Crossover
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Autore: Registe    10/04/2017    3 recensioni
Tredici guardiani. Tredici custodi del sapere.
Da sempre lo scopo dell'Organizzazione è proteggere e difendere il Castello dell'Oblio ed i suoi segreti dalle minacce di chi vorrebbe impadronirsene. Ma il Superiore ignora che il pericolo più grande si annida proprio tra quelle mura immacolate.
Questa storia può essere letta come un racconto autonomo o come prologo della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
[fandom principale Kingdom Hearts; nelle storie successive lo spettro si allargherà notevolmente]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Anime/Manga, Videogiochi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 3 - Lumaria (II)





Uomo incappucciato





“Mi stai dicendo che ho appena rapito l’unico nobile che non vale un cavolo?”
Lumaria si strinse ancora di più nel mantello cercando di cancellare il frastuono di quella povera pazza. Bevve ancora un sorso di birra scura dal boccale, mandando giù con disgusto quel liquido che probabilmente era stato ricavato dal piscio di un asino e che a malapena riuscì a levargli dalla gola il sapore del fango e delle lacrime. “Credi che la cosa mi faccia piacere?” sibilò.
Fissò l’ultimo pezzo di pane nero che lo osservava dal fondo del vecchio cestino che l’oste del Porco Zoppo aveva appoggiato sul loro tavolo con un grugnito insieme a due fette di carne salata che si era ritrovato a divorare prima ancora di rendersi conto di cosa stesse effettivamente mettendo sotto i denti: suo padre avrebbe fatto tagliare la mano a chiunque avesse osato mettere sulla tavola imbandita dei Dayel anche solo una fetta di quel pane duro di tre, forse quattro giorni prima, e Lumaria si accorse con odio di star fissando quel cibo degno solo delle galline con le labbra secche e lo stomaco infuriato. Allungò la mano e lo strinse prima ancora che la sua rapitrice potesse reclamarlo per sé, cercando in tutti i modi di soffocare il groppo alla gola mentre la crosta dura trovò in un istante la strada che andava dai polpastrelli al suo palato.
La voce della sua educatrice che gli ricordava di masticare almeno dieci volte un boccone prima di deglutirlo si perse tra i mille e più ricordi, soffocata dal suono della crosta sotto i denti, inghiottita in fretta e furia.
Non c’era più nessuno.
Per un istante gli parve di scorgere la chioma rosa di Asfania e volse la testa nella sua direzione, ma vide solo una prostituta venire gentilmente allontanata da un mercante Radigata e passare ad un altro tavolo, sollevando in modo sguaiato la gonna. Un uomo armato fino ai denti, probabilmente un mercenario, la afferrò per i fianchi e la mise a sedere sul bancone dell’oste, poi prese una moneta di rame dal borsello e gliela fece passare proprio tra le gambe rubandole un verso così osceno che Lumaria si costrinse a volgere la testa da un’altra parte e ad ignorare le voci di molti avventori che spingevano il mercenario a continuare. Si impose di fissare una piccola macchia di vino –o forse era sangue- sullo stipite dell’ingresso della taverna, ma un vecchio straccione si parò proprio davanti ai suoi occhi con le orbite venate di rosso e la puzza di vino rancido che lo colpirono come un calcio nel torace. Proclamando a gran voce di essere il Grande Satana Baan in persona venuto in quella città per purgarla dalla piaga dei funghi sotto le unghie, l’accattone venne avvicinato da un paio di giovani uomini che lo trascinarono fuori, spingendolo oltre lo stipite: anche dalla sua panca Lumaria riuscì a sentire il rumore dei bastoni e d’istinto si strinse ancora di più contro il muro, cercando di non ricordare. D’istinto trangugiò tutto quello che era rimasto nel suo boccale nella speranza che la troppa birra potesse dargli un briciolo di sollievo, ma l’unica cosa che ottenne fu un maggior bisogno di rimettere: l’interno del Porco Zoppo puzzava quanto il porcile del suo palazzo, il sudore e le latrine vicine si infilarono tra le sue narici ed il sapore della bevanda fece il resto; trattenne a stento un conato, poi cercò di alzarsi in piedi e raggiungere l’esterno per mendicare almeno una boccata d’aria.
Non aveva ancora poggiato i piedi bene a terra che sentì qualcosa sibilargli addosso e piazzarsi pericolosamente tra le sue gambe. “Ti ho dato il permesso di alzarti, Lumy?”
“Ho solo bisogno di respirare un po’ …”
Si morse subito il labbro per il tono quasi debole con cui le aveva risposto. Stava calpestando tutto il suo orgoglio, ma farlo davanti a quella popolana chiaramente pazza era un prezzo fin troppo alto. Specie quando la ragazza gli aveva sottratto la spada e la stava usando per minacciarlo anche da sotto il tavolo. “… e comunque non ti ho dato il permesso di chiamarmi così”.
