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Autore: pierres    18/04/2017    2 recensioni
Hermione è una massa di carne stanca che non reagisce agli stimoli e ha perso tutti e cinque i sensi – tranne in sua presenza: lui le strappa la decenza di dosso e glieli insegna tutti di nuovo. Del suo corpo pallido ed evanescente, che fa le fusa quando la sfiora, gli piace soprattutto la sensazione delle ossa sporgenti del bacino sotto le labbra, la pianta dei piedi nudi quando con piccoli tonfi attutiti si muove sul pavimento, e la punta delle dita con la quale lo sfiora venerante ostentando una sicurezza che non ha – come potrebbe, pensa, così giovane, come potrebbe.
[...]
«Ho freddo» sussurra sempre lei, dopo, e lui le dice «Copriti», allungandole il lenzuolo, anche se è consapevole che non è ciò che vuole.
Poi aspetta, in silenzio. Sa che prima o poi lo dice.
«Stringimi più forte»
Sorride quasi di un vero sorriso e l’abbraccia, carezzandole i capelli.

[Sirius/Hermione] [It Will Come Back - Hozier]
Prima classificata al contest When love is not enough indetto da LVdevotee sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hermione Granger, Sirius Black | Coppie: Hermione Granger/ Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4, II guerra magica/Libri 5-7
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Victum

 

 

 

 

 

 

 

[…]

 

Don't give it a hand, offer it a soul

honey, make this easy

leave it to the land, this is what it knows

honey, that's how it sleeps

 

Don't let it in with no intention to keep it

Jesus Christ! Don't be kind to it

honey don't feed it  –  it will come back

 

You know better babe, you know better babe

than to smile at me, smile at me like that

you know better babe, you know better babe

than to hold me just, hold me just like that

 

I know who I am when I'm alone

I'm something else when I see you

you don't understand, you should never know

how easy you are to need

 

Don't let me in with with no intention to keep me

Jesus Christ! Don't be kind to me

honey don't feed me  –  I will come back.

 

It can't be unlearned

I've known the warmth of your doorways

through the cold, I'll find my way back to you

oh please, give me mercy no more!

it's a kindness you can't afford!

I want you baby tonight, as sure as you're born

 

You'll hear me howling outside your door

Don't you hear me howling babe?

Won't you hear me howling babe?

Don't you hear me howling, babe?

 

 

 

 

 

 

 

 

Hermione, a tredici anni adora le cose logiche. In questo periodo strano, in cui i fianchi si addolciscono e le sbocciano i seni sul petto, è alla costante, frenetica ricerca di certezze, e la logica non ammette coincidenze.

Non vuole sfumature, non le tollera, le fanno prudere il dorso delle mani di fastidio. Solo il bianco assoluto di certezza la fa sentire al sicuro [mai, mai nessuna venatura marmorea a solcarlo trasversalmente per ricordarle che ci sono cose che non si possono prevedere].

Scopre il latino in uno dei tanti pomeriggi passati a rovistare tra i vecchi libri in soffitta. Le ragnatele le si attaccano ai capelli e la polvere la veste quasi del tutto, mentre starnutisce si copre di grigio [lento e inesorabile declino verso il nero] e con la punta delle sue dita morbide e inesperte, con la punta della sua adolescenza che scende a bere un caffè nei suoi polpastrelli troppo rosa, sfoglia vecchi saggi e libri di poesie.

All’inizio non capisce, perché il latino non è semplice. Non è moderno, non si veste di neologismi, non viaggia con un cappello alla moda da un continente all’altro, adattandosi sulle lingue, lasciandosi interpretare a gesti. Il latino è una vecchia bestia scontrosa [cane uggiolante, come lui] con troppi anni e troppo orgoglio sulle spalle.

Hermione tutti i giorni la va a punzecchiare nella sua tana.

Scopre paradigmi freddi che seguono un’idea anche nella loro irregolarità, che può ricondurre all’ordine come bambini da prendere per le mani appiccicose. Costruzioni ordinate di fitte frasi incomprensibili si muovono dentro e dietro ai suoi occhi senza scardinarsi mai, ed Hermione che ama le regole e il bianco di certezza pensa: è bello anche quando dicono “eccezioni”.

[perché non esistono eccezioni che non abbiano un loro logica  –  bianco, bianco, bianco puro senza vene senza coincidenze]

Si chiude a riccio su pesanti tomi di grammatica, e dentro di lei un orologio ticchetta chiedendole se per caso non stia sprecando tempo, e a cosa serva, e perché  –  ma quante cose fa, che non è obbligata a fare, per quella sete insaziabile di sapere che le fa ardere stomaco e gola?

