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Autore: Lanonimoscrittore93    20/04/2017    1 recensioni
Una ragazza ignota che decide di farla finita perché vivere le comportava solo dolore e sofferenza. Ama segretamente Lauren Jauregui e la consapevolezza di non poterla mai avere non fece altro che accrescere il suo dolore, così la fece finita gettandosi sotto un'auto in corsa.
Si risveglia in un posto completamente bianco e lì sente una voce, voce che le propone una seconda possibilità, una vita migliore. Decide di prendere la vita di Camila Cabello, l'unica persona che secondo lei riuscirebbe a conquistare il cuore di Lauren. La voce le dà il corpo di Camila ad un patto da lei posto, mantenere i suoi ricordi e iniziare questa nuova vita dal principio. Riuscirà la nuova Camila a conquistare il cuore di Lauren? E chi è questa misteriosa voce? Che vi si celi un oscuro segreto dietro a questa voce?
Storia intrisa di misteri ed oscuri segreti.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Prendere il suo posto mantenendo i miei ricordi aveva comportato delle conseguenze. Nonostante fossi una neonata, una bambina, continuai a mantenere la mia conscenza, l'età che avevo durante il mio suicidio. Agli inizi fu dura, mantenere la propria coscienza in un corpo così piccolo non fu facile, per niente, e crescere non era da meno, dovetti costantemente fingere. Imparai la lingua dei miei nuovi genitori, nonostante la mia mente fosse di un adulta, il mio cervello era comunque quello di una bambina piccola e aveva la straordinaria capacità di assorbire nuove informazioni come una spugna. Quando all'età di sei anni mi trasferii da Cojimar a Miami imparai l'inglese, lingua che non ero mai riuscita ad imparare come si deve, ma dopotutto questo era e resterà il cervello di Camila. Oltre alla conseguenza di avere la mente di un adulta, c'erano gli incubi che mi tormentavano, erano così terribili. Il mio subconscio durante il sonno mi dava il tormento, mi davo la colpa di aver ucciso Camila, di averle rubato la vita senza alcun diritto, e a darmi la colpa di tutto questo era quella misteriosa voce. I miei nuovi genitori erano disperati, credevano che negli Stati Uniti avrebbero saputo risolvere il mio problema, ma non c'era nessuna cura. Niente poteva curare questo mio senso di colpa. Avevo sempre detto di non ricordare mai i miei incubi, anche se non era così, però stranamente tutti mi credevo. A volte avevo delle specie di crisi, sentivo nella mia testa quella voce che mi aveva dato questa nuova vita rubata. Mi diceva delle cose orribili facendomi sentire ancora più in colpa, poi svenivo e tornavano gli incubi, sempre con la voce che mi dava il tormento, per poi svegliarmi in lacrime. Riusciva a consolarmi solo Alejandro, il mio nuovo papà, mi abbracciava dandomi conforto, mi faceva sentire amata, il mio vecchio padre non mi aveva mai fatto sentire così, neanche abbracciato se era per questo. Avevo preso un'abitudine dopo ogni incubo, era quella di correre. Mi piaceva correre, nella mia vecchia vita non potevo farlo per via della mia pessima salute ma adesso potevo. Pensavo che mi sarei sentita a disagio vivere con una famiglia che non era la mia ma mi sbagliavo di grasso, non mi sentivo più fuori posto ma amata. Questa famiglia al confronto di quella vecchia mi amava, anche quando all'età di dodici anni confessai all'intera famiglia riunita di provare attrazione verso le ragazze. Certo, nonna Cabello era caduta dalla sedia per lo shock ma alla fine mi accettò anche lei dicendomi che ero e resterò comunque sua nipote e che mi vorrà sempre e comunque bene. Amavo questa mia nuova famiglia, Camila era stata davvero fortunata e averle tolto questo mi tormentava.
Vivere con la consapevolezza che là fuori, da qualche parte, c'era il mio amore, la ragazza che avevo tanto desiderato nella precedente vita mi dava il tormento. Sapevo che dovevo incontrarla prima per cambiare le cose. Si dovevo cambiare le cose e lo avrei fatto, dovevo solo aspettare il momento giusto. Dalla mia vecchia vita avevo avuto solo poche informazioni, non avevo mai saputo dove abitasse, quale fosse la sua casa, sapevo solo che viveva a Miami. L'avevo anche cercata a scuola non trovandola, così andai alla sua ricerca per i vari quartieri, ad un certo punto persi le speranze, dopotutto Camila e lei non si erano mai incontrate prima di quel fatidico giorno. Perché io dovevo avere questa fortuna? Però un giorno la trovai per puro caso, quando neanche la stavo cercando, ma la trovai. Stavo facendo la mia solita corsa mattutina, che iniziava alle cinque del mattino, mentre stavo prendendo la via per il ritorno di casa, ecco che vidi suo padre in auto mentre usciva dal vialetto per andare al lavoro. Così trovai la sua casa. Da quel giorno passai molte volte da quel quartiere osservando la sua casa da lontano, stando ben attenta dal non farmi vedere, non volevo che pensassero che fossi una guardona o che ci fosse qualcosa che non andasse in me, non avrebbero avuto tutti i torti però. A volte stava in giardino a prendere il sole ma raramente. Purtroppo non la vedevo mai, non stava molto in casa, era abbastanza impegnata con le varie attività extrascolastiche, oppure studiava, almeno così pensavo. Sapevo che dovevo trovare il modo e il momento adatto per incontrarla e ci sarei riuscita in un modo o nell'altro.

