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Autore: VvFreiheit    09/04/2017    8 recensioni
“Non sei ammattito, o meglio sì, anche… Sei cambiato…” gli spiego con calma, senza celare il mio sentirmi comunque fuori dagli schemi ancora adesso.
La mia vita è cambiata, perché la vita mi ha cambiato.
Senza che io possa fermarla, la mia memoria vaga con forza e crudeltà ad una notte in particolare, quella notte nella quale la mia vita come la conoscevo è implosa, quella notte che ha sepolto le ceneri del mio passato e si è trasformata nella culla della mia nuova vita, che come un’araba fenice ha poi preso il volo e che ancora adesso vola guardando le nuvole dall’alto, sopra entrambe le nostre anime.
“A tempo debito imparerai che non servono otto anni per cambiare… Basta un solo attimo…”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Andy Dermanis
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Willing suspension of disbelief

My endeavours should be directed to persons and characters supernatural, or at least romantic, yet so as to transfer from our inward nature a human interest and a semblance of truth sufficient to procure for these shadows of imagination that willing suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic faith.
 
I miei sforzi sono da indirizzarsi verso persone e personaggi sovrannaturali, o perché no romantici, così da poter trasferire dalla nostra intima natura, un interesse umano ed una parvenza di verità sufficienti a procurare in queste ombre immaginarie, per un momento, quella volontaria sospensione dell’incredulità che costituisce la fiducia poetica.
 
Samuel Taylor Coleridge, Biographia Literaria (Ch. XI) 
 
Ancora una volta mi ritrovo estraniato nel mio vagare senza meta, concentrato in quel qualcosa di irrazionale e coinvolgente che prende il nome di ispirazione. La creatura immateriale che ruba la mia anima, cattura la trama del mio percorso, la arriccia, la plasma e la contorce con un criterio solo suo.

Non mi stupisce che io mi sia ritrovato a camminare tra queste vie monotone e ripetitive, rinchiuse tra la sponda del Tamigi ed i parchi verdeggianti. Non è una zona dove sono solito vagare, nonostante non disti che pochi chilometri da casa mia.

Mi guardo attorno.

Le dimore che contornano le vie, sono tasselli di un puzzle dal monocromatico cielo terso, distinte e distinguibili tra loro solamente da minuscoli dettagli di forma o di sfumatura, per chiunque non ne abbia familiarità.

Continuo ad incedere senza una direzione, ripetendomi in testa quella melodia che è proprio la causa principale di questo senso di disorientamento che mi pervade, arrivando a canticchiarla distrattamente senza che neppure me ne renda razionalmente conto.  

Una figura distante si avvicina dal lato opposto della via, parlando al telefono in una lingua a me sconosciuta ma inconsciamente familiare. Il suo passo è svelto e sicuro, il cappello antracite che gli oscura il volto mi fa assottigliare gli occhi curioso, assecondando i suoi movimenti e facendomi notare quell’aria dandy che lo circonda e che ai miei occhi lo rende un soggetto particolarmente interessante.

Proseguo scrutandolo con la coda dell’occhio, riprendendo a canticchiare la mia melodia, prima che l’oblio me la strappi violentemente da dosso, distruggendola per sempre. Un paio di automobili mi sfrecciano accanto. Alla guida di una vistosa Audi cabrio bianca, un ragazzo sicuramente poco più che ventenne, con un paio di occhiali da sole di pessimo gusto ed un’aria spavalda da paladino del mondo. Scuoto la testa rimuginando sull’improvviso desiderio di emancipazione che mi nasce dentro e mi assale senza preavviso, ripensando alle vecchie Aston Martin rombanti in riva al fiume ed al desiderio sfrenato di possederne una.

Rido da solo dandomi dell’idiota. Forse fare la patente potrebbe essere un primo passo…
Assorto nelle mie divagazioni mentali avanzo con passo spedito, in mente la mia melodia che ancora mi tiene saldamente per mano e mi accompagna. Dribblo un tombino dall’aspetto poco rassicurante e proseguo dritto.

Sento una voce mugugnare qualcosa non distante da me, lo strano individuo di poco fa è prono sul marciapiede poco avanti a me intento a raccogliere da terra ciò che fino ad un attimo prima era il contenuto di una busta di plastica, ormai squarciata.

Mi chino, mosso da un impeto di magnanimità e raccolgo un mazzo di chiavi ed un minuscolo pacchetto con un fiocco rosso, porgendoglieli con un sorriso di cortesia, attendendo curioso di scrutare il viso sconosciuto, ancora volto verso terra, quindi celato dal peculiare cappello.

