendeva da quando sarebbe partito. Così, lui e suo padre, assieme alla famiglia di Haruka avevano deciso di stabilirsi alla base della Jaxa, in attesa che arrivasse.
Ancora non sapeva come mai gli stessero dando corda e la madre di Haruka non l’avesse psicoanalizzato, ma si disse che non aveva importanza, in quel momento. Hajime non poteva sapere che aveva innestato in loro un briciolo di speranza che, d’ora in poi, non se ne sarebbe andato più via. Perché, nonostante avessero perso qualcuno, avevano ritrovato una ragione per tornare a vivere. Per tornare a vivere da esseri umani, con una propria dignità, con la voglia di fare meglio.
Gli storici dicono che la storia non si ripete, che le dinamiche sono sempre diverse. E hanno ragione, nessuno avrebbe mai potuto prevedere la distruzione della Terra; ma sulla crudeltà e la svogliatezza umana, oh, gli storici sono tutti d’accordo. Quindi sì, avrebbero fatto di tutto per fare in modo che l’orrore non si ripetesse anche su un altro pianeta.
Hajime gli stava dando un’occasione. Chiunque fosse la persona di cui era innamorato – perché era chiaro che ci fosse qualcosa di più, traspariva benissimo da quello che gli aveva raccontato –, anche questa gli stava dando un’occasione. E loro l’avrebbero colta.
Arrivarono alla base poco dopo la famiglia di Haruka. Salutò il padre della ragazzina con un cenno del capo, mentre la madre gli si avvicinò, sorridendogli. Oltre, al borsone, aveva in mano un piccolo zainetto rosa. «Ho preso anche qualcosa di Haruka… Pensavo ti avrebbe fatto piacere…»
La sua voce tremò leggermente, come anche la mano di Hajime quando prese lo zainetto. Rovistò dentro, trovando più che altro giocattoli e disegni. Uno, in maniera particolare, catturò la sua attenzione: doveva averlo realizzato di recente, e per Hajime era uno dei migliori che avesse mai fatto.
«L’ho trovata in piedi una notte…» disse la donna. «Stava già male, e ho visto che stava disegnando quello. Era ancora sulla sua scrivania…»
Era una navicella. O per meglio dire, come Haruka immaginava la navicella di Oikawa. Era colorata per metà, ma aveva usato il colore giusto: il celeste.
Non erano stati solo lui e Oikawa a dare speranza a quelle persone. Era stata anche Haruka, nei suoi modi da bambina ingenua e ottimista.
Sorrise, le labbra che tremolarono appena. «Posso tenerlo? C’è una persona che lo adorerà senz’altro.»
La donna annuì, e fu allora che una voce lontana li distrasse dalla loro conversazione, facendoli voltare. «Iwaizumi-san!»
Jun stava correndo verso di loro, la felpa sbottonata e il fiatone. Hajime l’aveva avvertito che, in un modo o nell’altro, loro si sarebbero trasferiti lì, bisognava solo che trovassero sia un modo per entrare sia un posto dover poter sostare per un paio di giorni, se necessario. Il problema non era Jun, né suo padre – che non si capiva bene da che parte stesse –, quanto gli altri scienziati della Jaxa.
Tutto quello che si diceva nei film di fantascienza era falso: gli scienziati della Nasa non credevano nell’esistenza degli alieni, o di una qualsiasi forma di vita addirittura più intelligente dell’uomo e in grado di salvarli. Avevano solo bisogno dell’aiuto di loro stessi, delle loro forze e delle loro capacità, quella soluzione sembrava solo una delle tante supposizioni di un visionario.
Hajime un po’ li capiva.
Il ragazzo si fermò davanti a loro. «Hanno scoperto che siete arrivati qui…»
«Come?»
«Non lo so» e il ragazzo ebbe solo il tempo di rispondere, prima che un gruppo di uomini si dirigesse verso di loro a passo di marcia.
Alcuni non sembravano degli scienziati, avevano addosso la divisa da custodi. «Voi non siete autorizzati a stare qui!» urlò uno degli uomini in camice bianco.
«Non farebbero nulla di male, ci sono tante stanze vuote che possono essere adibite a camera da letto, diglielo tu papà!»
Il gruppo spostò l’attenzione verso il padre del giovane, che si era un po’ nascosto dietro di loro, senza sapere bene cosa dire. Se da un lato avrebbe voluto credere a suo figlio – che per una volta stava facendo qualcosa di buono nella vita –, dall’altro voleva rimanere fedele ai suoi colleghi e alla scienza. Aprì la bocca, ma non emise fiato.
«Non vi intralceremo, lo giuriamo!» continuò la madre di Haruka.
«Voi siete solo una mandria di ciarlatani! Ci avete disturbato fin troppo, fuori!»
Hajime sentì la testa che cominciò a vorticare, e il respiro per un attimo gli si fermò in gola. Non riusciva più a respirare, era come se avesse improvvisamente perso la capacità di farlo, come se i suoi polmoni non rispondessero ai comandi. E mentre si accorgeva degli uomini in divisa che venivano verso di loro, pronti a trascinarli fuori come avevano già fatto negli ultimi tempi, le gambe gli cedettero.
Non cadde riverso a terra, per fortuna, ma un ginocchio era posato sul suolo, assieme a una mano, in modo da potersi sorreggere.
«Hajime-kun!»
«Iwaizumi-san, che succede?»
Suo padre gli fu subito accanto. Aveva ricominciato a respirare, anche se aveva la sensazione di immettere dentro i polmoni della carta vetrata, non dell’ossigeno. Tossì ininterrottamente, sputando sangue più e più volte, sotto lo sguardo agghiacciato dei presenti, compresi gli scienziati.
Alla fine, fu il padre di Jun a farsi avanti. «Lasciateli entrare.»
«Come scusa?»
«Siete per caso ciechi? Non vedete che quel ragazzo sta malissimo? Saremo pure degli scienziati, ma prima di tutto siamo esseri umani, e non possiamo permetterci di lasciare un individuo in questo stato!»
Ebbe il tempo di sentire quell’ultima frase, prima che le forze fluissero via improvvisamente dal suo corpo e lui cadesse addosso a suo padre.





*

 