“Non chiedo il permesso a nessuno più o meno da quando avevo cinque anni, Lumy. E comunque preferisci che gridi a tutta la taverna di avere tra le mani l’ultimo rimasto della famiglia dei Dayel? Ho come l’impressione che ci sarebbe qualcuno disposto a prendere la tua testa e, fidati, non solo i tuoi amichetti Durlyn. Voi Dayel non siete proprio amati da queste parti, sai? Mio padre dice sempre che quasi quasi preferisce pagare i tributi ai demoni che non a voi nobili!”
“Li pagasse pure …”
D’istinto si portò le dita alle labbra, cercando di trovare sollievo nello stringere qualcosa che non fosse il collo della sua rapitrice dai capelli biondi. In tutta risposta lei gli affibbiò un calcio proprio dietro il ginocchio, rubandogli un guaito di dolore che per fortuna nessuno in quel letamaio riuscì a sentire. Portò la mano alla parte ferita, dove avevano applicato delle fasciature di fortuna, e sentì la fitta della ferita in procinto di riaprirsi.
Subito dopo il loro incontro Arlen –quello era il nome della bifolca- lo aveva trascinato fino a quel borgo; gli aveva ripetuto il nome almeno tre volte, ma nella testa di Lumaria vi era soltanto il dolore delle ferite, la stanchezza e l’immagine del suo castello ancora in fiamme. Si era voltato solo una volta, nel corso della loro cavalcata notturna, e dalla collina il fuoco aveva continuato ad illuminare la notte per ore. Arlen lo aveva spinto nella stamberga di un guaritore di nome Jae non appena erano apparse le prime luci del giorno, e quel vecchio bastardo sdentato gli aveva stretto a forza uno straccio tra i denti prima di estrargli la punta della freccia. Non aveva mai sentito tanto dolore.
Almeno finché l’uomo non aveva preteso di essere pagato.
Lumaria avrebbe preferito perdere un occhio piuttosto che dar via la sua spilla di famiglia. Aveva sempre avuto a disposizione più denaro di quanto ne avesse saputo contare, ma quando aveva digrignato nel dolore della ferita che lo avrebbe ricompensato non appena sarebbe ritornato al potere quello gli aveva strappato la spilla a forma di rosa dall’abito e li aveva buttati entrambi fuori dal suo tugurio. Le poche monete che Arlen aveva trovato nelle bisacce dei cavalli dei Durlyn erano bastate appena per pagarsi quel pasto disgustoso.
Lo strappo sul vestito era l’ultima testimonianza del gioiello che ogni futuro erede dei Dayel avrebbe dovuto indossare tutti i giorni, ed il solo pensare di averlo barattato con una fasciatura lurida e qualche unguento gli bruciò dietro agli occhi più amaro di qualsiasi lacrima. Se solo le sue conoscenze di magia fossero state migliori avrebbe persino provato a far rimarginare quella ferita da solo, ma erano trascorsi anni da quando aveva praticato l’incantesimo più elementare e senza dubbio non si sarebbe mai affidato alle magie chiaramente amatoriali della sua aguzzina. Riuscì ad avvicinare a sé uno sgabello abbandonato e vi appoggiò la gamba sinistra.
Su una cosa Arlen aveva ragione: in quella locanda non avrebbe trovato nessuno disposto ad aiutarlo, né gente disposta ad accettare la sua parola di nobile come compenso. Osservò il mercenario che aveva appena suscitato ilarità con la prostituta, chiedendosi con quanta facilità si sarebbe inchinato a lui se solo fosse stato ancora il principe e non un pezzente qualsiasi, di come avrebbe scodinzolato al pari di un mastino davanti all’osso di fronte alla borsa piena di monete d’oro se gli avesse chiesto di far fuori quella ragazza e tutti i Durlyn che si fossero parati sul suo cammino. E lo stesso poteva dirsi di tutti gli avventori di quella bettola, compreso un gruppo di cacciatori che si stava pavoneggiando sotto la testa di un cervo impagliato nemmeno l’avessero ucciso loro; suo padre gli aveva sempre ripetuto che ogni uomo poteva essere acquistato per il giusto prezzo, ma purtroppo tra le dita di Lumaria vi erano meno monete di bronzo di quelle nelle tasche dell’accattone ubriaco che era stato trascinato fuori di lì. Cercò di focalizzare la testa su tutti coloro dai quali avrebbe potuto chiedere aiuto in nome della vecchia amicizia con il suo casato, ma i suoi pensieri vennero interrotti da un piatto di terracotta appoggiato con ben poca grazia sul loro tavolo con due fette di carne, delle patate arrostite, alcune fette di formaggio ed una forma di pane senza dubbio migliore del pezzo di marmo che era stato servito loro poco fa.
L’oste prese i loro boccali vecchi e li sostituì con altri nuovi, adesso pieni. “Credo che il vostro ammiratore voglia vedervi in forma, signorine. Mangiate a sazietà”.
