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Autore: Tury    07/04/2017    3 recensioni
Fan fiction partecipante al contest History!AU indetto dal gruppo CLEXA/ELYCIA/LEXARK Gruppo di SUPPORTO italiano
La storia si basa sull'omonimo film dedicato alla vita di Modigliani.
Tratto dal primo capitolo:
«Voglio dipingerti, Lexa. Voglio ritrarti. E, se un giorno avrò fortuna…»
«Cosa?»
Clarke si avvicinò pericolosamente alla ragazza, che si impose di non indietreggiare.
«Se un giorno avrò fortuna… io dipingerò i tuoi occhi, Lexa».
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa, Titus
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Sapete cos'è l'amore? Quello vero?
Avete mai amato così profondamente
 da condannare voi stessi all'inferno
per l'eternità?
Io l'ho fatto.
 
 
 
Ricordava ancora il primo giorno in cui aveva incrociato quegli occhi.
Era il 1917, un anno che non avrebbe mai dimenticato, perché decretò la sua seconda nascita, il suo ritorno alla vita.
All’epoca, il mondo era dilaniato dalla Grande Guerra, quel sanguinoso conflitto nella cui morsa d’acciaio era imprigionato il loro presente.
L’età d’oro di una generazione perduta¹.
Eppure, Lexa non intendeva porre quei suoi giorni, quel suo presente, sul freddo marmo di un altare sacrificale.
E così, decise di coltivare la sua vocazione artistica, iscrivendosi all’Académie Colarossi di Parigi.
L’accademia era sita al numero 10 della rue de la Grande-Chaumiere, nella IV arrondissement, sulla riva sinistra della Senna.
La Colarossi, insieme all’Académie Julian, non solo aveva aperto le sue porte alle donne, ma permetteva alle giovani studentesse di poter ritrarre nudi maschili.
Un aspetto che, indubbiamente, all’epoca, scatenò il disappunto di buona parte del popolo francese, ma che ebbe anche, come risultato, quello di richiamare, nel suo ospitale ventre, tante giovani donne affamate di libertà e votate ai movimenti per l’emancipazione femminile.
E, in quel silenzioso esercito, armato solo di forza, desiderio, ideali e intelletto, marciava anche Lexa Wood.

Il giorno in cui la vide per la prima volta, la pioggia cadeva dal cielo, in una silenziosa danza.
Lei era lì, seduta sul davanzale di una finestra, a guardare le gocce scivolar piano lungo i vetri sporchi.
Immobile, come una statua greca.
Gli occhi cerulei persi nella contemplazione della natura, le labbra, piene e rosee, leggermente dischiuse.
Ogni parte di quel corpo sinuoso esprimeva fierezza e forza.
Se Lexa avesse dovuto rappresentare Atena, dea della sapienza, delle arti, della tessitura e della strategia militare, avrebbe impresso sulla carta proprio quelle forme.
Nero su bianco, per poter rubare quell’attimo al tempo.
Rendendolo immortale.
Ma proprio quando decise di aprire il suo taccuino, suo unico e inseparabile amico, per poterla ritrarre, gli occhi della giovane donna abbandonarono lo spettacolo che fino a quel momento avevano ammirato, per posarsi sulla sua persona.
Uno sguardo vitreo, distante, come le acque di un lago ghiacciato, capaci di distorcere la realtà, fino a metterla a nudo.
Eppure languido, caldo, come lava incandescente. Come quel sole pulsante, bruciante di pura vitalità.
E, a quello sguardo, Lexa non seppe resistere.
Così, abbassò i suoi occhi di smeraldo e scappò via, lasciando dietro di sé un fugace sorriso su quel volto d’angelo.

Un ruggito squarciò il silenzio di quell’angusta sala.
La belva dall’oscuro manto si agitava nella gabbia di ferro, le zanne scoperte, le pupille dilatate, pronte a cogliere anche il minimo movimento.
Il sudore colava sulla fronte di messer Moreau, mentre tentava di placare la bestia, invano.
Il bastone in pugno, le ginocchia leggermente piegate, l’anziano maestro si muoveva a piccoli passi, come se fosse impegnato in una danza con quel selvaggio animale, pervenuto dalle foreste dell’Assam per poter essere oggetto di esercitazione per le giovani fanciulle sedute in quell’aula.
La tensione nella sala era quasi tangibile, gli sguardi delle allieve erano protesi a cogliere ogni minima sfumatura di quell’insolito duello, i respiri quasi assenti, come se temessero di disturbare il gran maestro.