Mi rialzo in piedi, quasi in sincrono con lui. Il giovane si erge in tutta la sua altezza, arrivando inaspettatamente a pareggiare con la mia. Il viso mi viene svelato e mi ci vuole un attimo per interpretare quella familiarità evidente.

Lo vedo aggrottare le sopracciglia e vedo i suoi occhi ingrandirsi interessati, quegli stessi occhi che si riflettono nel mio specchio tutte le mattine.

Non è un taglio più corto di capelli schiacciato sotto ad un cappello e qualche neonata ruga in più attorno agli occhi, ad impedirmi di riconoscere il mio futuro riflesso, che in piedi davanti a me mi osserva come difronte ad una vecchia foto particolarmente dettagliata di sé stesso alcuni anni addietro.

Il comprensibile scetticismo che ci circonda e ci assale lo leggo nel suo sguardo, così come lo percepisco nella mia pancia.

Incontrare uno sconosciuto per strada e rendersi conto di quanto nessuno si conosca meglio di colui che per la prima volta si ha davanti, sfiora l’irreale.

“Rain”  

Istintivamente alzo gli occhi verso il cielo sereno del pomeriggio, cercando di contestualizzare quella parola ma prima ch’io possa formulare un pensiero e porre la mia questione, vengo anticipato.

La melodia che accenna è esattamente la stessa che sto canticchiando da venti minuti ininterrotti e che con mio grande stupore non si ferma alla nota che nella mia mente ne segna la fine, ma prosegue seguendo un percorso distinto e decisamente appropriato e calzante.

“La intitolerai Rain”

Mi ci vogliono un paio di battiti di ciglia per afferrare appieno quella rivelazione futura, ma quando la consapevolezza delle sue parole mi afferra e mi trascina con sé, ne rimango trafitto e al contempo stregato.

“Seguimi…”   

 
Probabilmente è solo un insensato mondo onirico, quello all’interno del quale sono finito. Di certo ritrovarsi sul sofà del tuo io futuro, è un concetto che non può esistere se non in un estremo surrealismo visionario.

Sento i miei cinque sensi acuirsi in maniera incontrollata, impegnati a captare e recepire ogni minimo dettaglio di ciò che mi circonda. Il caminetto marmoreo sulla mia destra, i libri perfettamente ordinati nella libreria in fondo alla stanza, quel profumo di spezie tanto rassicurante, trasportato fin qui direttamente dalla cucina di mia madre.

Ogni cosa qui ha uno stile che sento mio.

E non potrebbe essere altrimenti.

Il mio divagare impulsivo è interrotto da un pacato ma deciso avvicinarsi di passi sul parquet, che non accolgono la figura a me tanto familiare, con cui cinque minuti fa sono entrato dalla porta principale di questa stupenda villetta, bensì un grazioso e scodinzolante golden retriever che curioso mi si avvicina in cerca di attenzioni.

Allungo una mano per lasciargli una carezza e istintivamente nasce in me un sorriso spontaneo, che si ampia quando mi rendo conto di come quello che si sta strusciando in questo momento addosso a me, sia in qualche modo il mio stesso cane.

“Vedo che hai conosciuto Mel” la voce, la mia stessa voce con un lieve tocco più grave si fa spazio nella stanza, mentre il mio futuro io si avvicina al tavolino di vetro, posando il vassoio con delicatezza e prendendo posto esattamente difronte a me.

La miriade di domande e di curiosità che affollava la mia mente fino ad un secondo prima, scompare in una raffica di vento e mi lascia muto e insicuro, di fronte all’uomo che già di me tutto conosce e tutto sa.

“Vorresti farmi duemila domande, ma al momento nel tuo cervello c’è aria fritta… sbaglio?”

La domanda atterra con grazia su di me, lasciandomi stordito e perplesso. Sto per chiedergli se sia così palese, ma me ne rimango zitto, troppo sicuro della figuraccia che potrei fare nel caso aprissi bocca.

Mi porge la tazza di tè e attende io la prenda, senza fretta, poi con estrema serenità e sicurezza aggiunge due cucchiaini di zucchero di canna e una piccola quantità di latte, dosando esattamente come mi piace, facendo la stessa cosa con la sua tazza, diminuendo solo la quantità di dolcificante color caramello a un cucchiaino.

“Mi chiedo come facessi a bere il tè con così tanto zucchero…” ammette in tutta franchezza, mescolando per un breve attimo e posando poi la tazzina sul piattino, dopo un breve sorso.
Io faccio la stessa identica cosa, quasi riflettendo i suoi stessi movimenti e riportando la tazzina sul tavolo allo stesso modo.