Oggi c’è un sole che non scalda e le margherite sono ancora chiuse, è mattina presto, e l’aria è un po’ rosa e un po’ profuma di marmellata. Hermione in soffitta apre il libro all’ultima pagina dov’era rimasta, quel vecchio libro che sua mamma ha dimenticato da un pezzo, e a cui lei sta dando vita di nuovo  –  vede le pagine sorriderle con pieghe di umido nei punti dove si sono imbarcate.

“Dal supino del verbo ricaviamo la formazione del participio passato con valore passivo, così dunque per il verbo vivo avremo dal supino victum il participio passato victus, -a, -um, per il verbo laudo da laudatum avremo laudatus, -a, -um e così via. Particolarità sono da riscontrarsi…”

Si blocca un attimo. Sfoglia qualche pagina indietro, alla ricerca delle proprie conferme  –  vuole che bianche tabelle verbali con le sillabe una dietro l’altra e le parole una sotto l’altra non le consentano di dubitare. E poi si blocca e sorride, e capisce. 

Hermione a tredici anni adora le cose logiche, ed è la strega più brillante della sua età [gliel’ha detto lui].

 

 

 

 

Verbo vivo, vivis, vixi, victum, vivere , Hermione lo conosce fin troppo bene, lei che è così giovane e con i capelli spesso baciati dal sole; è il verbo delle corse verso la rena umida del bagnasciuga, i voli delle rondini e nidi che si riempiono di uova a primavera, i boccioli che diventano fiori che diventano frutti e i fili d’erba verde tra le dita dei piedi scalzi. 

Verbo vinco, vincis, vici, victum, vincere, sa cosa significa ma le ci vuole qualche secondo in più per afferrarlo [poi l’aiuta il ricordo di una notte assurda e come lui, intoccabile, fatto di buio e di lividi, era riuscito a volar via]. Ha tante sfumature quante ne possiede la vittoria, e sorride consapevole sulla pagina bianca.

Vivo e vinco hanno lo stesso supino e dunque, secondo la sua Grammatica, lo stesso participio. Quello del primo significa vissuto, quello del secondo significa vinto. 

Hermione ha sorriso perché aveva capito. Ci sarà tempo per piangere poi.

 

[solo perché in latino non esistono coincidenze, allora essere vissuti – aver vissuto  –   per analogia, sembra per forza implicare l’esser stati sconfitti. Almeno una volta]

 

 

 

 

Non è una volta che Hermione viene sconfitta, però – sarebbe stata una fortuna insperata, e il suo amore per la logica non basta a cambiare i fatti: ci sono, in effetti, cose che non si possono prevedere. Come i baci, o le erbacce tra le crepe.

In realtà il numero è incalcolabile. Se fosse stata un tantinino più brava in matematica, forse avrebbe provato ad inventare un’equazione per poi capire che una cifra tanto ingente è impossibile da quantificare. 

Ma alcune sconfitte particolarmente gravi, se le ricorda perché ne porta ancora le cicatrici. Ne fioriscono lividi invisibili che le invadono il petto come mazzi di fiori, ed espandono radici di cancrena.

 

 

 

 

La prima volta è a Hogwarts.

 

 

 

 

O forse quel luogo che pare Hogwarts ma non lo è. Hermione vede solo lo specchio simmetrico e spettrale del castello tanto amato: è notte, c’è la luna piena, e le crepe tra i mattoni brillano di un livido pallore. Le torrette si lanciano verso il nero, sono contorte, radici di piante ignote, fili di fumo acre, e l’erba sotto alle suole sporche di fango e polvere ha assunto un odore spettrale – è la brina, pensa lei, è l’odore della brina.

[La brina notturna, però, è diversa da quella dell’alba. In piccoli aghi gelidi le si addensa sulle braccia]

La sua prima sconfitta, dunque, comincia nel momento in cui Sirius scende dal dorso dell’ippogrifo e le porge la mano per aiutarla a toccar terra a sua volta, e si conclude definitiva quando – quasi senza guardarla – le lascia le dita arrossate dal freddo e si allontana con Harry. Breve, netta, concisa [indolore, con Sirius mai].

Le sue terminazioni nervose bruciano, ma si convince che dev’essere il gelo o l’adrenalina, la consapevolezza di aver fatto una pazzia, mentre un gufo tuba lontanissimo da qualche parte e ogni cosa le appare filtrata da uno spesso strato di ovatta. L’ippogrifo fa schioccare il becco e lei lo rassicura piano, premendo il palmo aperto sul piumaggio del suo collo; conficcati nella testa come schegge di ossidiana ha ancora gli occhi di Sirius, neri e folli, e sanguina dall’interno.