Quindici minuti dopo, sulla Nave Passeggeri  






«Secondo te è quello il Pianeta Terra?» chiese Hinata.
A giudicare da quello che potevano ammirare, non aveva un bell’aspetto: forse un tempo era stato florido, ma adesso sembrava vecchio e sporco, come un oggetto da poter buttare via. L’acqua aveva un colore raccapricciante, come anche i continenti, e molto spesso non si capiva dove finisse uno e dove iniziasse l’altro.
Hinata si domandò se i terresti avessero mai avuto l’occasione di ammirare il pianeta da quella posizione, forse si sarebbero resi conto di quello che stava succedendo. O forse, l’avevano fatto, ma l’essere umano era troppo stupido per capire quello che aveva.
Con l’uomo funziona così: rimpiange ciò che non può avere più. Ma Hinata e Kageyama non lo sapevano.
Il capitano della Nave guardò le coordinate che gli erano state date. «Sì, secondo quello che c’è scritto qui.»
Shoyo spostò lo sguardo dal finestrino per concentrarsi di nuovo sulla guida. «Bene, e adesso che facciamo?»
«Attraccare, mi pare ovvio!»
Kageyama smanettò con un paio di pulsanti, sperando che il suo sesto senso gli stesse indicando la strada giusta, e Hinata si mise a fare lo stesso.
«Idiota, quello non serve!»
«Lo sapevo benissimo!»
Solo quando furono certi che fosse tutto pronto decisero di cominciare la discesa. Ad un primo impatto, la navicella cominciò a tremare, e si resero conto che la temperatura stava cominciando ad innalzarsi. I due giovani tennero saldamente le mani sul volante, qualsiasi movimento brusco o anche il solo aumento della velocità gli sarebbe stato fatale. Dovevano essere una cosa sola.
Sentivano il rivestimento scricchiolare, e forse persero pezzi durante la discesa. I due si guardano più di una volta di traverso, come a darsi sostegno a vicenda. Non seppero quanti metri avessero percorso prima di raggiungere una certa stabilità: la nave smise di tremare e la temperatura sembrò abbassarsi, diventando quasi glaciale in alcuni momenti.
Kageyama poté riprendere a respirare. Il primo passaggio era andato, e secondo quanto c’era scritto sul foglietto avrebbero dovuto trovarsi proprio sopra un certo monte Fuji, uno dei più famosi del paese. Aumentò la velocità, credendo che il peggio fosse passato, ma non fu così.
Stavano scendendo in picchiata. La Nave era fuori controllo.
Scattò immediatamente l’allarme, e Hinata parve riscuotersi, ancora troppo preso da quello che era appena successo. «Che cosa hai combinato…?»
Il ragazzo non rispose, troppo intento a capire dove stesse il problema. «Hinata, pensa tu ai comandi, devo capire cosa è successo!» Probabilmente, qualcosa era andato in tilt durante la fase di atterraggio.
«Cosa, da solo?» Non ricevette alcuna risposta, e cominciò a sudare freddo, le mani sul volante. «Oh mamma, oh mamma, oh mamma…»
Non sapeva che cosa fare, vedeva il suolo del pianeta che si avvicinava sempre di più, e l’idea che stesse effettivamente per morire, lo investì in pieno. «Kageyama…?»
«Se solo riuscissi a…» Per fortuna, il ragazzo aveva capito dove stesse il problema – e non era nulla di irrisolvibile –, e adesso cercava di muoversi verso un paio di fili intrecciati tra loro e che doveva rimettere in funzione. Solo che ci stava mettendo troppo tempo.
Per la prima volta nella sua vita, Hinata Shoyo vide una montagna e ne ebbe subito il terrore. Sembrava la punta di un coltello gigantesco e pronto per conficcarsi dentro la loro navicella; o meglio, loro erano pronti per lasciarsi conficcare come se fossero degli spiedini, e in un momento come quello qualsiasi parvenza di lucidità era scomparsa.
«Kageyama!»
«Sta zitto, idiota, mi deconcentri!» disse, riuscendo finalmente a prendere i due fili tra le dita e facendo in modo che tornassero al loro posto.
L’allarme smise di produrre quel suono fastidioso, segno che tutto era tornato nella norma. «Fatto!»
Non si era neanche accorto che mancava davvero pochissimo allo schianto. A farlo tornare prepotentemente al suo posto di pilota fu la voce di Hinata, completamente nel panico. «Tobio!»
Spalancò gli occhi, senza riuscire neanche a registrare come diavolo fosse fatto quel monte, perché la sua mente era popolata da tutt’altro: la consapevolezza che doveva fare qualcosa, e in fretta anche. Il suo volante era già tra le sue mani, e provò a spostare il muso della Nave verso l’alto, in modo che riuscissero schivarlo; poi, diede gas e solo grazie ai due motori riuscì ad evitare il monte poco prima che lo raggiungessero del tutto.
I due piloti furono schiacciati conto i sedili. Hinata, ancora terrorizzato, buttò solo un occhio alla montagna, trovandosi combattuto tra la paura e la bellezza che quello spettacolo emanava. Non c’era nulla di così bello su Sibun, e forse tanti anni prima sarebbe stato ancora più bello.
«Sono vivo…» mormorò Hinata, dandosi un pizzicotto sulla guancia per constatare che fosse vero.
«Prego, figurati, è stato un piacere salvarti la vita!» sbottò Kageyama, infuriato.
Il copilota non aveva la forza di rispondere in quel momento, mentre cercava di prendere aria, togliendo per il momento le mani dal volante: scuotevano ancora, come se fossero sul volante che traballava per via della troppa velocità.
«Bene, adesso dovremmo andare – Kageyama lesse il bigliettino – di là!»
Indicò la strada di fronte, dando poi una gomitata sul fianco a Hinata per indurlo a riprendersi. Passarono di città in città, e per quanto lo scenario potesse sembrare sempre uguale, ai loro occhi nascondeva sempre qualcosa di diverso: un palazzo dalla forma stana, qualche piantagione particolare e soprattutto quei buffi cartelli che attiravano particolarmente l’attenzione, erano quasi ipnotici.
Quello che però destò lo stupore di entrambi fu vedere delle persone che si muovevano sotto di loro. Non c’era tanta gente, forse alcuni neanche uscivano allo scoperto, ma c’erano: quelli erano esseri umani, e urlavano, parlavano e facevano altre mille cose che potevano fare anche loro su Sibun. 
Ne avevano la conferma. La Terra forse non era più abitabile come un tempo, forse la gente era divenuta ostile, ma i terrestri c’erano. La Sindrome dell’Astronauta… non era una malattia mentale. Quei vaneggiamenti, per quanto possa essere strano da dire, avevano un loro fondamento di verità. Oikawa-san e tanti altri avevano ragione.
Tobio non sapeva quando avrebbe dovuto fermarsi, doveva solo vedere la base spaziale per capire che era quello il luogo dove doveva atterrare. Notò qualcosa di strano, una struttura che non avevano mai incontrato lungo il tragitto, e decise di puntare verso quella zona. Pareva una navicella, ma era diversa dalle loro, più grande e decisamente ingombrante per i loro gusti – anzi, per quelli di Sibun.
«Mi sa che è quello il posto» disse, puntando verso uno spazio lasciato vuoto. Sperava solo che la Nave ci entrasse.
Si accorsero di un gruppo di persone che stava fissando la scena con la stessa espressione di un pesce lesso, e alcuni sembravano che stessero per avere un infarto. 
La nave si posò dolcemente sul terreno, sollevando polvere e fumo; solo allora, i due piloti si lasciarono andare contro i sedili, togliendosi la cintura e prendendo boccate d’aria come se fossero sorsi d’acqua. Per quanto il loro viaggio fosse stato tranquillo, senza particolari intoppi, erano stati in tensione fino ad allora.
«Ce l’abbiamo fatta!» urlò a quel punto Hinata, riacquistando il suo naturale entusiasmo, il viso sorridente rivolto verso il compagno.
Kageyama, senza rendersene conto, si perse ad osservare i dettagli di quel viso gioviale, come se fosse la sua ultima occasione per registrarli. Stavano per morire, la sua paura più profonda da quando si erano messi in viaggio si era quasi avverata. E la sola idea che stessero rischiando così tanto e che lui non avrebbe più detto a Hinata quello che sentiva, lo…
Non poteva più aspettare, non ne aveva più voglia, non quando l’altro era a pochi centimetri da lui. Coprì la distanza che separava le sue labbra da quelle di Shoyo, l’altro che fu incapace di dire o fare alcunché, se non rimanere come uno stoccafisso, gli occhi completamente dilatati. Le labbra di Tobio, però, avevano un buon sapore.
Si staccarono poco dopo, entrambi consapevoli di quello che era appena successo. Le orecchie di Tobio andarono in fiamme nel realizzare quello che aveva fatto.
«Volevo dirti – cercò di cambiare discorso, spostando lo sguardo di lato – che puoi guidare tu la navicella al ritorno, mentre io faccio il copilota.»
L’altro avrebbe voluto rispondergli che un’esperienza del genere non l’avrebbe mai più rifatta in vita sua, ma non riusciva a esprimersi se non attraverso monosillabi. «Ah… sì… okay…»
Fu in quel momento che qualcosa li distrasse, e l’imbarazzo svanì improvvisamente. Si girarono quasi in contemporanea, notando la figura di un ragazzo che si sbracciava per attirare la loro attenzione; in seguito, indicò un gruppo di persone dietro di lui, che stavano trasportando…
Kageyama scattò subito in piedi ed era già pronto per uscire fuori. Hinata, invece, si lasciò andare a un’esclamazione. «Per tutti gli universi…»