Dopo l’ennesimo giro intorno alla gabbia, l’uomo spinse il suo bastone tra le sbarre, nel tentativo di colpire la bestia, che, purtroppo per lui, si dimostrò più agile, strappandogli l’arma dalle mani e rendendolo improvvisamente vulnerabile.
Una risata proruppe nel silenzio assordante dell’aula, facendo sussultare le ragazze e andando ad imprimere un’espressione di pura ira sul volto dell’unico uomo presente.
«Chi va là? Chi ride così sguaiatamente?» chiese messer Morreau, le parole frammentate a causa dell’affanno.
«Ma ovviamente io, messer maestro» rispose la ragazza che, fino a quel momento, era rimasta nascosta in un angolo d’ombra nel fondo della sala.
Sul volto dell’uomo si disegnò un’espressione di assoluto disgusto, nell’attimo in cui riconobbe la sua interlocutrice.
«Griffin. A cosa dobbiamo l’onore della sua sudicia presenza?»
La ragazza rise di nuovo, mentre scendeva i pochi scalini che la separavano dall’uomo, le mani abbandonate nelle tasche dei suoi calzoni, decisamente troppo larghi per lei.
«Sudicia? È per via dei capelli, messer?»
In quel momento, infatti, i capelli della giovane donna, solitamente di un colore biondo cenere, presentavano uno strano colore rosso e terra e fango macchiavano la sua pelle e i suoi abiti.
«Credo che i capelli siano l’unica cosa che si salvi, signorina Griffin».
Un sorriso irriverente si allargò sul volto della giovane.
«E così le piacciono le rosse, messer Morreau. Ma faccia attenzione, si dice che graffino parecchio, se sa cosa intendo».
Il volto dell’uomo si tese, delineando in maniera chiara i muscoli del volto, resi rigidi dall’ira.
«Griffin, io non le permetto-»
«Cosa, messer Morreau?- lo interruppe la giovane, con voce fintamente innocente- Le mie parole le hanno forse recato offesa? In tal caso mi scuso, ma mi hanno sempre detto che è buona norma, per una gentil donzella, dire la verità».
«Lei sarà dispensata sicuramente da tale insegnamento, Griffin, dal momento che la gentilezza non è nelle sue virtù e per quanto riguarda la sua femminilità, quest’ultimo aspetto è ampiamente discutibile»
«Come è discutibile la sua capacità di saper gestire un animale selvatico. Mi dica, messer, come mai un uomo che non sa gestire un gatto si veste dell’ardire di portare un simile esemplare al cospetto di indifese fanciulle?»
L’uomo restò per qualche secondo in silenzio, gli occhi che lanciavano lampi di ira, mentre osservava quella ragazza scompostamente seduta su uno dei primi banchi.
«Vedo che oggi è in vena di spacconerie, signorina Griffin- disse infine, la voce ridotta ad un velenoso sibilo- Allora perché non ci mostra come domare questa pantera?»
«Leopardo nero» l’apostrofò la ragazza.
«Prego?»
«Il termine “pantera” è semanticamente errato, messer, dal momento che questo termine viene usato per raggruppare tutti quegli esemplari di alcune famiglie dei felidi che presentano il manto nero.
Nel caso in questione, ci troviamo di fronte ad un leopardo nero. Ma tornando a noi e alla sua richiesta, sarò ben felice di mostrarle come addomesticare questo gattino cresciuto un po’ troppo».
La ragazza si avvicinò all’uomo, prendendo possesso delle chiavi che erano legate alla sua cintola, senza chiedere il permesso e non dandogli il tempo di protestare.
Con un movimento fluido si voltò, inserendo la chiave nella serratura, aprendo la gabbia ed entrandoci deliberatamente, tra le urla delle ragazze.
Una volta dentro, richiuse la pesante porta alle sue spalle, lanciando le chiavi al maestro.
«Le tenga pure lei e ne faccia ciò che vuole. Tanto so che non aprirebbe mai questa gabbia, nemmeno se mi vedesse morire sotto i suoi occhi».
«È stata una sua decisione, quella di entrare, signorina Griffin. Si prenda le responsabilità delle sue azioni».
«Ma sua è stata l’idea di lanciarmi la sfida- rispose la ragazza, piegandosi sulle ginocchia, mentre i suoi occhi studiavano l’animale che le camminava di fronte- Ma non si preoccupi, lei non dovrà prendersi la responsabilità delle sue azioni, perché non vi saranno conseguenze macabre».