È colpa della luna piena, pensa, quando si avvicina troppo fa impazzire tutti.(1)

 

Sulla mano che lui ha afferrato troppo saldamente e sui fianchi ai quali si è aggrappato con tanta forza per paura di scivolare giù cominciano a comparire i primi boccioli. Sono violetti e purpurei, verdi screziati di giallo, e se avessero un odore sarebbe di foglie morte.

Hermione non li vede, ed è un bene. Sono pieni di sfumature, imprevedibili, e non può fermarli: li detesterebbe.

 

 

 

 

La seconda volta è a Grimmauld Place.

 

 

 

 

La casa è, senz’ombra di dubbio, un vecchio libro scritto proprio in latino: ogni suo corridoio è una piega di carta, il solco buio che si inabissa, al centro, tra una pagina e l’altra; la muffa sulle sue pareti è la muffa delle cose dimenticate e delle lingue morte, e il buio delle stanze lo stesso buio che le si parava i primi mesi persi su quelle pagine incomprensibili, su quella lingua così complessa e troppo orgogliosa per desiderare di essere decifrata, per offrire un appiglio. 

La casa si chiude nei propri silenzi e ingolla le chiavi, rimpiangendo il passato in cui, priva di ragnatele, risplendeva di luce propria.

Così, allo stesso modo, Sirius.

Lo notano tutti, ma Hermione meglio degli altri, perché da qualche parte in un angolo della scatola cranica ha ancora le schegge dei suoi occhi folli conficcate a fondo tra le pieghe molli del cervello: non se ne sono mai andate.

È magro e pallido. Quando cammina strascica i piedi, e solleva sbuffi di polvere che si quietano ancora poco dopo il suo passaggio. Lei pensa che sia normale: che gliene importa alla casa, e che gliene importa alla polvere? È lì da troppo tempo. Non basta così poco per estirpare un’abitudine.

E, purtroppo per Harry, ci vuole più anche di qualche sorriso e dell’affetto che si dedicherebbe ad un padre. Il vizio di perdersi nei ricordi permea in ogni angolo della figura braccata e nervosa dell’uomo  –  Hermione lo nota sopratutto: nelle rughe sulla fronte, negli occhi vacui quando guarda Harry e vede altro, nelle foto attaccate al muro che non ha mai provato a rimuovere.

Le pareti ogni tanto le si stringono addosso e diventano spire di un serpente enorme.  Lei si sente come un piccolo fiore messo a seccare tra le pagine umide di quel vecchio tomo che è Grimmauld Place, e ne è orripilata. Perde petali come si perdono i capelli. Si guarda allo specchio: durante la notte gli occhi le si iniettano di sangue.

Non fa niente, si dice, mentre li stropiccia fino quasi a cavarli dalla propria orbita, sono solo stanca.

 

Non dorme. La prigionia non le si addice, ma stringe le labbra forte e non dice niente – nessuno lì può uscire, e nessuno sembra prenderla male come lei, o sono semplicemente bravi a nasconderglielo. Sirius sì, Sirius certamente la vive anche peggio, ma lui – le pareti di stringono – è rimasto dodici – comprimono – anni – soffocano – ad Azkaban, ed è normale l’anormalità di sentirlo vagare come un fantasma per i corridoi alle ore più improbabili della notte. 

Le pareti sussurrano ritmicamente, con cadenza costante, quasi come se dicessero messa. Hermione una volta, insonne, dà ascolto a quella cantilena, anche se nel profondo lo sa: in quella casa è una sanguesporco, e ogni cosa vuole solo vederla soffrire.

Si alza nel dormiveglia e raggiunge quel pianerottolo di quel piano vietato, e non bussa ma resta quasi sveglia quasi no sulla porta a stropicciarsi gli occhi e i capillari in rilievo, rossastri sulle palpebre pesanti. Sente le ramificazioni invisibili della sua reticenza che si diramano da sotto le piante dei piedi tutt’attorno – le impediscono di camminare – e dalla punta delle dita – non può toccare la maniglia. Ma anche se non bussa, non importa.

Sirius le apre a mezzanotte quando arrivano i fantasmi, ed è bello ritrovare il suo stesso sgomento amplificato per mille tra le rughe intorno agli occhi dell’altro, ragnatele impalpabili. Ricorda la sensazione della brina notturna sulle braccia quando sprofonda nei suoi occhi, e non si specchia, mai, perché sono troppo neri, sono spazio tra le stelle.

Le pareti cantilenano ancora: sono parole che le entrano nel sangue e lo fanno scorrere più lentamente. Prima di partire ha portato con se' uno di quei libri trovati a casa dei suoi, uno di poesie che le fanno mordere le labbra, ma l’ha dimenticato di sotto  –  forse che potrebbero leggerlo insieme una volta, per non sentire quei bisbigli?. Ancora non sa quanto tempo passa prima che lui la lasci entrare: potrebbero essere tramontate centinaia di lune e lei non l’avrebbe capito, ormai è oltre la stanchezza.