Per un tempo che non seppe definire, vide solo nero.
Nero e oscurità, denso e scuro. Non fu come nella stanza, no, c’era solo nero e basta. Sentiva le voci, le sue orecchie le percepivano, ma parevano lontane, come flussi di ricordi che fluivano facilmente via. Poi, si sentì sospeso nel vuoto, sballottato qua e là, senza riuscire a comprendere cosa stesse succedendo attorno a lui.
Solo quando le voci si fecero più vicine, trovò la forza per aprire gli occhi e risvegliarsi. E la prima cosa che vide quasi lo raggelò sul posto. Aveva la vista ancora a chiazze, ma non poteva sbagliarsi, conosceva perfettamente quel colore d’occhi: blu, come quelli di Haruka.
«Iwaizumi-san? Iwaizumi-san!»
Una piccola parte di sé, sperava di essere rimasto svenuto per chissà quanto tempo, e che tutto quello che era accaduto nell’ultimo periodo in realtà non fosse mai successo. Haruka sarebbe stata viva, avrebbe continuato a ridere come una qualsiasi bambina di dieci anni, e lui non avrebbe dovuto seppellirla.
«Haruka…?»
Per quanto volesse davvero che le cose fossero andate così, si rese conto che non era fattibile, e che c’era una persona altrettanto importante che lo stava aspettando. Ma del resto, la bambina l’avrebbe sicuramente perdonato.
La sua vista si fece più ridefinita, rendendosi poi conto che quei occhi appartenevano a un ragazzo che non aveva mai visto, con addosso una tuta molto simile a quella che portavano gli astronauti. Non era lui a chiamarlo, bensì Jun, che stava inginocchiato vicino a lui, assieme al padre di Hajime. Si rese conto, mano a mano che tutto si faceva più chiaro, che tutti lo stavano fissando, compresi gli scienziati che prima lo avevano preso per matto; alcuni sembravano veramente preoccupati.
Cercò di mettersi seduto, rendendosi conto di essere disteso su una brandina di fortuna, che non aveva nulla di comodo. La testa gli pulsava ancora, e si massaggiò la parte sinistra. «Dove sono…?»
Jun gli sorrise. «Lei e Haruka avevate ragione, Iwaizumi-san…»
Ci mise un po’ per comprendere il significato nascosto di quelle parole, ma quando lo realizzò, spostò lo sguardo su tutti i presenti, tutti sorridenti; gli scienziati fecero persino un inchino del capo verso la sua direzione, come a chiedergli scusa per aver dubitato di lui. Poi, Hajime si mise in piedi, facendo spostare tutti, intravedendo una finestra nella parte anteriore della navicella.
Da lì si vedeva la Terra. In un modo o nell’altro, tutti avevano avuto l’occasione di poterla vedere tramite le fotografie fatte dai satelliti o da qualche sonda. Ma in quelle foto, lo spettacolo mozzava il fiato, adesso era soltanto desolante.
Per la prima volta nella loro vita, tutte le persone che stavano su quella navicella si resero conto dell’orrore che avevano commesso: avevano distrutto qualcosa di raro e prezioso, la propria casa, qualcosa nato milioni e milioni di anni fa in un modo straordinario. Avevano fatto del male a milioni di vite, a specie rare, permettendo che il menefreghismo prevalesse sul loro buon senso.
L’universo forse era infinito, ma la stupidità umana lo era ancora di più.
C’è un momento in cui la sete di potere deve arrestarsi, in un modo o nell’altro. Forse è un’idea un po’ utopistica, difficile da associare all’essere umano, ma era quello che volevano fare quel gruppo di persone. Perché avevano distrutto la cosa migliore che gli fosse stata concessa, non importa se per mano di Dio o di una esplosione incandescente. Avevano superato il limite.
«Oh, si è svegliato?» Un vocetta allegra catturò la sua attenzione, facendolo voltare verso la zona dei comandi. Una buffa testa rossa sbucò da uno dei sedili, probabilmente quello del capitano della navicella.
«Hinata, non ti distrarre!» gli intimò il ragazzo di prima, ancora in piedi.
«Non mi urlare contro, che cavolo!» rispose l’altro, sbuffando sonoramente.
Iwaizumi parve confuso. «Dov’è Oikawa…? Chi siete?»
Il campione si mise sull’attenti, leggermente intimorito da quella voce calda e austera. «Il mio nome è Kageyama Tobio. E quello alla guida è Hinata Shoyo…»
«Piacere!»
Kageyama credeva di stare per avere un tic all’occhio. E dire che l’aveva pure baciato quel cretino!
«Hinata, sta zitto!»
«Dov’è Oikawa?» chiese di nuovo Iwaizumi, cercando di dare più fermezza alla sua voce, anche se la gola bruciava ogni volta che cercasse di parlare.
Le spalle del ragazzo ebbero un sussulto, poi abbassò lo sguardo. «Purtroppo, è dovuto rimanere su Sibun…»
Cosa? Doveva essere lui a guidare la navicella, almeno gli aveva detto questo l’ultima volta che ne avevano parlato. Che fosse successo qualcosa?
Hajime cominciò a sudare freddo. Anzi, sentiva freddo dall’interno, ma era quasi sicuro che non fosse solo per via del panico. Quello svenimento improvviso era stato un campanello d’allarme. Oramai, poteva contare i giorni che gli rimanevano… 
«Hanno scoperto che Matsukawa-san e Hanamaki-san stavano lavorando al rivestimento di questa nave. Per evitare che fossero processati, Oikawa-san ha dovuto confessare di essere lui l’artefice di tutto. Lo tengono sotto osservazione» spiegò Tobio.
Adesso, tutto aveva un senso. Aveva capito abbastanza di Oikawa per sapere che, per raggiungere il suo obiettivo, sarebbe stato capace di pazzie inimmaginabili, rischiando la salute e la vita, se era necessario. Ed era per questo motivo che, ben un mese fa, Hajime aveva cominciato a sentire dolore in diversi punti del corpo. Avrebbe voluto saperne di più, ma si era già fatto un’idea su quello che aveva potuto combinare Tooru; e poi, c’era un’altra domanda di cui gli premeva sapere la risposta.
«Dove l’hanno portato?»
Il giovane scosse la testa corvina. «Non lo so… Nessuno lo sa.»
Iwaizumi sentiva che le gambe sarebbero cedute di lì a breve. Respirare gli era sempre più difficile, mentre deglutiva fiotti di saliva mischiati a sangue. Strinse i pugni. Quell’idiota… Lo avrebbe ammazzato. Sì, l’avrebbe preso a pugni non appena l’avrebbe rivisto. Non poteva farlo preoccupare così, non poteva non farsi vedere per più di un mese, non…
La voce rotta dal pianto del castano gli risuonò in testa, e la stretta sui suoi palmi diminuì appena.
«Iwaizumi-san…?» A chiamarlo così, stavolta, era stato Tobio, e per la prima volta lo guardò dritto negli occhi. Ebbe la sensazione, come quando si guardavano lui e Haruka, che verde e blu si mischiassero in un’unica miscela. «Oikawa-san mi ha chiesto di portarla sul nostro pianeta sano e salvo, ed è quello che ho intenzione di fare!»
Gli sorrise appena, e Hajime non seppe che cosa dire: si limitò solo a ringraziarlo con un accenno del capo. A parlare, in seguito, fu Hinata, alzando un braccio come per attirare l’attenzione. «Stia tranquillo, Iwaizumi-san! Non appena vedranno tutta questa gente proveniente dal Pianeta Terra, si ricrederanno e libereranno Oikawa-san!»
Sperava davvero che fosse così. «Quanto manca per arrivare?»
Kageyama prese posto vicino al compagno, riafferrando il volante. «Quaranta giorni, come per l’andata.»
Erano troppi. Per lui, erano troppi.
Suo padre e i genitori di Haruka lo stavano fissando con aria preoccupata; persino Jun non sembrava tanto convinto delle sue condizioni di salute, forse tutti avevano capito che c’era qualcosa che non andava in lui, persino quei due ragazzi provenienti da un pianeta sconosciuto e di cui si stava fidando come se fossero dei conoscenti di vecchia data.
Forse, era lui l’unico a non aver realizzato appieno di essere malato. E quaranta giorni, date le condizioni in cui si trovava, erano davvero troppi.
Fece un paio di passi verso i sedili dei guidatori, milioni di stelle che si estendevano di fronte a lui. Vide gli altri pianeti del Sistema Solare, e probabilmente quello che stavano per sorpassare era Saturno, con i suoi anelli che lo caratterizzavano. Buffo, aveva sempre pensato che non si vedessero così tanto a occhio nudo. Stava vivendo un’esperienza unica al mondo, e molto probabilmente tantissima gente avrebbe pagato oro per potersela godere. Eppure, lui non lo stava facendo, la sua mente si trovava su Sibun, e con un dispiacere immenso aveva lasciato indietro la Terra, Haruka, Kagoshima, la vita che avrebbe potuto avere…
Si impose di resistere. Si impose di combattere contro la malattia, ancora per un po’.
Forse altri gli avrebbero detto che doveva rinunciare, che non c’era più speranza, e che avrebbe dovuto lasciarsi andare; ma lui, aveva smesso di rinunciare a tutto ancora prima di provarci. Era tornato ad essere quel bambino determinato e che non si arrendeva mai di fronte alle avversità.
«Posso farvi una domanda?» I due piloti si voltarono a guardarlo. «Questo affare può andare più veloce di così?»
Kageyama e Hinata si scambiarono un’occhiata d’intesa, ed entrambi fecero lo stesso medesimo sorriso. «A tutto gas, Kageyama!»
«Non me lo faccio ripetere due volte!»