“È buono…” rispondo, trovando il coraggio di iniziare una qualsivoglia discussione con l’altro me, che in questo momento mi sta mettendo non poco in soggezione.


Quanto ero impacciato…

Guardandomi seduto sul mio divanetto verde, con quei ricciolotti così lunghi e voluminosi che ormai non porto più, non posso fare altro che pensare a quanto al mio vecchio me bastasse poco per sentirsi in imbarazzo.

“Lo so che è buono, l’ho bevuto così per anni” dico con un mezzo sorriso, cercando dentro di me di ricordare quelle sensazioni e cercare di rimediare all’ostacolo della timidezza, come io allora avrei voluto facessero.

“A che punto sei con The Boy Who Knew Too Much?” chiedo cercando di indagare sull’età esatta del giovane me, certo che il modo più efficace e veloce per sbloccare quella situazione, sia parlare di musica.

Della mia, della nostra.

Lo vedo restare impassibile per un lungo attimo e immediatamente capisco, leggendo quello sguardo incerto, come chi mi siede davanti non debba avere più di 25 anni.

“The boy who knew too much?” lo vedo chiedere curioso, estraniandosi subito dalla discussione. Riconosco quel modo di fare e intervengo prima che si scervelli a capire tutte le possibili implicazioni di quella rivelazione.

“Il mio… tuo.. secondo album… si intitola così” svelo con un sorriso. Lo vedo spalancare la bocca incredulo e squadrarmi con aria venerante. Adesso ha capito. Credo proprio che mi divertirò.  


Devo proprio essere ebete oggi. Mi rendo conto solo in questo momento con enorme ritardo di quanto questa paradossale e insensata situazione possa rivelarsi geniale. La marea di domande che in un frangente si era dissolta, solo pochi attimi prima, torna in un’ondata improvvisa e mi sommerge, lasciandomi come un manichino muto davanti agli occhi della mia stessa anima.

“Quanti anni hai?”

La domanda suona stupida alle mie orecchie e credo anche alle sue.

Il risolino che esce dalle sue labbra lo riconosco benissimo e mi rendo conto di quanto sia rimasto identico e decisamente ridicolo ancora a distanza di non so ancora quanto tempo.

Il sorriso sghembo con cui mi osserva poi, mi fa capire che anche il mio lato perfido da piccola canaglia è riuscito a sopravvivere fino a lui e istintivamente me ne rallegro.

“Sono curioso... Quanti me ne dai?” mi chiede infatti con la stessa aria di sfida che ben conosco.
La mia proverbiale incapacità di osservazione per queste cose ferma il mio tirare ad indovinare in tempo zero e mi porta a riflettere più a lungo del previsto.

Lo osservo con dovizia, è più in carne e di certo più muscoloso di quanto io non sia. Possibile che sia riuscito a convertirmi alla palestra? La sola idea mi fa ribrezzo.

I miei ricci voluminosi sembrano essere spariti, non mi stupisce che io li abbia voluti tagliare, ci sono volte che mi raserei a zero, tanto sono indomabili.

Vengo poi catturato dal suo stile, jeans beige, camicia azzurra e foulard colorato; forse un filo troppo formale per i miei gusti e decisamente troppo normale. Le sue scarpe raccontano invece tutta un’altra storia. Rosse blu e bianche, completamente glitterate.

Di tutto il suo abbigliamento, quelle sono l’unica cosa che gli ruberei volentieri.

Finisco di studiarlo, mentre lui paziente se ne sta in silenzio e mi osserva.

“36?” la supposizione che mi esce è completamente casuale, ma considerando i lineamenti adulti che mi squadrano, quello è l’azzardo che mi esce spontaneo fare.

Immediatamente lo vedo abbassare un sopracciglio e innalzare l’altro verso il cielo; capisco di aver toppato.

“Noo! Ho 33 anni ioo!” L’acuto stridulo con cui rimprovera i tre anni aggiuntivi che gli ho appioppato mi risuona nelle orecchie in maniera familiare, ma nonostante la sua faccia quasi irritata non riesco a trattenere una risata.

“Senti… lo sai benissimo che in queste cose sono, siamo, SEI negato! Non hai il diritto di prendertela!”


Mi risponde a tono con quell’irriverenza da 25enne, puntandomi sgraziatamente un dito contro, giocando alla roulette con i tempi verbali, non in grado di identificare la situazione in maniera chiara e definita.