Lumaria si costrinse a sopportare anche quell’ennesimo insulto. Lo stomaco ebbe la meglio su qualsiasi forma di pensiero intelligente e strinse una delle fette di formaggio prima che Arlen potesse metterci sopra le mani, ma con gli occhi seguì il gesto dell’oste, il pollice riverso che indicava il loro benefattore.
Più di una volta degli uomini di Radigat si erano seduti al desco di suo padre. Grandi mercanti.
Grandi oratori.
Se il suo nobile genitore fosse stato davvero ad ascoltare ogni singola parola uscita dalle loro bocche probabilmente avrebbe venduto loro l’intero castello, forse anche il corredo della sua nobile madre. Lumaria li aveva sempre trovati dei commensali fin troppo fastidiosi ed invadenti –una loro ospite Radigata di una certa età aveva insistito per ascoltarlo declamare almeno cinque sonetti di un poeta che disgraziatamente il suo precettore gli aveva proposto proprio quel mese- ma suo padre adorava ripetere che le alleanze si stringevano annuendo davanti ad una tavola imbandita con del buon vino, non certo sui campi di battaglia come facevano le bestie. E nulla rendeva i Radigati più disposti a scendere a patti ragionevoli di lasciarli parlare per ore della gloria dei loro avi e della magnificenza della loro prole. Si era considerato molto fortunato quando nessuna richiesta di alleanza matrimoniale era stata richiesta da una delle loro famiglie.
Il mercate Radigata –lo stesso che qualche minuto prima aveva respinto la corte della prostituta- era seduto al suo tavolo, intento a scambiare qualcosa con altri avventori alla propria sinistra. La sua carnagione bruna risaltava persino tra le facce arrossate e butterate dei vari interlocutori, resa ancora più evidente dai capelli bianchi, quasi argentati, che emanavano riflessi luminosi tutte le volte che l’uomo scuoteva la testa. Tra i ciuffi acconciati in maniera elegante emergevano le orecchie grandi, leggermente appuntite, di cui i Radigati facevano sempre bella mostra nonostante alcune malelingue le considerassero una spia di sangue della famiglia demoniaca nelle loro vene; doveva avere una quarantina d’anni. L’uomo si voltò nella loro direzione con fare discreto e, quando incrociò lo sguardo con Lumaria, sollevò lievemente un bicchiere di vino rosso quasi ad invitarli a raggiungerlo.
Lumaria sapeva riconoscere un nobile quando ne vedeva uno. E nessun nobile dalle pure intenzioni avrebbe messo piede in una taverna simile.
La sensazione che quell’individuo li avesse osservati per tutte quelle ore gli fece immediatamente risalire la birra in bocca, accompagnata alla terribile sensazione che il pasto appena giunto dal loro munifico “benefattore” avesse un secondo e più orribile fine. Si maledisse per la propria idiozia e con uno sforzo incredibile per la sua gamba ancora sanguinante si tirò in piedi. “Arlen, lascia stare tutto e muoviamoci!”
“Suvvia, Lumy, proprio ora che …”
Avrebbe lasciato volentieri lì quella dannata ragazza, ma in quel momento, specie quando il Radigata li stava fissando, aveva il dannato bisogno di qualcuno che potesse aiutarlo a camminare. Lumaria la afferrò per il polso e, fosse santificato l’intero Nirvana, lei non oppose troppa resistenza e si sollevò dal tavolo. “Questo pasto era una scusa per trattenerci q …”
“Guardate, un fiorellino fuori dal suo vaso. L’indicazione era giusta”.
Lumaria rimase immobile, fissando la punta della spada a meno di un palmo dalla sua gola.
L’ingresso della taverna si riempì di uomini Durlyn. Uno di loro scaraventò a terra il loro tavolo mentre tre si avventarono su Arlen non appena l’idiota portò la mano alla cintura per estrarre il coltello. Altri continuarono ad entrare dalla porta ed a estrarre le armi fino a creare un muro di armature, scudi e spade nel bel mezzo della stanza. Lumaria girò gli occhi per chiedere aiuto, ma gli avventori del Porco Zoppo voltarono tutti lo sguardo nel loro piatto, oste compreso. “Complimenti per la fuga, principe Lumaria. Lord Bernard Durlyn ha promesso di ripagare a peso d’oro chiunque gli riporti la vostra testa”.
Il capitano, quello che gli stava parlando con la spada in pugno, sghignazzò sotto il doppio mento ed il dedalo di cicatrici che gli arrivava fino al collo. “Stasera ci conviene mangiare a sazietà, ragazzi!”
Un muro di risate lo circondò. Lumaria cercò disperatamente di guardare in direzione dell’unica via di fuga, la finestra dall’altro capo della taverna, ma uno dei soldati si era piazzato proprio davanti ai battenti. Mosse le mani anche solo per chiamare qualche incantesimo elementare, ma per tutta risposta la punta della lama del capitano si avvicinò fino a sfiorargli la pelle. “Oste, adesso usciamo e sistemiamo la questione. Quando rientriamo vogliamo trovare la tua carne migliore ed il vino per gli ospiti di riguardo. Offre Lord Bernard!” disse, sospingendolo verso la porta. “La ragazza la terremo per il dolce”.