Entrambi spalancano una porta, Sirius quella scricchiolante della propria stanza, del suo solitario canile personale, che mugola sopra ai propri cardini; Hermione quel foro mal nascosto che porta sul petto in alto leggermente verso sinistra, proprio lì in quel punto lì. Una si chiude con un tonfo attutito che solleva la polvere – l’altra resta aperta, voragine infinita, e la riempie un vento insofferente.

Le pareti si serrano, li ricoprono di oscurità. In quella loro lingua morta le sussurrano consigli, e dicono: i fiori vanno seccati al buio; lei prende i loro insegnamenti e li costudisce avidamente, a volte non sa cosa vogliano dire, ma le entrano in testa e le ammalano il cervello.

 

La maggior parte delle volte, però, sono bugie. Come questa. 

Perché i fiori di Hermione nel buio non fanno altro che germogliare: sono lividi in ogni punto in cui lui la tocca e pone la lingua, e sopra la sua pelle intonsa macchiano il bianco-certezza di rosso-casuale.

 

 

 

 

Le cose vanno avanti degenerando in una caduta così veloce che si sorprende, Hermione, di non aver ancora toccato il suolo, e già si prepara al sapore delle foglie morte, dell’hummus e della terra umida – la farà vomitare. Di giorno, sprofonda nelle poltrone dall’imbottitura irrigidita e consuma le pagine di quel libro che si è portata dietro. La copertina marrone e rigida ha le lettere del titolo in filigrana dorata e sottile, e si è staccata in molti punti. Dice: Gaius Valerius Catullus, e ancora sotto: Liber.(2)

È bello, pensa lei, che liber in latino voglia dire proprio libro. È bello chiamare le cose per come stanno, e non lasciare spazio ai dubbi, perché [ah, si accorge che qualcosa-non-va] alcune cose a volte sembrano e invece non sono, ed altre invece proprio non si riesce a capire come definirle [i lividi non li vede ma comincia a sentirli, versamenti di sangue su tutto il suo corpo troppo giovane, fiori che crescono con gloria mordace].

«L’ho letto anch’io, quel libro» la interrompe Sirius, che non è mai capace di annunciarsi prima di entrare in una stanza.

Lei solleva appena il capo per guardarlo, e lui si lascia osservare, come un animale da esposizione: le due dita della mano destra ingiallite di nicotina, i capelli scomposti, le spalle e le costole da cane randagio e gli occhi che le incendiano ogni più piccola cellula, la fanno gridare. Lo vede, ma lui vede lei? Cosa nota Sirius, con quello sguardo avido da segugio appuntato sul suo volto stravolto? 

Vede Hermione o vede gioventù? Vede i lividi o vede i fiori? Vede la migliore amica del suo figlioccio o l’unica possibilità concreta di assaggiare la libertà, sentirsi vivo di nuovo, mordere carne calda fino a vederla arrossarsi e sanguinare e capire che non è – che non sono – ancora secchi come fiori tra i capitoli polverosi di Grimmauld Place?

«È particolarmente…» comincia Hermione, che non riesce a trovare un termine adatto.

«Istruttivo?» sogghigna lui, e si china sopra lo schienale della poltrona per leggere la pagina del momento.

Mentre il suo respiro umido le sfiora l’orecchio realizza che Sirius, lei non l’ha mai visto sorridere(3). Quando batte pacche affettuose sulla spalla di Harry mostra i denti in una paralisi molto veritiera (Harry poi, che ne ha bisogno, ci crede ciecamente), magari è davvero sincera. Hermione non crede di essere una persona cattiva, a pensarlo, ma– 

Ma questo sorriso, questa paresi sincera, gli scivola via dalla faccia appena non pare sconveniente, come fango fetido o polvere.  È mai stato capace di produrre qualcosa di reale che non fosse un ghigno canino?

Non lo sa, perché alle sue domande ultimamente rispondono solo echi.

«Ah, questa» soffia con voce indecifrabile «è sempre stata una delle mie preferite»

Non credeva che avendo seguito un’educazione purosangue conoscesse libri così spudoratamente babbani. Ma forse, riflette poi, è stato solo un altro dei tanti modi per prendere le distanze dalla famiglia. Lui intanto le toglie – strappa – il libro di mano e si siede sulla poltrona davanti alla sua; le dita di lei un po’ all’inizio si aggrappano alle pagine, poi lasciano andare – Sirius è incredibilmente più forte. Sirius, chiuso in casa, reagisce come un cane in catene: sprofonda in quiete apparente ma diventa nervoso, idrofobo, violento, e guaisce e morde alla prima occasione. Lei si limita ad appassire: i suoi occhi sono cerchiati di occhiaie, la pelle è diventata grigiastra. Stringe le labbra e lo osserva.