 
Atto secondo



 
Quaranta giorni dopo, sul pianeta Sibun








Si trovava chiuso in una stanza dall’aspetto molto minimalista. C’era solo un tavolo con due sedie, un divano che fungeva anche da letto, un bagno personale e una finestra misera da cui riusciva a malapena a vedere cosa c’era fuori. E poi c’era uno specchio. Era enorme, e ricopriva metà parete.
Oikawa non era stupido, sapeva che in realtà lo specchio era un enorme telecamera che inquadrava ogni angolo della stanza, in modo che non potesse fuggire. Del resto, avevano detto che l’avrebbero tenuto sotto osservazione, no?
Non aveva ancora chiaro dove l’avessero portato, in realtà. Dopo aver lasciato il Deposito ed essere usciti fuori dalla Base Area, lo avevano infilato con forza dentro un furgone, giusto il tempo di vedere la Nave Passeggeri volare via, verso la Terra. Poi, l’avevano bendato, in modo che non potesse vedere niente, finché non era giunto lì. Si aspettava una struttura decadente e maleodorante, dimenticata da tutto e da tutti nell’universo, e invece si ritrovò a percorre un lussuoso corridoio con porte in un legno pregiato e che non aveva visto da nessuna parte.
Era un’illusione, facevano apparire quel luogo come un posto confortevole e dove la gente poteva guarire dalla sua malattia, ma in realtà le facevano solo il lavaggio del cervello. Non era sicuro di voler sapere quante persone ci fossero con la Sindrome all’interno della struttura. Dieci, cento…? O forse anche mille?
Quel corridoio era infinto e forse tutte le stanze erano occupate… o erano vuote, perché avevano eliminato i pazienti prima.
Era questo quello che volevano fare con lui? Toglierlo di mezzo?
Oikawa non poteva morire così, non in quella misera stanza, non senza aver rivisto Iwa-chan.
Aveva passato gli ultimi ottanta giorni a girovagare per la stanza, alla ricerca di un modo per distrarsi, per fare in modo che il tempo passasse più velocemente. Neanche il sonno riusciva più a rincuorarlo, poiché aveva smesso completamente di sognare Iwa-chan, e non sapeva ancora il perché. Mangiava a stento quello che gli portavano, e ogni giorno si ritrovava a gemere per terra, la tosse che non riusciva a farlo respirare. A volte sveniva, e si risvegliava quando fuori era buio.
Ma nei suoi sogni, di Iwa-chan non c’era alcuna traccia.
Erano stati ottanta giorni di inferno, e Oikawa temeva di stare per impazzire sul serio, perché la sola idea di poterlo sentire morire da un momento all’altro lo mandava in paranoia. Oramai, condivideva la stanza assieme alla sua stessa paura della morte.
Aveva perso il conto delle giornate, a un certo punto, e non sapeva più a chi affidarsi, a chi chiedere aiuto.
Tutto quello che voleva… era riabbracciare Iwa-chan, e questa volta sul serio.
Come al solito, stava passeggiando all’interno della stanza – conosceva ogni angolo a memoria adesso –, una mano sugli occhi, quando qualcuno bussò alla porta. Un omone grosso e ingombrante fece la sua apparizione sulla soglia. «Hai visite» annunciò.
Il ragazzo si stupì. Durante quel lungo tempo di prigionia, non gli era stato concesso di vedere nessuno, e francamente non credeva fosse possibile. L’uomo lasciò spazio all’ospite in questione, dopodiché si richiuse la porta alle spalle, rimanendo comunque a fare da guardia.
Oikawa tirò sul col naso non appena vide sua sorella Hoshi. Entrambi corsero ad abbracciare l’altro, stringendosi, e Tooru poté vedere il suo viso bagnarsi per via delle lacrime.
«Guarda come ti hanno ridotto…» disse, prendendo il viso del ragazzo tra le mani. Lui, comunque, fece di tutto per sorriderle.
Era felice di vederla. Almeno, poteva comunicare con qualcuno.
Si erano seduti al tavolo, e Hoshi cercò di parlargli del più e del meno, senza scendere troppo nei particolari o toccare argomenti troppo delicati. Tuttavia, sapeva che il fratello aspettava questo momento da più di due mesi: aveva bisogno di sapere cosa diavolo si fosse perso mentre lui era rinchiuso lì.
«Hoshi… Ho bisogno di sapere che novità ci sono.»
La ragazza alzò le spalle. «La vita è sempre la stessa qua su Sibun. Solo… Il Consiglio ha perso credibilità.» Fecero tutti e due un mezzo sorriso di vittoria. «Continua a governare, ma la gente sta cominciando a credere a quello che hai detto. Potrà sembrare assurdo, eppure molte persone hanno avuto almeno un caso di persona affetta dalla Sindrome in famiglia, anche nel passato.»
Continuavano a definirla una malattia, sbagliando, perché quella gente non era malata, non aveva problemi psichici. Diceva solo la verità, e come tutte le verità era troppo scomoda.
«Se vuoi saperlo, mio padre ha perso il suo posto sia come Capo dei Ricercatori, che come Ricercatore stesso.» Passò un dito sulla superficie impolverata del tavolo. «Tua madre l’ha cacciato fuori di casa a calci, avresti dovuto vederla!»
Oikawa sorrise, forse il primo vero sorriso da quando si trovava lì: sua madre poteva sembrare una donna tranquilla, ma in realtà era un peperino. Non gli veniva difficile immaginarla mentre cacciava via Rokuro, e in quel momento sentì il necessario bisogno di chiederle scusa per aver pensato male di lei; non aveva mai dimenticato il suo vero padre.
«E tu… tu come stai?» provò a chiedere il giovane.
Hoshi non aveva posto domande di questo tipo perché le condizioni del ragazzo erano palesi, e inoltre se avesse saputo che in quel posto subiva anche delle torture, probabilmente non avrebbe più risposto di sé. Oikawa le era estremamente grato per questa sua accortezza, e si chiese se non avesse sbagliato lui a porgliela. Anche per lei era evidente che le cose non stessero andando bene.
Stava per chiederle scusa, quando la sorella rispose ugualmente. «Per adesso, il mio lavoro di Ricercatrice è sospeso, dopo quanto successo alla Piramide.» Fece una risata amara per smorzare la tensione. «Dopo… si vedrà!»
Si riferiva a quello che sarebbe successo nel caso in cui la Nave non avrebbe fatto più ritorno. Mancavano solo poche ore alla scadenza, poi di Oikawa e di Hoshi avrebbero potuto farne quello che volevano. Lei si era salvata, fortunatamente era solo stata accusata, ma non sapevano a cosa sarebbe ammontata la sua pena, che cosa avrebbe dovuto scontare.
In confronto, liberarsi di lui era un gioco da ragazzi.
Posò un mano su quella della sorella, e la ragazza ricambiò subito la presa.
Fu allora che avvenne. Un rumore simile al ronzio di un motore fece rimbombare tutti le pareti della stanza, e i due si guardarono attorno, perplessi. Il divano si spostò di almeno due centimetri. Oikawa si alzò in piedi, cercando intravedere cosa stesse succedendo dalla finestra, e il suo cuore per poco non rischiò di arrestare il suo incessante battere. Adesso, i battiti erano velocissimi, quasi indistinguibili, mentre osservava K-2SO che atterrava dolcemente sulla Grande Piazza, il fulcro della cittadina.
Ce l’avevano fatta. Quella era la Nave che lui stesso aveva modificato.
Quella era la Nave guidata da Tobio. In quella Nave c’era Iwa-chan!
«Sono loro!» gridò Hoshi, lacrime di gioia che gli inumidivano gli occhi. Erano arrivati appena in tempo.
Il castano si diresse verso la porta, battendo incessantemente sul legno per farsi sentire dall’omaccione di prima. «Tiratemi fuori di qui!» urlò. «La navicella è arrivata, mi avevate promesso che sarei uscito non appena sarebbero tornati su Sibun!»
Un piccolo spiraglio si aprì dalla porta, e Oikawa poté vedere quegli occhi grigi e spenti puntati nei suoi. «Mi spiace, ma finché il Consiglio non ci da l’ordine, noi non possiamo rilasciare nessuno.»
«Cosa?» Oikawa parve indignato.
«Queste sono le procedure» e l’uomo richiuse lo spiraglio.
«Infami…» sibilò Hoshi tra i denti.
Iwaizumi era a due passi da lui, gli bastava davvero poco per poter sentire il suo calore di nuovo vicino, per poterlo rivedere ancora. Iwa-chan era tutto il suo mondo, ma le leggi di uno stupido mondo quale Sibun gli impedivano di vederlo, ancora una volta.
Cominciò a dare pugni alla porta. «Siete dei bastardi! Fatemi uscire immediatamente!»
Purtroppo, non continuò per molto, perché improvvisamente sentì una fitta fortissima appena sotto la costola. Cadde in ginocchio, sua sorella che gli fu subito accanto, preoccupatissima, ma lui non la sentiva, aveva un fastidiosissimo fischio dentro le orecchie che cancellava ogni suono. Cominciò a tossire senza smettere neanche per un attimo, e la sorella si accorse con orrore che il pavimento era macchiato di rosso. Un rosso più scuro delle altre volte.