“Mi perdoni, buon uomo. Credo ci sia stato un disgraziato malinteso”.
La prima cosa che entrò nel campo visivo di Lumaria fu una mano avvolta in un guanto di pelle nero che si appoggiò proprio sulla lama premuta contro la sua gola. Il capitano grugnì all’intervento del nuovo arrivato e ruotò la lama fino a fargliene toccare il filo, ma l’altro non allontanò la mano. “I due giovani sono miei compagni di cena, l’oste può confermarvelo. Ritengo che vi stiate accanendo sulle persone sbagliate”.
Visto da così vicino, il Radigata lo superava almeno di un palmo. Aveva una voce piuttosto profonda ma dura, tipica di chi non fosse abituato a ricevere un “no” come risposta. Accanto alle grandi orecchie emergevano degli zigomi sporgenti ed affilati, ben marcati persino per la media della loro gente. Ma ciò che colpì d’impatto Lumaria, nonostante la sua scomoda posizione, furono gli occhi.
La lama riflesse soltanto un guizzo di quelle iridi color ambra intenso, quasi gialle se colpite dai riflessi del sole; erano accesi, curiosi, di un colore peculiare persino per la sua gente e Lumaria capì che anche i soldati Durlyn avevano avuto il suo stesso presentimento perché istintivamente un paio fecero un passo indietro. A quella distanza percepì il debole tintinnare della magia che avvolgeva l’uomo nel suo abito lungo, scuro, e parte del suo cervello si domandò in fretta e furia se fosse meglio rimanere tra le grinfia dei suoi nemici o tra quelle del Radigata; una domanda che trovò subito risposta ricordandosi a chi appartenesse la lama ancora troppo vicina alla sua gola. Guardò oltre il tavolo, sperando che quella pazza di Arlen potesse fare abbastanza idiozie da sembrare un diversivo, ma anche lei stava osservando incuriosita il nuovo venuto –che chiaramente non aveva paura di almeno tre spade puntate contro il suo petto- mentre cercava di divincolarsi dalle guardie. Il capitano fece andare gli occhi chiari da lui al Radigata, poi di nuovo su di lui. Lumaria avrebbe voluto strapparglieli, quegli occhi. “Quando si tratta di oro il vecchio Jae non sbaglia mai. Ha asserito di aver curato sua eccellenza il principe Lumaria dei Dayel proprio stamattina. Adesso le consiglio di tornare al suo vino, signore. Intromettersi negli affari della famiglia Durlyn non fa bene alla salute, sa?”
“Invero dovrei avere più riguardo della mia salute. La ringrazio molto per il riguardo, capitano, ma sarei davvero desolato se infastidisse questi due giovani. Non sarebbe possibile risolvere la questione …” sussurrò, portandosi ancora più vicino al soldato incurante delle lame che cercarono di interporsi. Portò con fare distratto una mano al fianco, ed anche un cieco avrebbe riacquistato la vista al sentire il lieve risuonare di monete in un borsello grande quanto la zanna di un drago “… in un altro modo? Possibilmente fuori di qui”.
Lumaria cercò di almanaccare rapidamente la lista di tutte le persone che avrebbero potuto pagare così tanto per sottrarlo ai Durlyn, ma gli vennero solo in mente una manciata di casate –i Fa’ur, i Jatonilla e forse anche i Vintemya- che avrebbero versato quella somma di denaro per ucciderlo con le loro stesse mani. Cercò lo sguardo ambra dell’uomo, ma le pupille di quello erano puntate sul capitano e non mosse un muscolo finché l’uomo in armatura non emise un verso più simile ad un grugnito che ad un assenso. “Di certe cose è bene discuterne sul retro, non trova?”
“Sono pienamente d’accordo. Tra galantuomini si trova sempre un accordo”.
Un paio di uomini si avvicinò a loro e Lumaria venne spinto senza troppi riguardi attraverso la sala, cercando ancora uno sguardo da quella plebaglia di avventori che non arrivò. L’oste spalancò una piccola porta di servizio, ed il tanfo di letame che li accolse gli fece presagire il peggio.
Fu solo quando una guardia gli diede una spinta un po’ più forte delle altre si accorse di un particolare, un dettaglio che senza dubbio era sfuggito ai suoi persecutori: dall’altro lato della taverna, dove delle travi basse in legno facevano cadere delle ombre agli angoli della stanza, una figura enorme, alta e massiccia si staccò dalla parete dove era stato fin dall’inizio della conversazione, silenzioso fin quasi a svanire anche agli occhi della gente. La sagoma -un uomo dagli stessi abiti lunghi e neri del Radigata, con un cappuccio calato fino agli occhi- attraversò il pavimento in legno senza emettere alcun fiato, fin quasi a raggiungere gli ultimi soldati.
 
“Suppongo che questa possa essere una cifra ragionevole …”
Il Radigata doveva essere assolutamente matto. Oppure ben più pericoloso di quanto le apparenze mostrassero.
