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Autore: Lusio    08/04/2017    0 recensioni
Ecco, sta succedendo. Stamattina mi sono svegliato ed era lì, nella mia testa, nel mio petto, nei miei fianchi, nelle mie caviglie. L'esigenza.
Scrivi, non per gli altri, non per te stesso, ma per te stesso da donare agli altri.
Ecco. Sta ritornando, come un flusso di marea.
Sto scrivendo... per il me stesso che dono agli altri.
Sono partito con tante parole per “l’amato me stesso” e concludo con una valanga di parole per una seconda persona e forse questa è fuggita via.
Ma non sono mai stato bravo con i finali. Mi riesce bene solo quello che sta tra la parola inizio e la parola fine.
Questa la dedico all’ “essere speciale” cantato da Battiato. Tutti mi hanno detto di provare ad essere felice. Adesso sono io che lo chiedo a me stesso.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Flusso d’acqua

 

Ecco, sta succedendo. Stamattina mi sono svegliato ed era lì, nella mia testa, nel mio petto, nei miei fianchi, nelle mie caviglie. L'esigenza.
Scrivi, non per gli altri, non per te stesso, ma per te stesso da donare agli altri.
Ecco. Sta ritornando, come un flusso di marea.
Sto scrivendo... per il me stesso che dono agli altri.

 

Non ho mai imparato a nuotare, a malapena sono capace di mantenermi a galla, eppure adesso sto nuotando. Quante vasche? Chi se ne frega, non ha importanza. Arrivo ad un punto davanti a me e quando le mie mani toccano un’estremità, mi do una spinta indietro e riparto, al contrario, fino a quando non sono i miei piedi ad incontrare un ostacolo freddo e scivoloso e i muscoli delle mie gambe si gonfiano e si tendono a risospingermi di nuovo davanti. E l’acqua mi scivola lungo il corpo. Mi entra nelle narici ma continuo a respirare nonostante ciò.

Sono interamente vestito di fluido liquido e scivoloso, un abito che si rinnova ad ogni bracciata, un velo d’acqua.

 

Sotto il flusso della doccia, un po’ fredda e un po’ calda, a seconda di come muovo la maniglia, mi sento più vulnerabile, ma come un fante in prima linea in battaglia, senza corazza e armato solo di una sciabola e della forza disperata di chi non sa se ne uscirà vivo. Ma io so che vivrò. Ho lasciato alle spalle gli anni dell’adolescenza in cui mi permettevo di giocare con la morte, avvicinandomi più del dovuto al laghetto artificiale della villa comunale, facendo girare la punta delle forbici sulla pelle sottile, bianca e ramificata di blu, del braccio.

Adesso ho consapevolezza di quanto sia stato bello aver sviato ogni singolo colpo, per trovarmi adesso, vivo e palpitante.

Avevo smesso di credere che ne valesse la pena. Ma adesso ritorno a crederci.

L’acqua mi sommerge ma non mi lascia affogare.

 

Accanto a me navigano delle pagine bianche strappate: le pagine del mio diario che ancora non ho ricoperto di inchiostro nonostante quanto successo la scorsa settimana. Sono stato troppo impegnato a riscoprirmi per riordinare le idee e adesso che ci provo riesco solo a tirar fuori un lunga sequela di pensieri senza alcun senso apparente, a parte quello di essermi rimaste bloccate in petto da troppo tempo.

 

Ricordo frammenti della mia vita…

 

Sono in cucina, con mia sorella e una nostra amica, nata il giorno prima che nascessi io. Voglio provarci. Ho sedici anni.

“Annarita” inizio, rivolgendomi a mia sorella. “Posso dirti una cosa personale?”

Niente di personale può esserci tra chi non riesce a capirsi, pur avendoci provato da sempre, prima di gettare la spugna. Quei giorni di quando eravamo piccoli e lei imitava ogni mio piccolo gesto, una breve corsa, una risata stridula, il gesto di portare le mani avanti e poi lasciarle ricadere lungo i fianchi, sono finiti e non ritornano più.

“Non azzardarti a continuare e non azzardarti a dirlo a mamma o a papà” è la replica di mia sorella.