Oikawa doveva uscire di lì. Ed anche in fretta.
«Vi prego, chiamate un dottore!» disse, mentre il ragazzo cercava di immagazzinare più aria possibile dopo quella serie di colpi di tosse. «Mio fratello sta male! Apra la porta, la prego!»
Per un paio di minuti, non successe nulla; poi, la serratura scattò e l’uomo di prima comparve davanti a loro. Ebbe solo il tempo di lanciare un’occhiata annoiata al giovane che quasi si contorceva per il dolore, prima di essere colpito dal fascio di un laser. Hoshi l’aveva tramortito, sparandogli un colpo.
L’allarme scattò quasi immediatamente, e la ragazza aiutò il fratello a rimettersi in piedi.
«Come diavolo hai fatto a…?»
«Credevi veramente che avrei lasciato tutte le mie armi a quegli idioti?» Gli fece l’occhiolino. «Ero già propensa a farti fuggire, per questo ho nascosto un’arma nello stivale. Dimentichi che ogni macchina ha le sue falle... Il sensore non si è accorto di nulla!»
Tooru fece un mezzo sorriso alla sorella: era davvero unica, e non sapeva in quali modi ringraziarla per tutto quello che aveva fatto per lui. Un altro colpo di tosse lo colse alla sprovvista, facendolo piegare in avanti.
Se lui stava così, allora voleva dire che anche Iwa-chan…
«Riesci a camminare…?»
Oikawa annuì. «Sì, posso farcela.»
«Allora muoviamoci, stanno arrivando!» Prese la pistola dalla tasca dell’uomo e proseguirono nella direzione opposta rispetto a quella da cui stavano arrivando le guardie.
Si rese conto che, al primo impatto, non si era accorto che i corridoi erano tutti uguali tra di loro. Fu difficile correre, perché un dolore lanciante sembrava che gli stesse perforando il polmone. Non aveva neanche la forza di tenere un’arma in mano, fece tutto sua sorella, sparando un colpo ogni volta che si trovavano davanti un nemico. Uscirono da una botola, e quando furono fuori Oikawa si rese conto di conoscere perfettamente quel posto: era la Sala Riunioni. Si trovavano proprio sotto la poltrona del Presidente.
Non ebbe il tempo di stupirsi per una cosa così deplorevole, perché lui e sorella stavano già correndo verso l’esterno. Riuscirono ad evitare ancora una volta la sicurezza – e per miracolo, oserei dire –, trovandosi poi per strada. Hoshi fu costretta a dover minacciare un pover uomo perché gli desse il suo furgone, ma alla fine non volevano fargli realmente del male.
Hoshi guidò a tutta velocità sfrecciando contro il vento, mentre Oikawa cominciava a sudare freddo.
Non ci vedeva più bene, respirare diventava un’attività quasi estenuante, e sentiva che le forze gli venivano meno. Aveva corso per tutto quel tempo e si sentiva esausto, ma aveva resistito fino ad allora, poteva resistere ancora per poco.
Iwa-chan era lì, lo stava aspettando.
La Grande Piazza pullulava già di gente quando arrivarono, e passare con un veicolo di quella portata era quasi impossibile.
«Mi chiedo perché non siano andati alla Base…» disse Hoshi, slacciandosi la cintura, imitata poi dal fratello.
Lo prese per mano, e in un attimo stava già spintonando la gente senza troppe cerimonie per lasciarlo passare. Intanto, lui teneva gli occhi sul retro della navicella, adesso aperto e da cui scendevano delle persone vestite con dei camici. Il piccoletto apparve in un secondo momento, urlando qualcosa alla folla che, purtroppo, Oikawa non riuscì a captare.
Inciampò poco dopo, trovandosi di nuovo per terra.
«Coraggio, Oikawa, manca poco!»
Un brivido. Una scarica.
Qualcosa lo trapassò dalla testa ai piedi, come un fulmine. Era come se la pesantezza dovuta a quel dolore immane stesse piano piano svanendo. Era come se gli stessero portando via qualcosa di indispensabile per la sua esistenza.
Cominciò a tremare, gli occhi ora completamente spalancati. «Sta morendo…»
«Cosa?»
Gli occhi erano su Hoshi, ma in realtà non stava guardando lei; nella sua mente, aveva ben chiare tutte le immagini di Iwa-chan, da quando l’aveva visto la prima volta, a quando gli aveva confessato di essere un abitante della Terra, a quando l’aveva baciato, a quando avevano fatto l’amore. Quel ragazzo era entrato prepotentemente nella sua vita, mettendola sottosopra, eppure a lui non importava. Con lui, provava una felicità che non credeva di meritarsi.
Non poteva…
Si rimise in piedi, dando voce a quella poca forza che gli era rimasta, e questa volta fu lui a correre verso la navicella, lasciando la sorella indietro. E quando raggiunse la sua meta, la scena gli fece raggelare il sangue nelle vene.
«Oikawa-san, meno male che è arrivato!» disse Hinata di fianco a lui. «Iwaizumi-san sta malissimo, c’è bisogno di un medico!»
Sentì la voce di Hoshi alle sue spalle, probabilmente stava chiamando qualche dottore, ma per il resto la sua mente e il suo corpo erano catapultati altrove, come se fosse qualcun altro a vivere quella scena, non lui stesso. Non appena aveva messo piede dentro la navicella, qualcosa si era reciso in lui. Un legame, fortissimo, lo stesso che gli aveva permesso di sentire la voce di Hajime quando stava per morire.
Un flusso lo attraversò, e Oikawa avrebbe voluto catturarlo, farlo tornare indietro, ma oramai era troppo tardi.
Fece un paio di passi verso la figura di Iwaizumi, disteso su una brandina, un uomo che lo scuoteva e lo chiamava per nome. Quasi si spaventò a vedersi comparire quella figura accanto, sembrava un povera anima in pena che vagava senza uno scopo preciso.
Si pose anche lui accanto al corpo di Hajime, boccheggiante, le mani che tremavano. Cominciò a piangere immediatamente. «Non sento niente…»
Nessuno parve capire quello che stesse dicendo, se non Kageyama e Hinata, che spalancarono subito gli occhi.
«Non sento più dolore…» continuò Oikawa, le lacrime che continuavano a solcare incessantemente il suo viso.
«Che cosa significa che non senti più dolore…?» Hoshi parlava, sempre più sconvolta.
«Quando – Kageyama cercò di trovare le parole giuste, mentre la sorella del suo ex-senpai lo stava guardando – una persona con la Sindrome dice di non sentire più il dolore dell’altro, è perché quello…» Non riuscì a completare la frase, e abbassò lo sguardo, come molti altri all’interno della navicella.
«No…» mormorò l’uomo che stava di fianco a Oikawa – e che con ogni probabilità era il padre di Iwa-chan.
Le mani del giovane continuavano a tremare, e non riusciva a toccarlo, aveva paura si sentire quel corpo diventare freddo tra le dita. Semplicemente, chiuse quelle mani a pugno, tra di loro, e le calò sul petto di Hajime con forza, proprio all’altezza del cuore.
«Sei uno sporco bugiardo!» urlò, continuando a colpire con forza. «Mi avevi promesso che non saresti morto, Hajime! Me l’avevi promesso!»
Stava per dare un altro colpo, ma decise di lasciare perdere. Era finita. Era arrivato troppo tardi.
Posò la fronte contro il petto del giovane, continuando a piangere. «Me l’avevi promesso…» mormorò, per poi cominciare a urlare come un disperato.
Faceva più male del dolore fisico. L’aveva perso. Tutto il suo mondo, l’aveva appena perso e senza che avesse potuto dirgli addio almeno un’ultima volta.
Nessuno osò dire nulla all’interno del piccolo abitacolo, solo le urla di Tooru riempirono l’ambiente e, addirittura, una parte della piazza. Le urla, dopo interminabili minuti di sofferenza, si trasformarono in singhiozzi, e fu allora che il castano sentì una mano che si insinuava tra i suoi capelli.
Conosceva perfettamente quel tocco…
«Mio dio, Hajime!»
Tooru alzò la testa di scatto, e li vide: erano semichiusi, ma quegli occhi verde brillante c’erano ancora; respirava a tentoni, ma Iwa-chan c’era ancora. Era vivo, non l’aveva abbandonato.
Tutti tirarono un sospiro di sollievo, quasi increduli per quello che era appena successo. Lo stesso Oikawa sentiva dentro si sé delle emozioni che non sapeva come descrivere, erano contrastanti, e avrebbe aspettato che fluissero via prima di registrarle.
«Iwa-chan…?» fu l’unica cosa che riuscì a dire.
Il ragazzo in questione cercò di parlare, nonostante la fatica. «Io… mantengo… le promesse…»
Ecco, ora sì che poteva tirare un sospiro di sollievo e ridere, ridere nonostante le lacrime. Perché Iwa-chan era lì accanto a lui e aveva tenuto fede alla sua promessa.
Gli diede un veloce bacio a stampo, prima che i medici arrivassero e lo portassero via.