Col pollice lungo premuto nell’incavo tra le due pagine, l’altro tiene il libro ben aperto, mentre ciocche di capelli indistricabili gli ricadono sulla fronte. Per qualche secondo le sue labbra si muovono senza emettere suoni, e sembra un prete con la sua bibbia immerso in preghiera. Poi legge, con quel sorriso da prendere a schiaffi, scrutandola a sottecchi:

«I tuoi occhi soavi, se me li lasciassero baciare sempre, continuerei a baciarli fino ad un milione di volte» esordisce, e la sua voce indecente si infila sotto i vestiti, «e non mi sentirei sazio» la guarda «neanche se fosse più fitta delle spighe aride» i suoi occhi ululano come latrati di un cane alla porta «la messe dei nostri baci».

Hermione lo lascia entrare. Una volta con un sospiro, una volta con uno sguardo che indugia troppo a lungo, una volta con un sorriso ingenuo, una volta con il rossore che le sfugge e non riesce a controllare. Non ha importanza: Sirius è un maestro a riconoscere i consensi. E se lei gli accorda un dito, lui le afferra tutto il braccio. 

Si osservano, come preda e predatore, senza sapere chi è quale. Dalla cucina proviene uno scoppio, e le grida attutite di Molly che rimprovera Fred e George per la centesima volta, e a parte questo il silenzio, e gli occhi di Sirius che non le lasciano scampo, mai  –  fin da quella prima maledetta sera ad Hogwarts.

«Vieni su»

Sembra ordinare e non chiedere mai – insaziabile, implacabile, quasi doloroso.

«Sirius…»

«Vieni su con me, Hermione»

Quando vuole qualcosa davvero la chiama per nome, e lei pensa che forse, alla fine buon sangue non mente: gli occhi di Sirius quando pretende sono folli e neri come quelli di un Black. Hermione un po’ vuole, un po’ no, un po’ sente che cade e vorrebbe fermarsi; un po’ desidererebbe dare un nome a questa cosa, catalogarla come fa con tutto, e metterla in ordine, sentire di poterla controllare [ma non si può].

Sirius raschiava con le unghie alla porta, prima piano, poi sempre più spasmodicamente, e lei ha pensato – sciocca sciocca sciocca – che dargli qualcosa non poteva fare così male  –  un sospiro, poi un sorriso, un po’ di calore, un pezzo di carne e infine tutto quanto. L’ha nutrito e lui è tornato, sempre, ogni volta affamato come prima, più di prima. E infine gli ha aperto – tutto  –  e lui si è accucciato vicino al fuoco, e non più riuscita a farlo uscire. Ciò che le istilla nel petto [nel ventre, nel sangue] è oltre il suo dominio, e non riesce a fermarlo. Le cadono le palpebre perché è sempre più stanca.

Victus, -a, -um ormai le rimbomba nella bocca chiusa, mentre strizza forte le palpebre per cercare di mandarlo via, e lui la prende saldamente per mano e le fa salire le scale [pensa di salire ma sprofonda soltanto sempre più giù]. Sconfitta, si stringe al suo petto caldo e appoggia le labbra nell’incavo del suo collo che profuma di acqua di colonia e con le sue mani sui fianchi tutto per un po’ sembra combaciare e andare al proprio posto. La sua risata canina rimbomba nella stanza e rimbalza sulla porta resa Imperturbabile, ed Hermione è persa, è innamorata, le porte totalmente spalancate che si riempiono di uggiolati e foglie secche.

Solo per quella risata, dei lividi, della stanchezza, ne vale la pena.

 

Figuriamoci, poi, quando la bacia.

 

 

 

 

Hermione è una massa di carne stanca che non reagisce agli stimoli e ha perso tutti e cinque i sensi  –  tranne in sua presenza: lui le strappa la decenza di dosso e glieli insegna tutti di nuovo. Del suo corpo pallido ed evanescente, che fa le fusa quando la sfiora, gli piace soprattutto la sensazione delle ossa sporgenti del bacino sotto le labbra, la pianta dei piedi nudi quando con piccoli tonfi attutiti si muove sul pavimento, e la punta delle dita con la quale lo sfiora venerante ostentando una sicurezza che non ha – come potrebbe, pensa, così giovane, come potrebbe. 