Lumaria si trovò quasi a sperare nella prima opzione quando vide più di cinquanta monete d’oro tintinnare a terra ai piedi dei suoi assalitori in quel borsello portato quasi in bella vista in una taverna dove l’uomo più santo avrebbe venduto un proprio figlio solo per metà del suo contenuto. Se non si fossero trovati nel sudicio retro del Porco Zoppo probabilmente dei briganti li avrebbero uccisi tutti per procurarsi quel bottino. E, chiaramente, anche i Durlyn avevano pensato la stessa cosa.
Il capitano scrutò ogni singola moneta caduta, poi avvicinò la punta della spada al borsello quasi si trattasse di un serpente velenoso. Lumaria si morse il labbro, capendo che i Durlyn non avevano assoldato tra le loro fila dei completi idioti, sebbene gli occhi delle altre guardie sembravano quelli di sparvieri rapaci pronti a gettarsi sulle prede. Il misterioso quanto pazzo benefattore guardò il capitano con un’espressione del tutto dispiaciuta. “Sono oro vero, credetemi. Vexen non ammetterebbe nemmeno la più piccola impurità nei metalli del suo laboratorio”.
“Mi fido sulla parola”.
Dopo qualche istante di riflessione, l’uomo costellato di cicatrici si chinò e prese in mano la sacca, fermandosi solo qualche istante a rimettervi dentro le monete cadute. “Ciò che non comprendo è per quale motivo qualcuno dovrebbe sborsare tutto questo denaro per un principe pezzente ed una contadina”.
“Oh, è molto semplice. Lo faccio per il vostro bene” rispose il Radigata, allargando le braccia come a voler spiegare un concetto ovvio ad un moccioso di cinque anni. Solo che, in quel caso, il concetto non era del tutto ovvio ed i mocciosi erano in realtà dei mercenari professionisti armati fino ai denti. “Accettare quella somma sarebbe tutto nel vostro interesse, non trovate?”  
“Sappiamo da soli quali siano i nostri interessi, signore. E, a pensarci bene, lei rientra perfettamente nel nostro concetto di affari” disse, con un ghigno che non sfuggì allo sguardo di Lumaria mentre serrò alla cintura il pesante borsello “Uomini, prendete questo signore! Sono convinto che varrà da solo anche più di queste monete!”
Purtroppo, sospirò Lumaria tra sé mentre cercava ancora una volta di divincolarsi dalla stretta dei suoi aguzzini, il ragionamento del comandante era perfetto e lineare. La plebaglia ed i soldati in particolare tendono a compiere qualunque atto spregevole per qualche soldo in più. Dietro di lui sentì Arlen trovare la questione assolutamente divertente, ma per quel che lo riguardava non avrebbe permesso alla sua unica via di fuga, per quanto pazza, ingenua, sprovveduta o qualunque altra deformità mentale che gli dèi avessero partorito, di farsi catturare e quindi mandare a monte la flebile luce di salvezza che gli era apparsa davanti nel momento in cui quel Radigata si era avvicinato a loro. Si guardò intorno, ma a parte una coppia di ratti non vi era nulla di utile. Un paio di guardie, le ultime uscite dalla taverna, si portarono ai fianchi dell’uomo di nuovo con le armi in pugno e Lumaria sferrò un calcio sugli stinchi al mercenario che lo avviluppava con la gamba ferita, ma quello per tutta risposta gli piazzò un pugno alla base della schiena. Nonostante il dolore cercò di sfuggire alla presa, ma il suo peso non riuscì a forzare le braccia dell’uomo né i suoi bracciali metallici.
Poi, d’un tratto, qualcosa scosse Lumaria. Non fu né un calcio, né un pugno, nemmeno uno spintone o una stretta. Fu come se tutta l’aria intorno alle sue gambe fosse stata scaraventata di netto verso il basso, e l’attimo dopo la presa del suo carceriere si allentò e lui cadde a terra. Nonostante le fitte cercò di rialzarsi, ma non si era nemmeno posto sulle ginocchia che una seconda ondata lo scagliò di nuovo in un angolo del vicolo e si ritrovò riverso in alto, gli occhi puntati al cielo.
Sopra di lui le pareti del Porco Zoppo iniziarono ad oscillare.
Il primo istinto fu di portare le mani alla testa per proteggersi, ma i suoi palmi sentirono di nuovo la terra scuotersi sotto di lui, accanto a lui, tutto intorno a lui quasi come se il Cavaliere del Drago in persona stesse ruggendo per uscire dal sottosuolo. Si raggomitolò nel lerciume del vicolo cercando con gli occhi la via di fuga, ma quello che vide tra le scosse gli fece morire il cuore in gola.
Il soldato che fino ad un istante prima lo stava afferrando sparì.