Adesso sono passati dieci anni e non siamo più ragazzini. Non c’è più astio, solo una matura consapevolezza che, comunque vadano le cose, ci sarà sempre qualcosa a legarci. Perché ci sarà un giorno in cui ci saremo solo noi a ricordarci di giorni passati e di persone che non ci saranno più. Questo può bastare per chi non chiede nulla in un legame familiare.

 

Sono in un cortile, lo stesso anno, qualche giorno prima o dopo, ma tanto bastava per farmi riflettere, per farmi decidere. Ed è lì, sorridente, pronto a prendermi l’anima e rifarmela interamente nuova. I suoi occhi sono luminosi mentre mi guardano. Sono brutto, sono il primo ad ammetterlo, ma adesso mi sento bellissimo.

Sono pronto a lasciarmi afferrare, a sentire per la prima volta cosa si prova quando qualcuno ti tocca come se fossi la cosa più preziosa di questo mondo, come solo l’età adolescenziale può fare, con l’impeto di una tempesta che si rovescia interamente su di te.

Non so ancora che non durerà per sempre come mi illudo; non so ancora quanto vorrò morire quando mi verrà detto “Mi spiace, non ce la faccio”.

Basta poco per odiare ciò che si è amato. Ma quando il tuo cuore continua a battere, quando ogni mattina ti alzi comunque, quando vedi che ci sono dolori più grandi, allora smetti di pensare al dolore di una storia finita e, forse per salvaguardarti, forse perché davvero ci credi, pensi solo al bene che ti ha fatto provare.

E quando lo rivedo, dopo il lutto doloroso, non ho nulla da recriminargli. Sono solo felice che lui sia felice.

“Cerca di essere felice anche tu. Fallo per te. Te lo meriti.”

 

Sono in salotto, di fronte al muretto separatorio, un libro in mano (o forse è il quadernetto che uso come diario), il telefono all’orecchio. Ho diciannove anni.

“Mamma… io…” cerco di dire alla cornetta.

“C’è qualcosa di cui vuoi parlarmi?” mi chiede mia madre, con la rassegnazione di chi sa di non poter sfuggire ad una chiacchierata spiacevole ma purtroppo necessaria.

“Io… no… no… io… n…”

“Quando ritorno a casa ne parliamo”.

Ma non ce la faccio. Ho paura che tu smetta di volermi bene, anche se so che già hai capito. Lo leggo nel tuo sguardo rassegnato.

Adesso che non ci sei più, vivo col rimpianto di non avertelo chiesto “Cambia qualcosa per te? Mi vuoi comunque bene? Sono sempre tuo figlio?”

E quando nel mio cassetto ritrovo quella cartolina che comprasti per Annarita ma che mi desti affinché fossi io a consegnargliela, quando eri già scivolata sul letto, lo sguardo fisso e le labbra bluastre, quando ti ho sostenuta e ti ho scossa non capendo che stavi ascoltando le ultime parole che ti stavo rivolgendo in questa vita “Mamma! Mamma!”, quando ritrovo quella cartolina e la do ad Annarita e lei mi abbraccia piangendo, mi chiedo se è stato un caso o se davvero hai continuato a fidarti di me fino all’ultimo.

La prima volta che ti ho sognata dopo che te ne sei andata, mi sorridevi.

 

Sulla riproduzione casuale di iTunes è partita l’aria “Addio del passato” da “La Traviata” cantata dalla Callas

 

Quando Thérèse Martin aveva quattordici anni ci fu il processo ad Enrico Pranzini, che aveva assassinato la sua amante, la figlia illegittima di quest’ultima e la loro domestica. Venne condannato alla ghigliottina.

La piccola Thérèse, già santa nell’animo, pregò Dio di toccargli l’anima, di non abbandonarlo nel buio del peccato. Il giorno in cui Pranzini sarebbe stato giustiziato, Thérèse non si staccò dal crocifisso della sua stanza, pregò consumando tutte le sue lacrime “Gesù, ti prego, toccagli l’anima, non lasciarlo da solo adesso che ha tanto bisogno di te”.

Quanto poterono le preghiere di quella fanciulla? Non si può dire, se si vuole avere certezze. Tanto, se si vuole avere fede.

