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Autore: HedaKomTrikru    08/04/2017    2 recensioni
Partecipante al contest history!au indetto dal gruppo "Clexa/Elycia/Lexark gruppo di supporto italiano".
Nel 1680, appena prima di completare la costruzione degli angeli che adornano il ponte di Adriano a Roma, Gianlorenzo Bernini morì all'improvviso, dopo aver completato soltanto due delle statue. In questa shot è Lexa ad interpretare lo scultore; invece Clarke è una poetessa senza nome, da sempre innamorata, anche se in segreto, di lei.
"Nonostante la consapevolezza della sua morte fosse dolorosa in un modo che Clarke non sapeva nemmeno descrivere, continuava a cercarla. [...] I pellegrini battiti del suo cuore anelavano ancora la felicità che solo Lexa, tanti anni prima, era stata in grado di darle."
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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align="left" Un respiro rarefatto

diafano disegna ghirigori nella notte.

E ciò che rimane di un amore è solo

l'arco imperfetto di un ponte che accarezza il cielo.

Angeli danzano sotto la pallida pietra della luna

e dei passi affrettati calpestano ciò che resta di te.

Una rosa si apre nel nudo cielo

E il tuo esile sospiro

è soppresso dal cammino degli amanti.

La notte avvolse il corpo di Clarke Griffin mentre si stringeva nel cappotto leggero, tentando di ripararsi dall'opprimente gelo che le penetrava fin nelle vene. Stringeva al petto un foglio di fortuna, su cui aveva appena adagiato quelle parole con la sua grafia elegante. Un sorriso amaro adornava la sua bocca, sollevando appena gli angoli delle sue labbra, livide per il freddo, creando un contrasto con la fulgida luce delle stelle, che spiccava sul manto argentato dell'oscurità. Era l'unica luce che illuminava Roma in quella gelida serata.

La schiena curva per il freddo, i capelli nivei che creavano una scia dietro di lei, Clarke si trovava, sola nel bel mezzo di una città dormiente, su quello che era, per lei, il ponte più bello su cui avesse mai poggiato i piedi. Soltanto lei si trovava per strada, un timido fiore dallo stelo danneggiato dall'età, ma non distrutto. Si voltò ad osservare la luna, che brillava con l'intensità che aveva sottratto agli occhi dell'unica donna che Clarke avesse mai amato.

Lexa Woods era morta il giorno precedente, prima ancora di concludere la costruzione degli angeli che guidavano il passaggio dei visitatori sulla meravigliosa costruzione. Clarke e Lexa non avevano mai potuto esternare il loro amore alla luce del sole. Si erano amate in silenzio, scambiandosi fuggitivi baci dietro schizzi di progetti, ed erranti carezze tra le mura di una casa distante dal disordine della città. Avevano tenuto nadcoste le loro risate perché Lexa aveva sempre messo l'arte al primo posto, e Clarke non aveva mai ritenuto giusto privare il mondo di ciò che le sue mani erano in grado di creare.

Così le dita di Clarke avevano smesso di plasmare la cute ambrata di Lexa, obbligata a celare il loro amore. E, adesso, lei non c'era più. Gli avidi artigli insanguinati della morte gliel'avevano sottratta, rapaci ed affamate di una tale bellezza, pregne di una concupiscenza che alla donna era stata negata troppo presto. Era andata via prima che Clarke racimolasse il coraggio necessario per tornare da lei.

E, nonostante la consapevolezza della sua morte fosse dolorosa in un modo che Clarke non sapeva descrivere, continuava a cercarla. La cercava tra le coltri della loro casa abbandonata. La cercava tra quegli angeli di raffinata bellezza che aveva avuto a malapena il tempo di disegnare. E una parte di lei era consapevole -brutalmente consapevole- che lei non sarebbe mai tornata, ma i pellegrini battiti del suo cuore anelavano ancora la felicità che solo Lexa era, tanti anni prima, stata in grado di darle.

E quindi continuava a perderla. La perdeva nei sorrisi che affioravano sulla sua bocca ogni volta che pensava a lei, ma che scomparivano quando un acuto dolore le distruggeva il cuore. La perdeva ad ogni rintocco dell'orologio, che sanciva irrivirsebilmente la sua mancanza. La perdeva ogni volta che tentava di ricordare il comore preciso delle sue iridi, ma erano sempre di una sfumatura più tenue, più chiara... diversa dalle sue.

Clarke sospirò, stringendo tra le dita intorpidite quell'inutile foglio, il ricordo di un amore di cui nessuno era a conoscenza, e che nessuno avrebbe mai ricordato. Le stelle andavano lentamente a perdere il loro splendore, come se anche loro provassero cordoglio per la dipartita di un'anima così splendida, di una mente tanto geniale. Come se anche loro soffrissero con Clarke, ma non potessero fare nulla a riguardo.

La donna si asciugò gli occhi con il dorso della mano, mentre un singhiozzo le moriva in gola. Era tardi, e lei si sentiva stanca. Le sue membra erano così pesanti... Non riusciva nemmeno a riflettere con lucidità. Da quanto tempo non dormiva? Da quanto tempo non riusciva a riposare? Non se lo ricordava. Probabilmente dalla morte di Lexa.