Annuisco ridendo, dopotutto in 8 anni si può dire che su quel fronte i progressi siano stati pressoché nulli.

Taccio.

Non sono troppo certo gli farebbe piacere saperlo.

Sorrido.

L’orgoglio, quello invece, l’ho coltivato con cura.

Lo osservo trarre un sorso dalla tazzina di tè, e riporla poi sul tavolino di nuovo, guardandosi attorno.

Riconosco i pantaloni rossi, ancora adesso appesi ad una gruccia nel mio armadio e la felpa che invece mi ricordo aver lanciato ai fan durante un concerto, azione di cui mi complimento ancora. Per certe cose avevo dei gusti seriamente discutibili.

È una sensazione strana quella che mi avvolge, quando mi ritrovo incapace di rompere il silenzio calato sulla stanza. È imbarazzante non avere una qualsiasi domanda con la quale far risuonare l’aria.

Di lui non posso che sapere ogni più insignificante dettaglio, ogni paura recondita e desiderio ancora non-nato.

“Hai… ho… proprio una bella casa…”

Il silenzio viene infranto finalmente e il sorriso che ancora una volta mi nasce spontaneo deriva da quella strana speranza fusa a certezza che aleggia nei miei stessi occhi riflessi. Un tuffo nel futuro, il sogno e l’incubo di ogni essere umano. Il varcare la soglia della storia e avere il potere di sovvertirla.


Mi soffermo su ogni dettaglio di quella stanza che è l’unico frammento di realtà futura tangibile che la mia mente può processare instancabilmente. Riconosco il mio porcellino di porcellana biancoblu, accanto al camino, una piccola statuina in terracotta, regalo di Yasmine, ma molti degli oggetti che mi circondano sono a me del tutto nuovi.

Inizio freneticamente a scrutare ogni centimetro quadrato della stanza, dal momento in cui il mio istinto mi fa notare come non vi siano tracce di musica e arte attorno a me. Non un cd, non uno stereo, non uno strumento musicale, non un album da disegno, non una matita colorata né un pennello. Nulla di ciò che invade il mio personale spazio casalingo da anni a questa parte.

Sento una strana angoscia impossessarsi di me al pensiero recondito che il mio futuro possa non essere composto e intriso di musica o creatività. Sono conscio che in 8 anni la vita la si possa stravolgere, ma la sola idea che il mio sogno tanto rincorso possa avere vita breve, mi lacera nel profondo.

Nei suoi occhi ci vedo una serenità tangibile che non riesco a concepire possa esistere in me senza musica.

Il piglio inquieto che vedo sul mio volto riflesso in lui, mi riporta sulla terra e mi sprona a recuperare il coraggio di indagare il mio intimo timore senza indugiare oltre.

“Non… non vedo un pianoforte qui… Cosa… che fine ha fatto la musica?”

L’angoscia che mi opprime si manifesta nella mia incertezza di discorso e il suo sguardo che si addolcisce prima di formulare una risposta mi inquieta ancor più del necessario.

“Non starai pensando che io abbia lasciato da parte la musica, solo perché non ne vedi traccia qui, spero…”

Mi stupisco della precisione con cui comprende i miei crucci, ma finisco col darmi nuovamente dell’idiota un mero secondo dopo.

“Riusciresti ad immaginarti una vita senza musica?”

La domanda che mi pone, mi rimbalza nella testa con prepotenza, ma stavolta non ho bisogno di alcuni istanti per rispondere a una delle poche certezze della mia intera esistenza.

“No, nel modo più assoluto no!” asserisco immediatamente. Vorrei aggiungere dell’altro e prepotentemente rimbalzare a lui quella stessa questione, ma mi anticipa di nuovo, rispondendo perfettamente alla mia domanda inespressa.

“No, nel modo più assoluto no!” mi conferma a sua volta, riproducendo come un eco intellegibile, la mia risposta alla sua stessa domanda.

“Sto scrivendo il quinto album…” La confessione che mi giunge all’orecchio subito dopo, torna ad accelerare la marcia del mio cuore ma pompando stavolta quell’adrenalina sana, buona, dolce, della felicità e dell’orgoglio.


Lo vedo portarsi le mani al volto scuotendo i ricci scuri, ridendo di gioia pura e limpida e io non posso che sorridere, di nuovo, mentre accarezzando Melachi rivivo per un attimo tutta la spensieratezza intrisa di terrore che ricordo viva più che mai, agli albori del mio secondo album, uno degli step più importanti della mia carriera.