A due passi dalla ghigliottina, Pranzini si gettò ai piedi del prete accanto a lui, con le lacrime agli occhi, chiedendogli di poter baciare il crocifisso che aveva in mano.

“Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo regno”

“In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso”

Non esiste l’Inferno, ma solo un luogo di passaggio che ci separa dal Paradiso. Tutti meritano il perdono.

 

Sulla riproduzione casuale di iTunes è partita “Tu es partout” di Edith Piaf

 

Sono in macchina con mio padre, una settimana fa, fuori la stazione di piazza Garibaldi a Napoli, con venticinque anni di vita e con tante smorfie dipinte in faccia, con il treno che partirà tra un quarto d’ora. Non voglio andarmene continuando a tenermi un conto in sospeso troppo a lungo.

E parlo. La voce è un lieve sussurro che sembra perdersi nei rumori del traffico del centro.

“Lo avevo capito. Che ti credi, un padre queste cose le sa”.

È stato tutto così normale, con l’unico dramma del mio sorriso bagnato di lacrime durante il ritorno in treno a Roma. Ed io che speravo di stare lontano dai soliti cliché cinematografici.

 

Pensavo che tutto sarebbe cambiato in maniera totale, ma una confessione è troppo poca per stravolgere un intero mondo. La vita va avanti come se nulla fosse accaduto. Eppure io sento il mio intero mondo cambiato.

Sorrido, le persone che fino a ieri non sopportavo adesso mi sono familiari come vecchi amici, e le vecchie amicizie sempre presenti sono entrate ancora di più nel mio cuore. Il miagolio del gatto di casa mi sembra più fievole e tranquillo e il modo in cui mi guarda, la testolina capovolta, la gola e la pancia scoperti per ricevere qualche carezza, sembrano più affettuosi.

Quando sono sceso per andare a fare un po’ di spesa, c’era una bimba che piangeva in braccio al padre, il faccino affondato nella sua spalla. Mi guarda tirando su col naso e imbronciando la boccuccia. Io le sorrido e cerco di farle capire che va tutto bene. Lei mi guarda un po’ basita, gli occhi tondi e stupiti. Poi sorride e si porta la manina accanto al faccino, come un saluto o un bu bu settete.

Va tutto bene, non devi piangere.

 

I motivi per essere tristi potrebbero anche abbondare e li sento, perché li so riconoscere al tatto cardiaco, e un leggero segno lo lasciano, ma non mi fanno più tanto male.

Perché il dolore ha lasciato lo spazio a qualcos’altro, di diverso, che non ricordo di aver mai provato.

Lungo la strada che dalla Sapienza porta a Termini c’era un enorme pozzanghera, ricoperta, ai bordi, di piccole foglie gialle e di petali di fiori rosa, un misto di autunno e primavera. Non sono riuscito a specchiarmici perché era troppo sotto i miei piedi e troppo lontana dalla mia testa.

Ma temevo di vederci quella tisica faccia da “san luigino”, magra e col nasone e con le occhiaie. È da tanto che non mi sento bello, né per me stesso e di conseguenza neanche per qualcun altro. E vorrei esserlo.

Quello che non ho mai provato è la voglia.

 

Adesso è partita “Because the night” di Patti Smith

 

Dopo la pozzanghera con le foglie e i petali, segue questa piscina immaginaria, con dei fogli di carta che ci navigano sopra come zattere inzaccherate, per una frazione anche la doccia che mi fa scorrere l’acqua lungo il corpo nudo. Ma è l’acqua che persiste.

Prima erano le coperte nelle quali cercavo conforto, quel contatto che mi spinge a coprirmi anche quando la calura estiva ti dovrebbe far calciare via quell’ammasso di lenzuola per respirare meglio.

In questo vortice io voglio, voglio, voglio, per la prima volta voglio davvero.

Adesso che mi sento libero, voglio. Non più vorrei, ma voglio davvero.

Una voce che risuona da lontano, un battito lontano di parole che mi arrivano, ed io voglio.

Le mie braccia adesso battono in quest’ammasso duro e composto di acqua, cercando di uscire, di emergere, smetterla di respirare liquido.