«Sei sicuro di non sentire più niente?»
Oikawa annuì, ancora stralunato, una mano che si muoveva su e giù sul braccio, come a volersi riscaldare. Sentiva ancora il freddo della morte addosso, e aveva ancora il bruttissimo presentimento che quello fosse un sogno e che in realtà Iwa-chan era...
«Non sento più il suo dolore» disse, quasi come se fosse una nenia. «Non so cosa gli stiano facendo...»
«Ehi.» Hoshi si era alzata dalla sedia di plastica e gli aveva messo le mani sul volto. «Andrà tutto bene, okay?»
Ci pensò un po’ prima di annuire.
I medici erano arrivati quasi subito, e avevano trasportato Iwa-chan su una barella. Erano arrivati in ospedale pochi minuti dopo, seguendo il veicolo, e avevano percorso un corridoio infinito, finché Oikawa non fu costretto a lasciargli la mano e a vederlo entrare in Sala Operatoria. Erano lì da nove ore e nessun medico si era fatto vivo. Tutti temevano il peggio, ma quello ad essere più in apprensione era proprio Oikawa. Il poter sentire il dolore di Iwa-chan era un vantaggio, perché sapeva esattamente come stesse in ogni momento possibile, ma adesso... 
Adesso, in un momento cruciale, aveva smesso di percepirlo, e la paura che potesse morire per davvero gli montava dentro e gli ostruiva la gola.
Era appoggiato a una parete bianco chiaro, ed aveva fissato le mattonelle color indaco per tutto quel tempo. L'aria sapeva di disinfettante, ma il naso aveva smesso di prudere già sei ore prima.
Alzò lo sguardo verso il gruppo che stava seduto sulle sedie verdi davanti a lui. Kageyama e Hinata dovevano fare rapporto, per cui non erano potuti venire con loro, ma volevano essere ugualmente informati; c'erano un uomo e una donna, e Oikawa pensò che si trattassero dei genitori di Haruka; c'era anche un ragazzo, doveva essere quello che aveva aiutato Iwa-chan, e poi c'erano due uomini. Uno doveva essere il padre del ragazzo, mentre l'altro era sicuramente il padre di Iwa-chan. Si assomigliavano parecchio.
«Lei lo sapeva?» disse, rivolto a lui, e le spalle dell'uomo sussultarono appena. I suoi occhi verdi e spenti incontrarono quelli scuri del giovane.
Annuì, e Oikawa dovette fare uno sforzo immane per imporre alle sue labbra di muoversi. «Posso sapere che cosa ha...?»
L'aveva intuito, in un modo o nell'altro, i sintomi non lasciavano presagire nulla di buono. Sperava solo di essersi sbagliato.
L'uomo si grattò la nuca, cercando di trovare le parole giuste, ma non ce ne fu bisogno. Finalmente, dopo una lunghissima attesa, il gruppo vide uscire dei medici dalla Sala Operatoria, accompagnati da alcune infermiere.
Fu una di queste ad avvicinarsi verso di loro, un'espressione neutra sul viso. Oikawa strinse i pugni lungo i fianchi per impedire alle mani di cominciare a tremare.
«É stato molto fortunato» disse, con franchezza. «Altre ventiquattro ore, e forse il polmone sarebbe collassato. In quel caso, non avremmo potuto fare niente...»
Era quasi sul punto di ricominciare a piangere di nuovo, ma si impose di rimanere lucido.
«Il tumore aveva già preso tutto il polmone sinistro, abbiamo dovuto asportaglielo e mettergli un prototipo meccanico. Il suo corpo ha reagito bene, per cui non dovrebbe rigettarlo. Il tumore si era spostato anche nell'altro polmone, ma lì abbiamo rimosso solo un lobo...»
Erano troppe informazioni e pesavano come macigni, lo schiacciavano per terra. Le unghie si conficcarono nelle carne, ma quel dolore faceva meno male di quello che sentiva al cuore.
«Come sta...?» riuscì a chiedere, dopo interminabili attimi di silenzio.
E per la prima volta, l'infermiera sorrise, ed era un sorriso sincero. «Deve seguire una particolare terapia, ma starà bene... Non ho mai visto una persona con una tale forza di volontà in vita mia, credimi!»
Oikawa ebbe la sensazione di aver ricominciato a respirare solo in quel momento. Si passò una mano sul viso, come a trattenere le lacrime, questa volta di gioia.
«Grazie...» disse, senza che fosse rivolto a qualcuno in particolare.
La donna sorrise ancora, per poi rivolgersi al padre di Iwaizumi. «Lei è il genitore?» L'uomo aveva dovuto appoggiarsi alla parete mentre la donna parlava. Aveva rischiato di perdere anche suo figlio. Non ebbe bisogno di risposte. «Può vederlo, se vuole, dovrebbe già essere nella sua stanza.»
Guardò prima l'infermiera e poi Tooru, per poi dire. «Lasci che sia il ragazzo a vederlo.»
La conosceva perfettamente quell’espressione, era la stessa che aveva lui quando guardava sua moglie. Non sapeva in che modo, non sapeva come, ma era stato quel ragazzo a far cambiare suo figlio, a fargli ritrovare la forza di andare avanti.
Lui non aveva avuto la fortuna di riabbracciare sua moglie... ma non avrebbe mai privato qualcun’altro di una tale fortuna.
Oikawa ne fu sorpreso, e tutto quello che riuscì a fare fu chinare il capo per ringraziarlo.
«Non appena ti immetti nel corridoio, è la seconda porta sulla destra» gli spiegò l'infermiera.
Non ci mise molto ad arrivare. Premette il pulsante, e la porta gli apparve davanti, aprendosi.
La scena gli fece rizzare le carni: Iwa-chan era disteso su un lettino ed era attaccato a un respiratore artificiale, e ad altre macchine che Oikawa non conosceva. Un'altra infermiera stava sistemando gli ultimi fili, gli sorrise e poi lasciò la stanza da una porta secondaria e che portava direttamente alle sale operatorie.
Il ragazzo aprì gli occhi, e vedendosi Oikawa in piedi lì accanto, un cardigan malandato e troppo grande per lui addosso, aprì la bocca, con l'intento di parlare.
Il castano lo zittì. «É meglio se non ti sforzi...»
Si sedette su una sedia, avvicinandola un po’ di più verso di lui. Gli prese la mano e cominciò a stringere forte. Era calda.
«Sai, adesso non sento più dolore» disse, provando ad abbozzare un sorriso. «Quindi, se sono qui accanto a te, è per questo motivo.»
Le lacrime gli offuscarono la vista, e sentì il necessario bisogno di aumentare la presa sulle dita dell'altro. Aveva bisogno di sapere che quel momento era reale e che Iwa-chan era ancora vivo.
Prese un profondo respiro. «Perciò, non so come tu ti senta, se stai veramente meglio, o...» Un singulto lo fece interrompere. «E quando eravamo sulla Nave, io... ho temuto il peggio, ho cominciato a prenderti a pugni, e tu non ti risvegliavi... Sembravi morto...»
Abbassò lo sguardo, in preda ai singhiozzi. «Hajime...» mormorò. «Ti amo tanto... tantissimo...»
Bastò un attimo, e Oikawa avvertì la mano del ragazzo scivolare dalle sue dita per andarsi a posare sulla sua guancia umida.
Quegli occhi color cioccolato ancora colmi di lacrime si posarono su quelli di Hajime, semiaperti ma più attenti che mai. Le sue labbra, incurvate in un piccolo sorriso, sillabarono la parola: “anch'io”
Oikawa rise, le sue dita che si intrecciavano con quelle ancora posate sulla sua guancia. E rimasero così per tutto il tempo a disposizione 