La paura letta nei suoi occhi poco fa, ora è volata lontano.

Averlo/avermi qui davanti in questo momento, mi fa riflettere profondamente su tutti i cambiamenti che la sua vita ha subito, per arrivare nelle mie mani.

La sua inquietudine manifesta la rivivo nei miei occhi ogni giorno, guardando avanti al mio futuro.
La musica, l’intreccio della mia vita, senza di lei ancora oggi mi sentirei perso.

Il clima rilassato che la mia rivelazione ha creato nell’aria, mi riporta la spensieratezza necessaria per approfittare di questo surrealismo utopico e divertirmi un po’, giocherellando con quelli che una volta erano per me insormontabili ostacoli, e che ora ornano la mia quotidianità, rendendola splendida com’è.

“Ma oltre a scrivere musica faccio anche altro…”

Lancio il sasso in quel lago di desiderio che ci avvolge, pronto a godermi la risonanza di vibrazioni concentriche che già vedo sprigionarsi in tempo zero, mosse da quella curiosità che ancora alla mia età mi ritrovo come compagna di viaggio.

“…altro, tipo?” ed ecco la prima ondata giungere lieve ma decisa.

“Tipo… condurre un programma con la BBC Radio2..” inizio il mio elenco, notando il suo interesse crescere a dismisura e un “ohh” formarglisi sulle labbra.

“…tipo disegnare orologi per Swatch con Yasmine” asserisco subito dopo.

“Disegnerò orologi per Swatch con Yas???” il suo stupore e la sua eccitazione esplodono con irriverenza, travolgendomi con una ventata di allegria, ma non ho intenzione di fermarmi qui…

“…fare il coach a The Voice in Francia…” la sua espressione a questa affermazione muta repentinamente, mentre sul mio viso si disegna un piglio beffardo.


“Il cosa??!” devo aver capito male! Sicuramente ho capito male.

“Sì, questo è il mio quarto anno”

La risposta che segue, invece di calmarmi mi spiazza ulteriormente.

Non solo, apparentemente, la mia fifa nera per la tv si è dissipata per qualche recondito motivo, ma essere alla quarta stagione, può significare solamente che la cosa vale in qualche modo la pena. Non riesco a capacitarmi di come io possa essere finito in un programma di questo tipo. Come è possibile che l’ansia che mi assale ogni volta che devo andare in tv, sia scomparsa in questo modo. Sì perché nei miei occhi che mi fissano, non vedo traccia di preoccupazione alcuna. Per non parlare poi del francese. Che fine ha fatto la moltitudine di pare mentali che mi contorcono lo stomaco ogni volta che devo conversare in francese davanti a centinaia di persone?

Il mio altro sé mi fissa con un’espressione di evidente soddisfazione. Il motivo di questa sua rivelazione sono certo abbia a che fare con quel suo piglio furbo e compiaciuto e temo che il suo elenco non sia ancora giunto al termine.

“Cos’altro non mi stai dicendo?” gli chiedo infatti, spronandolo a vuotare il sacco, certo che se mi conosco come penso, avrà lasciato il peggio alla fine, per divertimento.

“…hm….che sto conducendo un programma TV tutto mio in Italia…”

La naturalezza con cui enuncia quest’ultima rivelazione mi lascia interdetto, nonché stordito.

Un programma TV tutto mio… Da qualche mese l’idea di una creazione in ambito teatrale mi sta balenando nella testa, ma dal concetto di opera teatrale ad un programma tv passa un oceano.
Rifletto bene su ogni parola da lui pronunciata, non so come mai, sento di essermi lasciato sfuggire un qualcosa. Poi rinsavisco.

“Aspetta un attimo, hai detto in Italia?” chiedo velocemente, cercando una risposta a quella implicazione che mi sta mettendo di nuovo una certa ansia addosso.

“Esatto. Ho imparato l’italiano 4 anni fa quando ho iniziato con XFactor…” mi confessa con naturalezza, aumentando quel ghigno divertito che sono certo di conoscere fin troppo bene.

“Io ho CHE COSA??!” Prego e supplico tutti i santi del paradiso di aver compreso male, di non aver davvero udito quella parola uscire dalla mia bocca. Non XFactor, non Cowell.

Il mio altro me annuisce con fermezza, ben conscio di cosa il mio urlo disperato stia a significare.
“Ma…ma… come puoi, come posso lavorare per COWELL?!” La mia disperazione credo sembri palpabile. Chissà, forse il calcio nel sedere frustrante ricevuto proprio da lui quando ero ancora un adolescente pieno di speranze, dopo così tanti anni non fa più così male, ma al povero 25enne quale sono, tutto questo sembra solo uno scherzo mal riuscito ed una scelta insensata.