Voglio chiamarlo.

Emergo dall’acqua, riprendendo aria e urlando “Vieni”.

 

Adesso è una corsa sfiancante lungo una strada in salita, senza vestiti, ma appesantito dall’acqua che continua a premermi sulla pelle.

E voglio.

Forse è solo egoismo, l’avventatezza di chi è alle prime esperienze con la libertà. Forse non c’è alcuna vera consapevolezza e sarà solo un altro modo per farsi male o, peggio ancora, fare male a qualcun altro che non se lo merita. Ma dopo anni di solitudine, dopo anni in cui non ho mai chiesto nulla, adesso voglio.

In altri tempi mi avrebbe frenato la paura di commettere un errore, di sbattere contro una parete, contro un rifiuto o contro un’indifferenza. Ma adesso non voglio più avere paura.

Voglio tornare a provare quella felicità sperimentata in passato.

Sei forse tu, che voglio imparare a conoscere? Mi sento come se fossimo sulla stessa lunghezza d’animo, come se non facesse differenza se parlassimo per ore o se rimanessimo semplicemente in silenzio.

Tu sai più cose di me ed io vorrei conoscere tanti altri aspetti di te che ancora mi sfuggono. Da quelli più semplici (Qual è il tuo piatto preferito? Quale colore preferisci? Cosa ti piace canticchiare quando cammini per strada?) a quelli più complessi (Cosa vorresti ricevere in regalo per il tuo compleanno? Se sei rimasto ferito, sei riuscito a guarire?). Voglio conoscerti in maniera talmente completa, così quando ti vedrò potrò baciarti come saluto, potrei portarti subito a cena; e la notte ti accompagnerei fin sotto la porta di casa tua, appoggiando la mano sulla porta che hai appena varcato. Inizierei già tutto, al primo sguardo.

Forse scapperesti se ti venissi incontro con questa violenza, perché forse il mio è solo un travisamento, e allora mi taglieresti fuori… e non avresti colpe, perché l’iniziativa sarebbe stata solo mia. Io da solo dovrei piangermela.

Rimpiangerei di aver perso un confidente, una persona che sto scoprendo importante per me.

Ma se ho osato tanto fino ad ora, perché non dovrei osare ancora?

 

Jim Morrison disse “Rifiutarsi di amare per paura di soffrire è come rifiutarsi di vivere per paura di morire”.

 

Anche a costo di soffrire, voglio. Voglio provare ad essere di nuovo felice.

 

Ho perso delle parole lungo la strada. Devo ritrovarle.

 

Eccole.

 

Sto confondendo tutto con la paura della solitudine? Forse, ma come si può aver paura della solitudine quando con essa ci ho vissuto tanto a lungo, l’ho a lungo cercata e desiderata fino a che essa non è diventata parte di me, e ancora mi accompagna nelle mie passeggiate kantiane che durano quattro, cinque, sei ore, senza fermarmi.

 

Adesso è partita “The Call” di Regina Spektor. Amo questa canzone. Mi ha salvato la prima volta.

 

Magari è paura. Ma se è così, avrei potuto concentrarmi su rimedi più semplici, più a portata di mano, per combattere la solitudine. E invece mi sento spinto verso una sola direzione, perché sento che potrebbe essere quella giusta e voglio che sia quella giusta.

Là di fronte a me, come una porta semi aperta, si erge in lontananza.

“Coltivalo questo sentimento, se ci tieni davvero. Sta a te fare in modo che fiorisca e che duri”.

 

Sono partito con tante parole per “l’amato me stesso” e concludo con una valanga di parole per una seconda persona e forse questa è fuggita via.

Ma non sono mai stato bravo con i finali. Mi riesce bene solo quello che sta tra la parola inizio e la parola fine.

 

Non torno più ad immergermi in acqua. Non ne sento il bisogno

 

Dal balcone aperto spira una brezza leggera, calda e piacevole.

Dovunque tu sia “Voglio amarti”.

 

 

 

Nota

Questa la dedico all’ “essere speciale” cantato da Battiato. Tutti mi hanno detto di provare ad essere felice. Adesso sono io che lo chiedo a me stesso.

  
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