Della gentilezza delle sue labbra dischiuse ha imparato che non riesce a farne a meno, e dopo aver provato il calore che gli regalano le sue porte aperte, lui che ha dormito sulla terra brulla, sulla terra nera, che ha perso tanto e tutto quello che restava l’ha lasciato ad Azkaban, martellato dalla pioggia tanto da esserne diventato parte, tutte le volte non riesce a fermarsi dal tornare a bussarvi ancora, ancora, ancora – infinito più uno.

Ogni tanto per ciò che fa lo rode il rimorso dall’interno.  È un vecchio amico, lo conosce bene: quante volte l’ha addentato dopo la morte di James? Così tante che credeva non fosse rimasto più niente da rosicchiare.

«Ho freddo» sussurra sempre lei, dopo, e lui le dice «Copriti», allungandole il lenzuolo, anche se è consapevole che non è ciò che vuole.

Poi aspetta, in silenzio. Sa che prima o poi lo dice.

«Stringimi più forte»

Sorride quasi di un vero sorriso, e l’abbraccia, carezzandole i capelli.

 

 

 

 

Il giorno in cui abbandonano Grimmauld Place per il ritorno ad Hogwarts, è il giorno in cui Hermione rifiorisce e Sirius velocizza la propria decomposizione. Esce da quella casa per la prima volta dopo mesi e ogni colore le sembra più vivido, l’aria freschissima, i rumori incredibilmente forti. Quasi non sente più il pizzicore di stanchezza agli occhi, quasi non la fa rabbrividire l’aria settembrina. Le pesano sulle spalle mesi e mesi di ricordi, e si volta: la porta dell’appartamento è chiusa per lei, e chissà per quanto  –  l’estate prossima, rabbrividisce, l’estate prossima o oltre.

La coglie l’improvviso impulso di tornare indietro. Vuole mettersi a correre: cosa sta facendo? Sirius è lì dentro a mangiarsi la coda, lasciarsi divorare il fegato dalla bile, lì dentro da solo. Se non riuscirà a dormire ancora, ad Hogwarts, come farà senza il battito calmo del cuore di lui col quale regolarizzare il proprio?

I bagagli le pesano, le pesa il giacchetto, i libri che ha in mano; tutti sono prontissimi e la colpisce come un treno la consapevolezza che deve-tornare-indietro-ora e come un treno le spappola gli organi interni finché tutto dentro di lei non si riduce in poltiglia, e scialacqua mesto. 

Ma poi è un secondo e sono alla stazione – come c’è arrivata? – un minuto e l’Espresso è partito – Sirius dov’è? – e solo a fine giornata rincomincia a respirare. Si trova nel suo dormitorio senza la minima idea di come ci sia finita.

Le pareti sono silenziose, e le coperte assolutamente bianche. Osserva quel candore che non riesce più a raggiungere, e le incolpa di qualsiasi cosa. Sdraiata ancora vestita, respirando l’odore di bucato, comincia a contare i lividi. Ha paura, Hermione, ma è una Grifondoro  –  Grifondoro, si ripete, devo essere coraggiosa.

Ne trova infiniti. Invisibili, li sente dall’interno: basta chiudere gli occhi. È una mela ammaccata dalla buccia intatta e la polpa ridotta in poltiglia. E per un anno intero Sirius non c’è per a rimettere insieme i pezzi, anche solo per un’ora; cosa importa, poi, che l’abbia rotta proprio lui: lo perdona, è ovvio – non servono nemmeno i romanzi della sua tanto amata Austen per capire che funziona così, in amore.

[che importa se lui poi non la ama, ci pensa Hermione per entrambi]

Sullo schermo delle palpebre chiuse vede il suo ghigno scandaloso, la sua risata – latrato – arrochita dal fumo. 

Già senti la mia mancanza, bambina?”

«Sta zitto» sbotta al dormitorio vuoto.

Hermione lo sa, sa che ha sbagliato, non avrebbe dovuto farlo entrare – aveva così tanto calore al suo interno che pensava sarebbe bastato, ma Sirius è un buco nero e l’ha inghiottito quasi tutto, non ne è rimasto nemmeno per lei sola. 

Hermione lo sa: avrebbe dovuto restare fuori. Appartiene alla terra fredda e marcia: lì doveva dormire, e farsi flagellare dal vento.

 

 

 

 

Ritornare a Grimmauld Place per Natale è un po’ una rinascita e un po’ l’ennesima disfatta, anche se di poco conto, rispetto alle altre. È praticamente una conseguenza naturale, pensa, e quasi non si sente in colpa.