“Tranquillizzati. Ti piacerà, vedrai!”

Cerco di indorargli la pillola, ben conscio che la sua reazione di incredulità sia più che sensata.

Ok, ammetto di aver dimenticato, o per lo meno messo da parte, da parecchio tempo quella storia di Cowell e ammetto che per quanto mi aspettassi un’espressione incredula sul mio viso sbarbato da venticinquenne, non avrei pensato il divario tra i miei due me su questo fronte fosse ancora così grande.

Guardandomi indietro, analizzando ciò che ho vissuto in questi anni, mi rendo conto solo adesso di quanto audace io sia stato. Mai a quell’età avrei contemplato molte delle scelte che mi sono ritrovato, felicemente e orgogliosamente a fare.

“Quando sono ammattito fino a questo punto…?”

La domanda con cui se ne esce non può che farmi scoppiare in una fragorosa risata. Il mio me stesso di otto anni addietro mi crede pazzo. L’ingenuità che lo pervade è adorabile, sa di spensieratezza, di fanciullezza, di giovane orgoglio.

“Non sei ammattito, o meglio sì, anche… Sei cambiato…” gli spiego con calma, senza celare il mio sentirmi comunque fuori dagli schemi ancora adesso.

La mia vita è cambiata, perché la vita mi ha cambiato.

Senza che io possa fermarla, la mia memoria vaga con forza e crudeltà ad una notte in particolare, quella notte nella quale la mia vita come la conoscevo è implosa, quella notte che ha sepolto le ceneri del mio passato e si è trasformata nella culla della mia nuova vita, che come un’araba fenice ha poi preso il volo e che ancora adesso vola guardando le nuvole dall’alto, sopra entrambe le nostre anime.

“A tempo debito imparerai che non servono otto anni per cambiare… Basta un solo attimo…”

Lo sguardo tra l’incredulo e il divertito che adorna i suoi lineamenti giovani, muta repentinamente, incontrollabilmente.

Mi sono lasciato andare. Ho detto tanto, troppo.

Una frase all’apparenza di circostanza, una frase dal suono di una saggia citazione.

Un nulla per il mondo. Una pietra pesante per il giovane ed ingenuo me.

Nei suoi occhi leggo la preoccupazione e l’incomprensione, che lui stesso legge nei miei.

Ma dentro di me ho già deciso che questa non è una concessione che gli farò.

No. Non è tempo ancora.

La domanda non la esprime a parole, ma nei suoi occhi trovo ogni sillaba taciuta.

Scuoto la testa.

Sei troppo sveglio, ragazzo mio.

Sei troppo spensierato.

Anzi non lo sei troppo, lo sei quanto hai il diritto di esserlo alla tua età.

Sei sveglio.

Hai capito il mio cenno e mi stai facendo il grande dono di non chiedermi oltre.

Ti ringrazio per questo e inconsciamente lo farai anche tu, quando il momento verrà.

La vita farà il suo corso, con difficoltà o agilità, ma finché posso, non ti negherò la protezione che posso darti.


Il velo opaco che annebbia gli occhi che mi osservano mi spaventa, mi scuote dentro, mi lascia basito.

C’è qualcosa di oscuro, nascosto nella mia vita che verrà, e il mio io me lo sta tacendo.

Gli chiedo silenziosamente di rompere il muro di incoscienza ma il suo cenno del capo è chiaro e irremovibile.

Non ne comprendo le ragioni e ciò che non conosco mi spaventa.

Chiudo gli occhi, respiro a fondo e cerco di scacciare questa sensazione amara e ritorno a squadrare la stanza in modo approfondito, per assorbire ogni dettaglio del mio futuro.

“Vuoi fare un giro per casa?”

La gentilezza con cui mi avvolgono le sue parole mi prende per mano e mi conduce di nuovo alla realtà.

L’attimo dopo siamo in piedi, uno di fronte all’altro.

L’esplorazione della casa ha inizio.

Passeggio bramoso di conoscere ogni angolo nascosto di questa immensa villa che sarà un giorno il mio porto sicuro, complimentandomi con il mio buon gusto, che ancora una volta ha colpito inesorabile.

Cucina, sala da pranzo, primo e secondo salotto, giardino. Solo il piano terra mi sembra immenso e già sento di non ricordare nemmeno da che parte io sia entrato.

Uscendo dalla cucina mi balza l’occhio su due ciotole di acqua riposte accanto al muro.