 





Atto terzo
 





Sei mesi dopo…







Quei corridoi d’ospedale, oramai, li conosceva a memoria, come anche i volti delle infermiere e dei medici. Sapeva chi era realmente educato e gentile, e chi invece salutava per convenzione. L’infermiera che era stata in sala operatoria con Iwa-chan gli passò vicino, salutandolo con un sorriso e con un cenno della mano, cui ricambiò ben volentieri.
L’ospedale si era riempito, nell’ultimo periodo, e i pazienti per la maggior parte erano persone provenienti dal pianeta Terra. C’era stato un vero e proprio esodo, il Consiglio aveva dovuto ammettere i suoi sbagli se non voleva che si scatenasse una rivoluzione, e aveva acconsentito alla partenza in massa di alcune navicelle per portare su Sibun più terresti possibili. Per adesso si trovano lì, ma alcuni in seguito si sarebbero trasferiti su Cnosso e Festo; anche se non avevano salvato tutti quanti gli abitanti del pianeta, poiché molti erano già in fin di vita e in condizioni pessime, e altri avevano deciso di rimanere lì, troppo diffidenti per fidarsi di gente che diceva che avrebbe potuto salvarli. In sostanza, avevano preso solo un quarto delle persone ancora vive sul pianeta – e bisognava dire che la popolazione terrestre si era notevolmente dimezzata, se non di più.
Oikawa si era occupato personalmente della manutenzione delle nuove Navi Passeggeri, aiutato da tutti quanti gli ingegneri delle altre scuderie, e avevano deciso di battezzarle sotto il nome di OIKS, in riferimento al suo nome. Si era sentito particolarmente onorato: non era diventato campione, ma aveva comunque ricevuto un posto all’interno del Consiglio, dopo che gente come Rokuro e lo stesso Presidente erano stati fatti fuori, mentre sua sorella Hoshi sedeva come capo del Dipartimento dei Ricercatori, al posto del padre. Aveva riottenuto il suo incarico, e Oikawa si disse che nonostante tutto non avrebbe mai rinunciato a correre. La sconfitta ancora bruciava.
Sarebbe voluto partire anch’egli per la Terra, in fondo l’aveva persino studiata, tuttavia non se la sentiva di abbandonare Iwa-chan mentre stava seguendo la terapia. Ed era nella sua stanza che si stava recando, dopo aver avuto una riunione con i membri del Consiglio.
Fu mentre stava camminando che qualcosa si avvinghiò alla sua gamba, all’improvviso. Oikawa sapeva perfettamente di cosa si trattava, o meglio di chi. Abbassò la testa, trovando una faccina tonda che lo fissava, chiazzata sulle guance di bianco mentre al centro era scura come il cioccolato. Non poté evitare di sorriderle.
«Ciao mostriciattolo!» disse, e su quel visino apparve un sorriso perfetto e smagliante.
«Oikawa-san!» Il castano alzò lo sguardo, trovandosi una delle infermiere che si dirigeva verso di lui. Prese quella creatura in braccio, staccandola dalla gamba del giovane, e quella produsse un lamento soffocato. «Mi dispiace, è scappata un’altra volta…»
«Non si preoccupi» disse, sorridendo.
Due manine bianche tesero verso di lui. «Kawa» mormorò una vocina.
Quella bambina di due anni era arrivata sul pianeta dopo la prima spedizione. A quanto pare, i suoi genitori erano morti durante una tempesta – che i terresti definivano con l’appellativo di “rossa” –, e lei era riuscita a salvarsi per miracolo. Erano una bambina un po’ particolare, perché la pelle era scura in alcuni punti, ma chiarissima in altri: era una cosa che non si era mai vista su Sibun, tutti quanti avevano sempre avuto la pelle perfetta. Iwa-chan gli aveva spiegato che aveva la vitiligine, una malattia dovuta alla mancanza di melanina, nulla di grave. A quanto pare, però, per gli scienziati quella bambina era diventato oggetto delle loro ricerche e dei loro studi, tanto che erano quasi tentati di portarla in laboratorio, ma Oikawa gliel’aveva severamente proibito.
Non sapeva perché, ma quella bambina lo seguiva ovunque, sempre, ogni volta che bazzicava lì. L’aveva vista solo una volta, attraverso il vetro da cui si vedeva la sala giochi per i bambini malati, ed era rimasto colpito da quelle macchie, come tutti all’interno dell’ospedale. Da quel momento, faceva di tutto per scappare e attaccarsi a lui. Era una bambina fin troppo sveglia, e Oikawa aveva finito per affezionarsi, anche se non l’avrebbe ammesso mai. Poteva sembrare uno che odiasse i bambini, all’apparenza, ma in realtà non era così.
Stinse tra l’indice e il pollice quella minuscola manina, e la bambina rise, talmente forte che il rumore risuonò per tutto il corridoio.
«Posso tenerla io, se vuole» sbottò poi, senza smettere di sorridere.
«Come dice?»
«Mah sì, tanto sono sicuro che troverà un altro modo per seguirmi e uscire!» Poi si rivolse alla bambina. «Ti va di andare a trovare quel musone di Iwa-chan, eh?»
Forse la bambina non aveva capito, ma batté comunque le mani, entusiasta, e l’infermiera si decise a lasciargliela in braccio. Fecero pochi metri, prima di raggiungere la stanza di Hajime; fece premere il bottone alla bambina, e in un attimo furono dentro la stanza.
«Guarda chi è venuto a trovarti, Iwa-chan!» disse, non appena fece la sua comparsa.
«Zumi» disse subito la bambina, e il ragazzo rimase un po’ stupito. Non perché avesse qualcosa contro quella bambina, ma perché lo stupiva che Oikawa l’avesse portata lì.
«Oh, ciao Jun!» disse poi all’indirizzo del ragazzo, che lo salutò a sua volta. «Tutto bene? Tu e tuo padre vi trovate bene nella nuova casa?»
«Molto bene, grazie!» Lui e suo padre vivevano in un’unica casa assieme ai genitori di Haruka e al padre di Hajime, poco distante da una casa che Oikawa aveva già riservato a lui e al suo ragazzo. Capendo di essere di troppo, decise di togliere il disturbo. «Allora ci vediamo, Iwaizumi-san!»
Fu quando Jun uscì dalla stanza che Oikawa si sedette sulla sedia, la bambina sulle sue gambe. «Che c’è?» disse poi, notando come Hajime lo stesse squadrando dall’alto in basso.
Indicò la bambina. «E tu vuoi farmi seriamente credere che non ti sta a cuore?»
«Non mi sta a cuore!» esclamò, seccato. «Si è attaccata alla mia gamba, come al solito, e ho detto all’infermiera che ci avrei pensato io! Sarebbe comunque arrivata qui, è peggio di un animale!»
«Ma non avrebbe potuto aprire la porta…»
«Ti saresti alzato tu ad aprirla nel momento in cui l’avremmo sentita piangere?»
Calò per un attimo il silenzio, finché la bambina non interruppe quel gioco di sguardi chiamando nuovamente il ragazzo. «Zumi.»
Allungò una manina verso di lui, e Hajime le offrì in cambio un dito, che lei stinse come se fosse un oggetto di vitale importanza. Fece un sorriso, anche se era velato di tristezza.
«Nessuno ha ancora deciso di adottarla?» chiese.
Oikawa scosse la testa. «Probabilmente è per via di queste macchie…»
«Bah, non vedo dove sia il problema…»
Non dissero più nulla, limitandosi a guardare quella creaturina che osservava la stanza con attenzione; ogni tanto andava indicando degli oggetti e ne ripeteva il nome, seppur storpiato.
«Oikawa, devo dirti una cosa…»
Il castano avvertì un brivido lungo la schiena. Non gli piaceva quando Hajime usava quel tono di voce.
«Stamattina ho parlato col mio medico» cominciò. «Mi ha detto che sto facendo dei passi da gigante e che la terapia ha dato i suoi frutti. Il polmone nuovo funziona alla grande, per cui non dovrebbero esserci problemi…»
Fu interrotto dal ragazzo. «Un attimo, mi stai dicendo che sei guarito?»
Iwaizumi si lasciò sfuggire un sorriso. «Domani mi rilasciano.»
«Iwa-chan! È una notizia bellissima! Perché devi sempre parlare con un tono di voce così tragico?» urlò, e nella foga si sporse appena verso di lui per stampargli un bacio sulle labbra. Succhiò appena il labbro inferiore, giusto per sentire il sapore dell’altro sulla lingua, un pizzicore che gli lasciava un fremito lungo tutto il corpo.
Furono interrotti da un piccolo gemito, ed entrambi si sporsero verso la bambina. Stava indicando una delle navicelle che stava per attraccare alla Base.
«Eppure, sai… Forse dovremmo prenderla noi.»
Iwaizumi rimase stupito. Un attimo prima si stavano baciando, adesso da dove gli era uscita questa affermazione?
«Ma non avevi detto che non ci tenevi?»
«Sto solo pensando che noi due sembriamo gli unici a non avere problemi con questa sua malattia» disse, alzando le spalle e osservando le chiazze bianche che aveva sparse un po’ in tutto il corpo. «Potremmo portarla a casa e darle un nome, magari…»
«Guarda che è una bambina, non un animale domestico, Shittykawa!» lo rimproverò Hajime. «E poi, scusami, non ha già un nome?»
Effettivamente, conosceva quella bambina da quasi sei mesi e non aveva ancora capito come si chiamasse.
«Non hanno trovato nulla su di lei, tutto quello che la sua famiglia aveva è andato distrutto…» disse, facendo tremolare il ginocchio in modo che la bambina potesse giocare. Si stava divertendo un mondo.
«E tu pensi che saremmo in grado di fare i genitori?»
«Non lo so…» ammise Oikawa, tristemente. «Però, intanto vorrei darle un nome.»
Stava accadendo tutto troppo in fretta. E va bene che adesso stavano ufficialmente assieme, va bene che anche lui aveva finito per affezionarsi a quella bambina, ridendo dell’esasperazione di Oikawa ogni volta che se la trovava al seguito, ma… Non si sentiva pronto. Ne se la sentiva di prendersi cura di una creatura così piccola, non ancora. La ferita lasciata da Haruka bruciava ancora.
«E che nome vorresti darle?» disse, roteando gli occhi.
Tooru sembrò pensarci su, gli occhi bassi. «Che ne dici di Haruka?»
Per un attimo, Hajime credette che il suo cuore avesse smesso di battere. Le sue dita artigliarono le lenzuola, per poi lasciarle andare poco dopo. Non se l’aspettava, non una domanda del genere. Oikawa non l’aveva detto con cattiveria, o per via della sua mancanza di tatto, solo perché sapeva quanto ci tenesse Iwa-chan a quella bambina. Nessuno avrebbe mai potuto sostituirla, questo lo sapeva bene… voleva solo dimostrargli che lui era già stato una sorta di genitore per lei, e che avrebbe potuto farlo ancora. E proprio per questo, Oikawa voleva darle quel nome. 
L’espressione ferita del ragazzo, però, lo fece ricredere su tutto. «Scusami… Non volevo…»
«No» disse, deglutendo, gli occhi coperti da una sottile patina lucida. La bambina lo stava fissando con la testa inclinata, gli occhietti verde acqua che sembravano brillare. Hajime le passò una mano su quella piccola testolina scura, e sorrise. «Le sta bene…»
Oikawa sorrise, e non ebbe bisogno di altro per sapere che un altro piccolo mondo stava entrando a far parte del loro sistema.