Così dicendo, la ragazza si lanciò sul leopardo, anticipando il suo attacco.
Le sue braccia si serrarono intorno alla gola dell’animale, mentre le sue gambe si chiusero sui suoi fianchi.
Nessuno riuscì ben a comprendere cosa successe nei pochi secondi che seguirono quell’impavida iniziativa, ma quando la giovane donna richiese le chiavi al maestro, la testa del leopardo era premuta contro il suo petto e calde fusa avevano preso il posto dei suoi temibili ruggiti.
Una volta uscita dalla gabbia, la ragazza si pulì gli abiti con fare teatrale, ben consapevole che ci sarebbe voluto ben altro per ridare un aspetto presentabile a quelle vesti, per poi spostare lo sguardo sul volto esangue dell’uomo.
«Sa, messer Morreau, c’è una cosa che proprio non so spiegarmi».
«Cosa… cosa non riesce a spiegarsi, Griffin?» rispose il maestro, tentando di impostare la propria voce.
«Tutto questo- rispose la ragazza, allargando le braccia- Non dobbiamo continuare a cercare, messer maestro. Il futuro dell’arte è nel volto di una donna».
E, mentre proferiva le ultime parole, si voltò verso l’aula, lasciando che i suoi occhi si incatenassero a quelli di Lexa, legandola con quel semplice gesto.
Continuando a guardarla, lasciò l’aula, tra il silenzio sbalordito degli astanti.  
Solo allora, la ragazza dagli occhi smeraldo si rilassò, poggiandosi allo schienale della sua sedia e chiudendo per un attimo gli occhi.
Ora capiva perché tutti la chiamassero Wanheda.


A fine lezione, Lexa raccolse il suo materiale e si diresse verso l’uscita, consapevole di essere terribilmente in ritardo.
«Lexa…Lexa…Lexa…»
La ragazza arrestò prontamente il suo passo, riconoscendo immediatamente quella voce.
In fondo, non l’aveva udita che qualche minuto prima.
Lentamente, si voltò.
La giovane donna era poggiata contro una delle colonne, uno stelo d’erba tra le labbra, le braccia incrociate poco sotto il seno.
«Lexa…» disse un’ultima volta, quasi stesse assaporando il suo nome.
«Come conoscete il mio nome?»
«Dovevo conoscerlo- rispose, avvicinandosi a lei- Io sono-»
«Griffin. So chi siete»
La ragazza scosse lievemente il capo.
«Già. Chi non lo conosce, il mio nome. Ma permettetemi di presentarmi come si deve- le prese delicatamente la mano, facendo sussultare lievemente la sua proprietaria, prima di sfiorarla con le sue labbra- Clarke Griffin, ai vostri servigi».
Lexa rimase immobile, la mano ancora abbandonata in quella presa salda eppure dolce.
Infinitamente dolce.
«Io-»
«Siete attesa da qualche parte, mia signora?»
«Io… avrei un impegno» ebbe la forza di concludere la ragazza.
«Audace».
«Cosa?»
«Presentarsi ad un impegno senza curarsi dello scorrere del tempo».
«Chi vi dice che io non sia pienamente cosciente del tempo e del suo scorrere?»
Clarke non rispose, ma lasciò che i suoi occhi vagassero sul suo braccio sinistro, fino ad arrestarsi sul suo polso, deliberatamente libero da qualsiasi bracciale od orologio.
Sotto quello sguardo di ghiaccio, Lexa si sentì improvvisamente nuda e vulnerabile.
Eppure, non aveva paura.
In qualche modo, si fidava di quella strana ragazza che le stava di fronte, con i suoi capelli spettinati e i vestiti sgualciti.
Clarke Griffin la incuriosiva in un modo così profondo e puro da annientare qualsiasi altra sensazione.
«Credo che vi occorra un orologio, mia signora. E, guarda caso, un orologio è proprio ciò che riposa sul mio polso».
Lexa si lasciò andare ad una lieve risata, la sua mano ancora deliziosamente prigioniera nella presa dell’altra.
«E cosa vorreste, in cambio di quel vostro orologio?»
«Mia cara, non è questo il tempo di disquisire di così futili argomenti- le rispose, indietreggiando verso la finestra e portandola con sé, le loro mani ancora unite- Vieni, voglio ammirarti nel colore della pioggia».
E Lexa la seguì, incapace di resisterle, di resistere a quegli occhi, a quel tocco, a quella pelle.
«Vi piace molto, la pioggia».