Spiccano sue nomi che le mie conoscenze di arabo mi inducono a tradurre come “”Regina” e “Principessa”.

“Hai due cani?” La domanda mi sorge spontanea dopo che, guardandomi di nuovo bene attorno, scorgo solamente colei che dovrebbe essere Melachi girovagare appresso a noi per casa.

Il sorrisone fiero che scorgo sul mio volto futuro mi travolge in un moto di gioia e dolcezza.

Amo i cani ed il solo pensiero di averne due mi manda completamente su di giri.

“Sì, lei e Amira che è fuori con Andy”

Il tuffo al cuore che mi sorprende a quest’ultima rivelazione è completamente inaspettato, quanto meravigliosamente stupendo.

Andy. L’altra mia àncora, nonché apparentemente il mio ancora.

Non vorrei essere così diretto, ma il bisogno di sapere mi assale con prepotenza.

“Andy è… Stiamo ancora insieme…” chiedo facendo un veloce calcolo mentale, sperando di non sbagliare “..dopo 10 anni?” affermo senza nemmeno riuscire a rendermi conto davvero dell’importanza che quell’implicazione porta con sé.

“Sì, stiamo ancora insieme e conviviamo”

L’espressione di sincero amore che leggo sul mio stesso volto di domani, rilascia dentro di me una scarica di endorfine indescrivibile, facendomi accantonare per un momento il pensiero costante di quella macchia scura sconosciuta in quell’universo di colore che sembra essere il mio futuro.

Dio quanto bramerei incontrarlo. Quanto vorrei vederlo, osservarlo, bearmi di ogni suo cambiamento. Quanto vorrei udire la sua voce di oggi e percepirne il cambiamento, così come ho potuto fare udendo la mia.

“Scommetto che è ancora bello com’era.” Mi lascio sfuggire in un’introspettiva riflessione.
Lo vedo annuire, sempre mantenendo quel sorriso d’inebriato innamoramento.

“Non è solo la bellezza che ti ha fatto cadere ai suoi piedi, che sostiene la nostra storia adesso… Lasciagli tempo… saprà stupirti…” Mi lancia questa confessione sfumata che catturo al volo e cullo protettivamente.

Nei suoi occhi fa capolino l’universo infinito, mentre mi dona accesso a questa parte del suo mondo.
Vorrei sapere, chiedere, indagare, ma capisco la mia, la sua riservatezza e taccio.

Solo una preoccupazione mi attanaglia e viene in superficie prepotente, facendosi largo per uscire.

“E com’è convivere e nascondersi allo stesso tempo?” La richiesta che avanzo credo gli arrivi chiara anche senza specificare ulteriormente la questione, perché la risposta che ricevo è mirata e perfettamente coerente coi miei pensieri.

“Semplicemente non ci nascondiamo. La verità dietro Billy Brown adesso non sta solo nella canzone. È sempre stato nei miei piani, lo sai benissimo.”

Una scarica di ansia mista ad adrenalina si impossessa di me in un frangente, lasciandomi di nuovo ammutolito per un lungo attimo.

Ce l’ho fatta quindi. Apparentemente il grande passo di apertura che tanto mi spaventa, sono riuscito a farlo e da come ne parla, sembra che la cosa non abbia portato nemmeno le grandi e temute tragedie.

“E come è andata?” chiedo ugualmente. Solo uno stolto non approfitterebbe di un vantaggio sul futuro.

“È andata bene, così come doveva andare. Siamo entrambi contenti.” Mi rassicura definitivamente, raccogliendo la tazzina dal tavolino davanti a cui siamo giunti di nuovo e sorseggiando l’ultimo sorso di tè.

Siamo.

Anche Andy.

“Non si è ancora stancato di girare il mondo insieme a me?” chiedo di nuovo, assalito dal desiderio di sapere di più e un po’ ci rimango male quando la sua risposta mi fa capire che nonostante la nostra storia prosegua, Andy non sembra più far parte della squadra che mi segue in tour.

“…è davvero contento e soddisfatto, fa il lavoro che ama di più in assoluto. Sarai felicissimo e fiero di lui, fidati” mi assicura con un occhiolino d’intesa, aggirando il divanetto del salotto.

Ancora una volta lo osservo attentamente e riconosco l’assenza di una qualsivoglia menzogna nel suo sguardo e mi perdo a immaginare come io sia arrivato a trovare la serenità in una possibile distanza tra di noi, quando ad ora tutto questo riesce a suonarmi solamente a dir poco insopportabile.