 


Fine

 
 
Domande? 
Perché questo prompt? Cito questa affermazione di Einstein anche nella storia. La conoscevo già da prima, e ho sempre pensato che quell'uomo avesse seriamente ragione...
Le navicelle di Sibun superano la velocità della luce? Take the reference... *silenzio* Okay, cito Star Trek. L'Enterprise supera la velocità della luce. Inoltre, l'idea del viaggio che dura ottanta giorni, prende anche spunto da: "Il giro del mondo in ottanta giorni". Sono stupida, lo so... Oh, e mi sono dimenticata di dire che la rotazione di Sibun è simile a quella della Terra, si distanziano solo di poche ore;
Come mai la navicella prima si surriscalda e poi diventa fredda durante la discesa? Mi baso sulla temperatura dei vari strati dell'atmosfera. Qui per ulteriori informazioni (anche se lo so che vi preme sapere se Kageyama e Hinata si sono messi assieme… E la risposta è sì :’3)
Come mai Oikawa non sente più dolore? Perché si é ricongiunto con Iwa-chan, di conseguenza non è più necessario che senta il suo dolore, non sono più distanti come prima;
Perché proprio la vitiligine? Mi sono lasciata ispirare da questa modella, che personalmente trovo bellissima nonostante la sua malattia. E non potete capire, la mia mente già viaggia oltre, e se mai dovesse esserci un qualsiasi altro contest io lo so che scriverò qualche raccolta di Shot su questi due papà adorabili con questa bambina *piange forte*
Era proprio necessario chiamarla Haruka? Sì. Dovevo farmi perdonare... (forse...)
Qualche riferimento? Solo per quanto riguarda la malattia di Hajime. Sui sintomi, ho preso spunto da questo sito (e vi trollato alla grande, AHAHAHAHAH *le danno fuoco*)
Ringraziamenti vari: a Kotomi per aver recensito tutti i capitoli, e a unamoresolitario. A chi a messo la storia tra le seguite o le preferite <3
Alla mia beta, sempre e comunque. Adesso, hai trovato un motivo per odiarmi.
E ancora una volta, a Alexys_Tenshi <3
Grazie ancora a Fanwriter.it e a Torre di Carta, per aver organizzato questo evento, permettendomi di scrivere qualcosa su un tema che non ho mai trattato. È stato un parto, ma alla fine mi sono pure divertita :’) <3 
Che dire, ci si vede pirati spaziali! <3 
*sparisce in una nuvola color viola*
_Lady di inchiostro_
 
  
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