Lumaria vide le sue forme scivolare dentro la terra del vicolo quasi risucchiate da un vortice, come se una fossa fosse stata scavata proprio sotto le sue gambe; in meno di un istante l’uomo abbandonò la presa della spada e venne trascinato in basso tra grida di terrore, e quando la voce roca del capitano gli fece eco si accorse che tutti i Durlyn stavano lottando per sopravvivere afferrando con le mani ciò che rimaneva del suolo del vicolo mentre sprofondavano nella terra e nei rifiuti. D’istinto il principe sollevò le gambe e se le portò al petto, lontano dal terriccio, ma mentre tutto intorno a lui continuava a scuotersi e vibrare vide il Radigata ancora in piedi, perfettamente calmo in mezzo a quella devastazione anche quando un pezzo dell’edificio al loro fianco si staccò e cadde in un’esplosione di calcina e fango proprio ad un palmo dalla sua figura. “Lexaeus, ti ringrazio. Adesso però ti chiedo di fermarti. Abbiamo causato fin troppo scompiglio”.
Una nuova scossa, più violenta di ogni altra, si abbatté in mezzo a loro. Lumaria si ritrovò in gola un suono odiato, la propria voce quasi spezzata dalla paura mentre un secondo pezzo di parete venne giù proprio accanto a lui e lo coprì di polvere. Sbatté con violenza la schiena a terra e si preparò al peggio.
La vibrazione sparì proprio come era apparsa.
Non si chiese quanto fosse rimasto lì, col cuore in gola. Sapeva solo di avere le dita strette convulsamente al terriccio fino a far sanguinare le unghie e di avere calcina anche sulla lingua. La sua testa sentiva solo la terra tremare per afferrarlo, premendolo in basso quasi ad avvinghiarsi ad un cavallo in procinto di scalpitare e pestarlo a morte. Gli occhi erano chiusi, sbarrati, quasi a non voler vedere gli edifici rovinargli addosso. Sapeva che qualunque cosa fosse era terminata, eppure tutto il suo corpo era teso al massimo e gridava il contrario, pervaso dalla paura che qualunque cosa fosse accaduta sarebbe potuta tornare, la stessa paura che aveva provato al sentire gli zoccoli dei Durlyn dietro di lui nel bosco. Tutto tornava per finire il lavoro.
Senza alcun motivo cercò di affondare di nuovo le dita a terra, ma qualcosa di morbido si chiuse intorno alla sua mano sinistra. “Mi dispiace averti spaventato, figliolo. Ma avevo avvisato quelle guardie di accettare la mia offerta per il loro bene. Cielo, per quale motivo la gente ignora i miei consigli?”
“Non ne comprendono il valore, Superiore”.
La seconda voce, più bassa e profonda di quella del Radigata, spinse lentamente Lumaria ad aprire gli occhi pur continuando a trattenere il respiro: l’uomo dai capelli argentati era chino su di lui, gli strani occhi gialli puntati contro il suo viso che gli generarono subito un senso di puro disagio. Disagio, o forse l’odiosa sensazione di essere commiserato da un perfetto sconosciuto. Cercò di disimpegnarsi da quello sguardo, e le sue pupille misero a fuoco l’uomo a cui apparteneva quella voce profonda e secca.
Se avesse creduto all’esistenza della stirpe dei giganti senza dubbio lo avrebbe considerato tale. Era proprio la figura che li aveva seguiti quando si erano inoltrati sul retro, ma con il cappuccio abbassato e con la sua ombra che torreggiava su di lui appariva ancora più enorme. Se nello sguardo del Radigata vi era un’ombra di commiserazione così fuori posto in quelle sue iridi gialle, negli occhi azzurri di questa figura vi era una severità agghiacciante messa ancora più in evidenza dalla mandibola squadrata e dai lineamenti massicci.
Era più grande di qualsiasi soldato Lumaria avesse mai incontrato. Anche il campione di suo padre, Sir Kelvin, non sarebbe arrivato nemmeno alla spalla di quella figura. Si sentì fissare dal gigante per un periodo che sembrò un’eternità, poi quello si voltò e Lumaria lo vide abbassarsi per aiutare Arlen a rimettersi in piedi. Con stizza notò che la ragazza non sembrava affatto spaventata da ciò che era accaduto.
Anzi.
“Ma è stato fantastico, siete stati voi? Li avete davvero sepolti vivi? Dove as-so-lu-ta-men-te spiegarmi come ci siete riusciti!”
“Non faremmo mai una cosa così barbara, mia cara. Lexaeus li ha semplicemente isolati sotto terra in delle piccole cavità piene di aria” rispose il Radigata. Lumaria strinse la sua mano e cercò di rimettersi in piedi, e trattenne un groppo alla gola quando si accorse che le sue gambe non volevano smettere di tremare. L’uomo rimase fermo, accentuando la stretta in modo da poterlo sostenere. “Quando andremo via di qui li faremo riemergere. Se la caveranno con un brutto spavento, tutto qui”.
“Sono solo assassini!”