Non era una domanda.
Lexa seguiva lo sguardo rapito di Clarke, il modo in cui studiava la luce che si infrangeva sulla sua pelle leggermente abbronzata, per le innumerevoli passeggiate nei parchi. Guardava quelle iridi glaciali, irrequiete dietro lo sguardo attento, bramose di catturare anche il minimo particolare.
«Non mi piace».
Fu appena un sussurro, quasi impercettibile.
«Non mi piace, la pioggia. Io amo la pioggia. Amo ciò che dice» concluse Clarke, tornando a fissare i suoi occhi in quelli smeraldo della ragazza che le era di fronte.
«Ciò che dice?»
«Viviamo in un mondo di sordi, Lexa. Un mondo che ha dimenticato le sue origini, che ha dimenticato la terra e la sua voce. Amo la pioggia, perché essa è l’espressione stessa della vita. In essa, noi nasciamo. Le nostre lacrime sono le sue lacrime e il suo dolore è il nostro dolore. Eppure, guarda, ammira la sua grandezza. Dal dolore di una lacrima, si genera nuova vita».
Lexa rimase in silenzio, persa in quel mondo leggiadro e a tratti magico che Clarke aveva deciso di mostrarle, donandoglielo, senza alcuna riserva.
E, in quel momento, si sentì più vicina che mai alla sua anima. Più vicina che mai all’anima di qualcuno.
«Mostratemi i vostri disegni, adesso».
Lexa trasalì, quasi fosse stata ridestata da un sogno etereo.
«Io… non meritano la vostra attenzione, signorina Griffin. In fondo, io non sono nemmeno un’artista».
«Evita certi formalismi, Lexa, sono totalmente inutili, oramai. Per quanto riguarda i tuoi disegni, lascia che sia io a giudicarli».
E così, con riluttanza, la ragazza tese il suo taccuino, il volto che tradiva una certa agitazione.
Agitazione che Clarke non riusciva a comprendere, ma le bastò uno sguardo al primo disegno di quella raccolta per comprendere le ragioni che turbavano l’animo di quella ragazza.
Su un foglio leggermente ingiallito, c’era lei.
O meglio, la sua immagine mondana.
Un volto, disegnato con estrema minuzia di particolari. Il lato destro era umano, le piene labbra, fedelmente riportate, e negli occhi uno sguardo freddo e tetro, di demone in terra.
Ma era la metà sinistra quella che, in quel momento, si imprimeva con forza nei suoi occhi.
Quel teschio eternamente sorridente, con quelle sue orbite oscure, nere, portatrici della più cruda tenebra.
Eccolo, il volto della Wanheda.
La comandante della morte.
«È così, dunque, che mi vedi?» chiese, senza mai distogliere lo sguardo da quel foglio.
«È così che ti vedono tutti».
Un’inutile tentativo di giustificazione, ne era cosciente.
Ma la verità era che, improvvisamente, sentiva freddo.
Aveva assistito al repentino mutamento d’espressione su quel volto angelico, la tempesta avanzare e sopraffare il limpido cielo che erano i suoi occhi.
E aveva avvertito un vuoto nel petto, un vuoto che l’aveva fatta tremare.
E sentire sporca, indegna.
Come se quel suo atto, quel suo ritrarla in quelle vesti, avesse avuto lo stesso peso e la stessa crudeltà di un assassinio.
Ma, rapida com’era giunta, la tempesta scemò da quelle iridi cerulee, riportando il sorriso su quel volto di angelo.
«Hai un bel tratto- disse Clarke, riconsegnandole il taccuino, senza scorrere gli altri disegni- Hai avuto diritto al mio orologio».
E, con un gesto fluido, sganciò la fibia che lo legava al suo polso destro, per farlo scivolare sul polso magro ed esile della ragazza.
«Abbine cura, mi raccomando. È l’ultimo regalo di mio padre».
«Ne avrò cura come se fosse un antico cimelio di famiglia. Il più prezioso».
«Bene- le sorrise Clarke- Voglio che tu venga nel mio studio, Lexa».
Gli occhi della ragazza si sbarrarono, rendendo ancor più vivo e luminoso il verde che li animava.
«Prego?»
«Voglio dipingerti, Lexa. Voglio ritrarti. E, se un giorno avrò fortuna…»
«Cosa?»
Clarke si avvicinò pericolosamente alla ragazza, che si impose di non indietreggiare.
«Se un giorno avrò fortuna… io dipingerò i tuoi occhi, Lexa».
  
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