Tornato a sedermi sul comodo divano verde, di fronte a lui, lo vedo spostare le tazzine di tè, ormai vuote, dal tavolino al vassoio, e ne approfitto ancora per uno sguardo attorno.

D’improvviso, un piccolo affarino colorato semi-nascosto sotto al divano attira la mia attenzione e la cattura indissolubilmente.

Nella mia mente faccio due calcoli veloci, vagliando le varie motivazioni e le possibili connessioni.
Non può essere… Non così presto.

“Noi… ehm… Andy e io.. cioè te…convivete soli…?” chiedo cercando di non essere troppo esplicito, forse più per un certo timore che per altro.


Non afferro immediatamente la domanda che mi viene posta, non capisco esattamente dove voglia andare a parare. Sto per rispondere nominando Mel e Amira, quando noto il suo sguardo posarsi sulla soglia del divano, da dove vedo sbucare uno dei sonaglini di Sam, dimenticati da Paloma il giorno prima e le idee si fanno chiare.

“Questo è di tuo nipote” affermo estraendo il giocattolo e portandolo sul tavolino, emettendo un suono divertente che fa voltare Melachi, interessata.   

Gli occhi si sgranano a dismisura e le mani davanti alla bocca sopprimono un gridolino eccitato.
“Oddio che meraviglia. Paloma o Yasmine?” chiede al limite della gioia, esultando quando gli comunico quale sorella m’ha fatto diventare zio.

Di nuovo leggo la felicità e la gioia nello sguardo del mio vecchio-giovane io e sorrido, grato e orgoglioso che la vita che ho costruito abbia avuto il potere non solo di rendermi felice nel presente ma anche di mantenere la coerenza del mio io di ieri.

Un trillo fastidioso si insinua nelle orecchie delle nostre anime del ieri e del domani, unite nel presente onirico.

*
Mi desto di soprassalto assestando un pugno al piccolo aggeggio che ogni mattina rende il mio risveglio più doloroso di quanto non sia già.

Mugugno sconsolato, adocchiando l’orario sul cellulare e sforzandomi di aprire gli occhi completamente.

“Dai bradipo che se arrivi tardi anche stamattina in studio, è la volta buona che Greg ti uccide”
L’urlo di Andy dal bagno squarcia la quiete e mi riporta alla realtà. Una nuova giornata di lavoro sta per iniziare e io non ne ho la minima voglia.

Mi metto seduto stropicciandomi gli occhi, cercando di scacciare il sonno appiccicato alle palpebre mentre frammenti scomposti e confusionari del mondo onirico che mi sono appena lasciato alle spalle, vagano svolazzanti per la mia mente e si dissolvono nell’aria frizzantina della finestra aperta, scomparendo nell’oblio dell’incoscienza, nonostante i miei futili tentativi di catturarne alcuni.

Crogiolarmi tra le coperte rimuginando sui mondi all’interno dei quali ho scorrazzato inconsciamente è il mio inizio di giornata ideale, adoro analizzare le mie illusioni notturne, se solo la mia vita di artista 25enne non collidesse fortemente con questa mia passione mattutina…

Il potere distruttore che il trillo della sveglia ha sui miei sogni è una delle cose che più odio nella vita e stamattina attorno a me aleggia la sensazione che questo odio debba essere per qualche ragione, ancor più giustificato del solito.

Chiudo gli occhi buttando la testa tra i cuscini cercando di recuperare alcuni flash del sogno da cui mi sono appena destato, ma tutto ciò che trovo nell’abisso profondo tra conscio ed inconscio, l’unico superstite della mia avventura vissuta-non vissuta è un accenno di melodia.    

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Buonasera.
La prima storia a sé che pubblico. Non una long, non una raccolta di one-shot.
Che dire... Ispirata in un sogno, per davvero, concretizzata in due giorni.
Velatamente ispirata alla visione che Mika dà del passato, nella lettera scritta per i suoi 30 anni, ma liberamente tratta dalla mia immaginazione di un Mika venticinquenne che incontra il Mika di oggi e che reagisce alle sua vita futura con la sua visione da ragazzo, intersecata con il giudizio retrospettivo di un Mika adulto e cresciuto.
Spero siate riusciti a sospendere l'incredulità come vi ho chiesto, altrimenti tutto questo vi sarà sembrato solo un ammasso di parole senza senso.
A voi l'ardua sentenza.

Ps. Ringrazio la mia beta-reader/consigliera Lady Françoise

Vv




 
 
 
   
 
 
 
 
 
  
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