Lumaria si meravigliò di avere ancora fiato nei polmoni. Lo sguardò andò subito alle spade ed alle altre armi che i Durlyn avevano perso nello stesso istante in cui la terra li aveva inghiottiti, alcune ancora con aloni rossastri che i padroni non si erano nemmeno presi la briga di pulire. Forse era stata una di quelle lame ad uccidere i suoi nobili genitori. “Hanno avuto quello che si meritavano”.
“Non essere così avventato a decidere chi deve morire, figliolo. La rabbia può farti vedere cose che non esistono”.
“La mia famiglia esisteva eccome!”
Con stizza tirò via la mano, liberandola da quella del Radigata dalle parole vuote come quelle dei sacerdoti; il cuore gli stava ruggendo tra le costole e ogni muscolo delle sue gambe gli stava ordinando di raccogliere le forze e scappare da questa coppia di uomini dagli abiti neri, ma i suoi occhi rimasero a fissare le armi a terra mentre nelle orecchie esplosero insieme le grida dei suoi genitori e la risata di suo fratello. Chiunque fossero i suoi salvatori non avrebbero mai potuto comprendere. L’uomo dai capelli chiari, quello a cui l’energumeno si era rivolto con il termine “Superiore”, continuava ad osservarlo nonostante si fosse chinato per raccogliere il borsello caduto. “Una famiglia distrutta è una disgrazia irripetibile. Non potrei mai accettare che una cosa simile accada alla mia. Hai tutto il mio conforto”.
In un altro tempo, tra i corridoi del proprio palazzo, Lumaria avrebbe preso quel “conforto” e lo avrebbe usato per pulirsi gli stivali insieme a tutta la pietà che chiaramente doveva suscitare in quel nobile. Si costrinse ad inghiottire l’orgoglio per l’ennesima volta in quei giorni, stringendosi nei propri abiti per coprire ancora i tremori. Non aveva lottato per rimanere in vita per poi finire schiacciato come un verme per aver dato una risposta sbagliata a quell’indiscreto benefattore ed al suo energumeno. “Immagino di dovervi ringraziare …”
“Non ve ne è bisogno. Il piacere di incontrarvi è tutto mio. Sono stato molto fortunato nel trovarvi e riconoscervi prima che quelle guardie vi facessero cose orribili”.
“Riconoscerci?”
La questione stava prendendo una piega preoccupante.
Lumaria si morse il labbro, alambiccando tra sé tutti coloro che avrebbero potuto chiedere a quel Radigata di prelevarlo. Se non era entrato in quella taverna per caso, bensì di proposito, significava che vi era qualcosa di misterioso che il nuovo venuto non aveva ancora intenzione di svelare. L’uomo osservò compiaciuto lo sfacelo che lo circondava, per poi scrollarsi dalla lunga tunica di pelle nera alcuni calcinacci. “Ho chiesto al Castello se vi fossero altre persone che potessero unirsi a noi, ed esso mi ha indicato questa città. Grazie al cielo la vostra debole aura magica è bastata per farmi giungere subito da voi. Un istante più tardi e …”
“Siete un mago?”
L’altro sorrise. Cosa ci fosse di tanto ilare, Lumaria non ne aveva idea. “Più o meno …”
Il piccolo terremoto di qualche minuto prima non era un incantesimo per dilettanti. Un demone sarebbe stato in grado di generarlo su larga scala, ma una tale potenza sprigionata con simile precisione –nonché con una discreta dose di potenziale- non era alla portata di semplici maghi umani. Lumaria sapeva che i Cavalieri d’Oro erano in grado di compiere incantesimi di un certo livello, ma senza dubbio quella forza della natura era stata causata da un mago dal potenziale ben più alto della manciata di invocatori che suo padre aveva voluto nella propria milizia personale ma che evidentemente non erano stati in grado nemmeno di difenderlo. Osservò il gigante, quella figura statuaria che mai avrebbe detto in grado di comandare la magia.
Lo sguardo tornò di nuovo sul Radigata, nel dubbio di cosa chiedere ancora, ma Arlen esplose e venne verso il Superiore carica di energie. “Ma siete pazzeschi, dovete assolutamente spiegarmi come avete fatto! E le vostre tuniche sono strepitose, hai visto che cosa fantastica, Lumy?”
“Impressionante …” sibilò, ma era chiaro che quella plebea avesse perso ciò che restava del suo già scarso lume della ragione. Se l’energumeno copriva qualsiasi espressione serrando la mandibola squadrata, il viso del suo capo sembrò illuminarsi non appena si accorse di avere anche le attenzioni di quella povera pazza. Era chiaro che in quel gruppo soltanto lui fosse l’unico a preoccuparsi del fatto che un incantesimo così potente avrebbe prima o poi richiamato l’attenzione dei cittadini (meno probabile) o degli Occhi di Zaboera dei demoni (nel peggiore dei casi) e che non aveva alcuna necessità di attirare chiunque avesse potuto vendere la sua testa per una manciata di monete a Bernard Durlyn. Si schiarì la voce almeno per avere la parola ed andarsene sulle proprie gambe, ma l’uomo dagli occhi gialli lo afferrò nuovamente per i vestiti. “Sono venuto fin qui per farvi una proposta” disse “Il mio Castello ha bisogno di guardiani, gente cui affidare un compito di importanza vitale. Mi ha indicato in che posto recarmi, ed ho trovato voi. Sareste disposti ad ascoltare la mia richiesta?”