Assaggiare di nuovo le sue labbra è la stessa sensazione della prima boccata d’aria di un annegato: respira e le si aprono i polmoni, nasce ancora – fa male, è naturale, ma poi ne vale la pena, sempre. Sirius con le sue mani esperte, con i suoi sorrisi consapevoli, le apre tutti i pori della pelle e torna a scuoterle i sensi tanto che si dà della sciocca per aver pensato, in quei mesi in sua assenza, che forse quello che stavano facendo non era poi fatto così bene  –   non per lei, almeno, che ci aveva messo il cuore e altrettanto non era riuscita a trovarne.

Basta la carezza delle sue nocche sulla guancia per farle capire che niente potrà mai farla stare così bene, e così male subito dopo. Hermione ha ancora tanto da imparare, fortuna che c’è Sirius [insegnami tu, lo supplicano parole mute che le rimangono impigliate tra i denti, ma lui che ha perso metodicamente ogni cosa nella vita, è egoista e le si aggrappa come ad un’ancora, e non ha bisogno di sentirselo chiedere].

Egoismo stessa è una parola di derivazione latina: pronome personale ego, che significa nient’altro che io, e il piuttosto comune suffisso  -ismo Io» dice spesso Sirius «non penso che dovresti preoccuparti», oppure «io sono convinto che non stiamo facendo nulla di male», o ancora «io dico che ogni tanto dovresti semplicemente lasciarti andare, provaci, eh bimba… vuoi?»).

Hermione ci prova, ma resta sempre Hermione. Una piccola parte di lei, ancora sveglia, fa suonare campanelli d’allarme. Riesce a zittirla, poi. Quasi sempre.

 

 

 

 

«Pensi che dovrei sentirmi in colpa?»

Non risponde.

«Pensi che dovrei sentirmi in colpa, Hermione?»

Sirius si volta appena su un fianco, mentre le costole sporgono un po’ di più e i tatuaggi sbiaditi si tendono sul petto pallido. Non c’è bisogno di chiedere a cosa si riferisca.

Mentre trattiene il fiato, si domanda metodicamente come siano sprofondati fino a quel punto. Se lo chiede spesso, per questo è metodicamente. E poi pensa: forse sì che dovresti, che dovremmo. Ma Sirius più di lei.

Però se lo dice, poi, ci saranno conseguenze [brividi come brina le si attaccano su tutto il corpo nudo]. Vorrebbe tornare a respirare a pieni polmoni e cancellare con un colpo di spugna le sfumature incerte di cui Sirius ha riempito la sua vita, ma poi pensa: è disposta a rinunciare a lui?

Oh no.

«Io…» mormora, morsicata dall’indecisione «Tu… tu ti senti in colpa?»

Lui la guarda intensamente, con gli occhi indecifrabili. Poi…

«No»

Hermione trattiene un sospiro – di sollievo o di sconforto, non lo sa. Si morde il labbro cercando di capire se ha detto la verità, ma i suoi occhi sono così neri e resistono ad ogni sonda, ad ogni tentativo di approdo. Pensa che forse, se gliel’ha chiesto, qualcosa gli sta bollendo nello stomaco, ma sono deboli supposizioni: non potrebbe mai attribuirsi la presunzione di riuscire a capire fino in fondo come funziona il suo cervello.

«Bene»

«Bene»

Restano in silenzio. Facciamo l’amore? Ancora?, vorrebbe chiedere lei, ma Sirius sa essere troppo sincero ed Hermione non vuole sentirselo dire, che quello che fanno non è fare l’amore. Quello che fanno è – cosa

Meglio non saperlo, mentre lui sfodera il solito sorriso sbilenco e si volta del tutto nella sua direzione, allunga le braccia, la stringe forte; meglio non saperlo e rinunciare del tutto – alle certezze, al bianco, alla matematica, all’ordine. Hermione si veste di sfumature e le odia, le detesta, ma cancellarle vorrebbe dire cancellare Sirius – quello no, quasi soffoca, incosciente solo per averlo pensato, quello mai.

 

Dio, ma cosa stiamo combinando?

Dio se c’è è stanco o forse troppo lontano, ma le molle del letto che cigolano piano, senza dubbio ridono di lei.(4)

 

 

 

 

Ogni tanto, però, c’è una cosa che la innervosisce (nel frattempo, gli occhi pizzicano di nuovo e le palpebre rincominciano a calare): Sirius ottiene sempre ciò che vuole. Per Harry è praticamente un padre, Fred e George lo adorano, e Ginny la sera è sempre la prima a sedersi in salotto per il racconto dell’ennesima malefatta giovanile. Solo Molly, un po’, ha capito cosa giace sotto quella maschera incrinata: lui non è James, Sirius!, gli aveva urlato, stanca, e Hermione avrebbe voluto saltare in piedi e baciarla e poi scoppiare a piangere e andarsene una volta per tutte. Via, dove il suo desiderio dei bei vecchi tempi non avrebbe potuto consumarla oltre.