In fin dei conti non aveva senso rimanere ancora lì, a crogiolarsi nel dolore di una perdita che, in qualche modo, la faceva sentire più vicina a lei. Si era aggrappata a quella sofferenza da quando lei e Lexa si erano lasciate, per avere ancora qualcosa di lei, ma era il momento di lasciarla andare. Questa volta per sempre.

Aprì le dita e lasciò scivolare via la sua poesia, che fu stretta dal vento in un torbido abbraccio e portata via, mentre Clarke la guardava impotente, gli occhi non scevri di afflizione. Ne seguì il percorso finché non si perse nell'oscurità, ma anche allora non distolse lo sguardo; infine chinò le spalle, oppresse da un peso troppo grande per la fragilità dei suoi anni. Clarke Griffin si voltò, lasciandosi alle spalle Lexa e ciò aveva rappresentato per lei.

"Clarke."

Il suono accarezzò le sue orecchie, abituate al silenzio, e le pugnalò come un coltello avvolto nel miele. La donna s'immobilizzò, sentendo che il sangue nelle sue vene si ghiacciava e i suoi polmoni smettevano di immagazzinare ossigeno. Si sentì morire, ma, al tempo stesso, non era mai stata più viva di così.

La donna non seppe mai come trovò il coraggio di voltarsi e di affrontare il verde di delle iridi che le erano familiari come le sue tasche ed estranee come il viaggio in una foresta oscura. Non seppe come trovò il coraggio di tornare a guardare quelle labbra, di cui avega imparato a conoscere il gusto, piegate in un sorriso che le distrusse il cuore. Ma lo fece.

E Lexa era di fronte a lei, bella come non l'aveva mai vista mentre stava in piedi contro il pallido promontorio della luna. La sua cute luccicava come le stelle che erano solite guardare ogni notte, dopo essersi amate. I capelli bruni scivolavano sulle sue spalle, ed erano luminosi come se fossero colorati di una tonalità che mai nessuno aveva avuto il coraggio di rappresentare. Clarke la vedeva come l'aveva scorta l'ultima volta. Portava un abito chiaro che le fasciava la pelle come un guanto, cingendo ed accarezzando le sue curve, stringendola con la leggerezza con cui un innamorato stringe un dono del suo amante. Non una ruga marchiava la sua pelle, né un capello bianco spiccava nella sua chioma. E le sue iridi erano verdi come gli oceani in cui la più grande aveva voluto affondare per anni dopo la loro rottura.

Le stava sorridendo, e stringeva tra le mani la sua poesia. Non piegò lo sguardo su di essa per leggerla, né distolse mai lo sguardo da quello di lei. Clarke fece lo stesso. Aveva desiderato di poterla guardare negli occhi per così tanto tempo che non riusciva più a separarsene.

"Sei qui' sussurrò infine. "Co... com'è possibile?".

Lexa sorrise nuovamente, la mestizia e l'amore trapelarono nel suo sguardo con una tale intensità che Clarke sentì il suo cuore saltare qualche battito.

"È quasi finita" bisbigliò Lexa, tendendo la mano libera verso di lei. "Torna da me."

Clarke ricordò tutta la sofferenza che la sua lontananza le aveva provocato, tutti i baci che si erano negate, i sorrisi, le risate, gli sguardi che avevano rivolto a qualcun altro. Ricordò le lacrime che aveva versato a causa sua, le ore che aveva passato struggendosi nella tribolazione, e tutte le volte che le erano mancate le sue labbra e lei l'aveva rifiutata.

Ma poi la vide di fronte a sé, ancora così bella, e l'amava ancora come faceva un tempo. E, come sempre, semplicemente non poté resistere. Perché quella era Lexa, la sua Lexa. E lei era sua, lo era sempre stata.

Non poteva correre a causa del peso che le opprimeva il petto, ma, mentre avanzava verso di lei, il vento le scosse i capelli come se lo stesse facendo. Quando fu tra le sue braccia, Lexa lasciò cadere la poesia e portò una mano sulla sua guancia. Il blu degli occhi della più grande danzò con il verde di quelli dell'altra, si riunirono nel modo intimo e meraviglioso che soltanto loro avrebbero sempre riconosciuto.

A Clarke non importava delle rughe all'angolo dei suoi occhi, né del fatto che si reggesse in piedi solo grazie alle braccia che teneva strette intorno al suo corpo. Le importava solo del fatto che i suoi occhi la facessero ancora sentire come una ragazzina alle prime armi con l'amore.

"Sei bellissima" sussurrò la donna dagli occhi verdi.

Ed era una frase scontata, che le aveva rivolto milioni di volte; ma Clarke ridacchiò e si ritrovò ad arrossire come se avesse ancora diciassette anni mentre si sollevava sulle punte per calare le labbra sulle sue. Le due donne si sciolsero nel bacio, e la notte scomparve tra le loro labbra unite.

Il giorno successivo, i visitatori trovarono un foglio abbandonato per terra, abbandonato alla sporcizia e al sudiciume, e non pensarono fosse tanto importante da dover essere raccolto. Ciò che non fu ignorato furono i due meravigliosi angeli, le cui fattezze erano cambiate come per magia; ma nessuno riuscì mai a comprendere da chi Lexa Woods avesse preso l'ispirazione per realizzarli.
   
 
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