Lumaria si accorse di essere confuso. Si guardò intorno, scrutò ogni angolo del vicolo, scosse la testa cercando di comprendere cosa volessero davvero quei due uomini da loro. Erano sbucati dal nulla e, certo, lo avevano aiutato, ma ad ascoltare bene le loro parole non vi era nemmeno una sillaba che avesse senso, a partire dal fatto che vi fosse un Castello parlante scaturito direttamente dalla mente del benefattore dalle iridi gialle. Qualsiasi persona sana di mente avrebbe voltato i tacchi e si sarebbe lanciato a capofitto nella folla sperando di non poterli rivedere mai più, ma Lumaria non poteva concedersi quel lusso specie per tutti gli uomini al soldo dei Durlyn che lo avrebbero decapitato una volta andati via i due misteriosi individui. La prima cosa da fare era cambiare aria ed andarsene di lì.
Al come ed al cosa fare dopo avrebbe potuto pensarci in un secondo momento. D’altronde, si ripeté tra sé, la via di fuga non è mai la più semplice. “Potremmo discuterne …”
“Eccellente. Adoro la gente che sa prendersi i giusti tempi”.
“Un compito?” interruppe Arlen, parandosi tra loro con la faccia indignata di chi detesta non essere presa in considerazione. “I compiti sono noiosi, sapete? Non credo proprio che sarebbero …”
Per la prima volta da quando si erano conosciuti Arlen interruppe il discorso a metà. Lumaria si voltò, più meravigliato che seriamente preoccupato, e quando i suoi occhi puntarono nella direzione della testa della ragazza e della sua bocca spalancata si ritrovò per la seconda o la terza volta in quel breve lasso di ore semplicemente senza parole.
L’uomo che rispondeva al nome di Lexaeus aveva il palmo aperto, rivolto verso il muro della taverna, e tra le sue dita ed i mattoni incrostati si era formata una cosa. Una cosa nera o forse viola, alta quanto colui che l’aveva chiamata; si muoveva di magia propria come se il selciato stesso l’avesse vomitata e la sua forma sembrava attirare a sé ogni piccolo sprazzo di luce. Lumaria si ritrovò a fissare quella strana cosa quasi ipnotizzato, rapito dai guizzi d’oscurità che si muovevano come radici animate tutte intorno ad essa. Sembrava uno squarcio nell’aria, come se la notte più profonda o il male più puro che animava il cuore della famiglia demoniaca si stessero affacciando per afferrarlo e trascinarlo con loro.
Conosceva poco e male gli incantesimi per viaggiare attraverso grandi distanze, e sapeva che soltanto i demoni maggiori o alcuni loro preziosissimi artefatti erano in grado di praticarli. Sentì aumentare ancora più il dubbio verso quell’uomo che li stava affabilmente invitando ad attraversare quel portale … unito al sottile alito di consapevolezza che una magia del genere fosse alla portata di quelli che, almeno all’apparenza, sembravano comuni esseri umani. Passò gli occhi dal Superiore alla sua guardia del corpo, poi qualcosa si mosse alla sua sinistra. “Fate largo alla Regina dell’Avventura!”
Con un paio di balzi Arlen lo superò, gridando di gioia. Fu chiaro che quel poco di cervello che possedesse era totalmente distrutto quando Lumaria la vide correre verso il portale oscuro senza porsi domande o indietreggiare di un passo. La ragazza vi saltò dentro carica di entusiasmo, e Lumaria non fu poi così tanto sicuro della propria scelta quando vide il corpo di lei venire avvolto da sottili lingue di oscurità dal basso e dai fianchi, per poi sparire in un lampo senza finire invece schiacciata contro i mattoni del Porco Zoppo.
Il Radigata gli venne accanto, gongolando. “Ah, l’energia della gioventù!”
“Io la chiamerei l’energia dell’inconsapevolezza …” brontolò il principe. Si avvicinò alla massa nera con circospezione, avvicinando la mano per sfiorare una delle spirali nere: la magia rispose al suo tocco in maniera fredda ma allo stesso tempo perentoria, quasi come un canto che lo chiamasse e gli chiedesse di seguirlo. L’idea di passarvi attraverso era meravigliosa e spaventosa allo stesso tempo.
“Qualche rimpianto prima di andar via?”
Lumaria deglutì a vuoto, lo sguardo ancora fisso sulla magia pronta a portarlo via e ruggire attraverso la fitta rete di incantesimi più erta di un roseto selvatico. Si voltò verso il Superiore, l’immagine del suo castello in fiamme ancora così impressa sul fondo degli occhi da poterla dipingere anche bendato. “Un Dayel non ha mai rimpianti. Andiamo”.
 
 
  
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