Sirius, dunque, ogni tanto con il suo sguardo da cucciolo abbandonato e un po’ con quello da randagio esigente, uggiolando, ringhiando, limitandosi a guardare, la spunta sempre  –  soprattutto quando quel qualcosa che chiede lo vuole veramente, soprattutto con lei, quando in parte chiama in parte invoca il suo nome, o lo sussurra con quel tono che sa usare solo-soltanto-solo-lui («Her-mio-ne»). Ed è un po’ stanca di tutte quelle porte che non riesce a chiudere, mentre lui, nel muro nero della sua figura, non lascia aperto nemmeno un pertugio.

Possibile, si esaspera, che Sirius non ne esca mai sconfitto?

 

 

 

 

Ma poi c’è l’Ufficio Misteri.

 

 

 

 

Scorrono i mesi, scompaiono i lividi. Una mattina si sveglia e non ricorda più quand’è stata l’ultima volta che l’ha baciato – il pensiero è ossessivo, si gratta il dorso delle mani fino a farne uscire stille di sangue. Rintanato dietro alle sue porte ormai sbarrate il fantasma di un cane uggiola piano per andarsene. 

Hermione si rifiuta di lasciarlo uscire.

 

 

 

 

Il libro che lui le aveva così sgarbatamente strappato di mano, col quale si era seduto, pieno della sua grazia disinvolta, sulla poltrona sfilacciata del salotto, l’ha sepolto in casa sotto una montagna di altri volumi, e non vuole vederlo più. Resta l’unica testimonianza di quello che c’è stato, e la sua vita è di nuovo bianca – Ron è la sua certezza. L’abito che indossa l’ha voluto così candido da far male agli occhi, e le rose anche, il velo, le sedie, le decorazioni. Bianco, bianco, bianco tutto quanto.

Sente i suoi occhi scuri sulla nuca in chiesa, in camera da letto. Non si volta: sa che non c’è – non sono delusa, sbotta, mentre dà una mano alle dita impacciate di Ron a slacciarle il corsetto [lui non avrebbe avuto problemi, Her-mio-ne].

Ron è l’uomo giusto per lei, Ron che la fa dormire la notte, che non la consuma, che la bacia con dolcezza, e non morde, mai, non come faceva lui. Eppure, non riesce a dimenticare l’esigenza che ci metteva Sirius in ogni carezza, del bisogno che aveva di lei e che faceva trasparire da ogni respiro mozzato.

Eppure, Ron non è l’amore della sua vita.

Va bene così, dice, non sono delusa. Lo abbraccia stretto stretto per vedere se combaciano, e Ron la stringe, quasi non riesce a respirare ma non-è-lui.

Non è lui.

 

 

 

 

Se si concentra bene riesce a richiamare alla mente la sua risata simile ad un latrato, e se lo fa bastare. Non si può essere completamente felici, perché sarebbe troppo semplice, e non avrebbe più senso leggere poesie, o sedersi in riva al mare. 

Bisogna accettare i sentimenti per quello che sono – veri, pensa mentre stringe la mano di suo marito, sforzandosi di non immaginare altre dita macchiate di nicotina, veri, ma non altrettanto forti [Sirius concorderebbe e si sentirebbe un po’ colpevole e le direbbe a voce bassa: sei sempre stata la strega più brillante della tua età].

Ma se ci pensa, le viene da piangere: cespugli di gocce salate le impiastrano le guance, e non seguono nessun ordine. Imprevedibili, pensa, imprevedibili, e ci sono alcuni lividi, si rende conto, che non riescono a scomparire del tutto.

Se ci pensa, per la sua coerenza lo ama e lo odia sempre di più: anche nella sua estrema disfatta, Sirius non ha fatto altro che [sconfiggerla ancora] trascinarla via con se’.

 

 

 

 

 

 

 

 

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris?

Nescio, sed fieri sento ed excrucior.

 

[Gaio Valerio Catullo] (5)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

(1) citazione un po’ rivisitata di Shakespeare.

(2) detto anche Carmina, raccoglie praticamente tutte le poesie di Catullo.

(3) “…Sirius, lei non l’ha mai visto sorridere”. Quella virgola dopo Sirius spezza un po’ la fluidità, e sono stata a lungo indecisa, ma mi rende l’idea di un sospiro, quasi di un’esasperazione, e alla fine ho preferito lasciarla.

(4) “Ma Dio era stanco, forse troppo lontano / davvero lo nominai invano”. Semicitazione da Il Testamento di Tito - Fabrizio de André.

(5) “Ti odio e ti amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai. / Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento.”, una delle più famose liriche di Catullo.

  
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