Era fine febbraio e finalmente avevo trovato il coraggio per farmi avanti e incontrarla ed ero super nervosa ma andava fatto. Avevo imparato alla perfezione i suoi orari e sapevo quando sarebbe ritornata a casa dagli allenamenti, credo di softball ma non ne ero certa.
Andai a correre nell'attesa del suo ritorno, poi quando mancava poco, come mia abitudine dopo una corsa, mi stesi per terra per riprendere fiato, in questo caso ero davanti al vialetto di casa sua, dove lei doveva passare. Era questo il mio piano, poco creativo o geniale ma speravo che funzionasse.
Mentre me ne stavo rilassata e con gli occhi chiusi e il braccio sul viso, sentii qualcuno schiarirsi la gola. Tenni gli occhi chiusi per l'ansia e poi credevo che la sua vista e la consapevolezza concreta di averla vicina mi avrebbe tradito in qualche modo. Dovevo mantenere un tono neutro.
"Ti spiace?", mi chiese la sua voce angelica. Era lei, non ne avevo alcun dubbio. Sentii il mio cuore palpitare e andare a mille. Voleva andare da lei, era suo dopotutto, le apparteneva.
"Di cosa?". Cercai di avere un tono di voce normale e con mio gran stupore ci riuscii, ero fiera di me.
"Di spostarti. Dovrei passare e tu sei sdraiata per terra nel mio vialetto".
"Passa sull'erba". Dopotutto non c'era nessuna recinzione ma lei voleva passare dal vialetto, come sua abitudine d'altronde, che io sapevo.
"Il vialetto servirà pur a qualcosa, no?". Il suo tono di voce mi divertì parecchio anche se non lo diedi a vedere, era così scontrosa.
"Puoi scalvaccarmi e farla finita".
"O tu potresti spostarti", mi disse con un tono tagliente, forse stavo esagerando mandando in fumo ogni mio piano, dovevo rimediare.
"Abbi pietà di me, ho corso chissà quanti chilometri e adesso devo riprendermi", la supplicai sperando che questo la rabonisse. La sentii sbuffare e scavalcarmi, il mio piano aveva funzionato. "Camila".
"Come?", la sentii dire confusa.
Tolsi il braccio che avevo tenuto per tutto il tempo sul viso alzandomi e pulendomi per bene il pantaloncini che indossavo per correre. Mi voltai verso di lei e fu lì, mentre i miei occhi incontrarono i suoi magnifici smeraldi, che il mio cuore perse qualche battito. "Camila", ripetei, "è il mio nome", le sorrisi cercando di mantenere intatta la dignità di Camila.
Rimase zitta e immobile per qualche attimo ad osservarmi e poi fece qualcosa che mi mozzò il fiato, mi sorrise. "Lauren".
Con tutta la forza che avevo cercai di riprendere il controllo di me e del corpo di Camila. "Bel nome", commentai.
"Anche il tuo", mi disse continuando a sorridermi, se avesse continuato così mi avrebbe riucciso.
"Be', in realtà è il mio secondo nome".
"Ah...", fece lei.
"Il mio primo nome è Karla ma nessuno mi deve chiamare così, a parte mia madre quando si arrabbia con me", le spiegai e lei in risposta scoppiò a ridere. La sua risata... era qualcosa di unico. "Bene, ora è meglio che vada". Restammo per qualche attimo ad osservarci a vicenda. "Magari qualche volta ci si rivede", feci una pausa. "Se mi ritrovi per terra davanti al tuo vialetto hai il permesso di calpestarmi". Rise delle mie parole. Era bello sentirla ridere, specialmente se ero io la causa di ciò.
"Contaci", mi disse continuando a ridere.
"Allora ciao, Lauren", la salutai avviandomi verso casa.
"Ciao, Camila".
Averla incontrata dopo ben quasi quattordici anni dalla mia rinascita era stata la cosa più bella che potesse mai capitarmi. Averle parlato, aver sentito la sua magnifica voce e la sua risata, mi aveva confermato i miei sentimenti, anche se mi sentivo in colpa per Camila, volevo che Lauren si innamorase di me, che fosse mia.

L'indomani dal mio primo incontro con Lauren, quando tornai a casa da scuola, presi la mia adorata chitarra per andare a casa sua.
In questi anni avevo preso lezioni di chitarra, anche di piano e di canto, dopotutto stavo prendendo il posto di Camila e dovevo mantenere certi suoi aspetti, in un certo senso glielo dovevo e poi non volevo stravolgere il suo essere con la mia presenza.
Quando arrivai a casa Jauregui sapevo che Lauren era in casa. Chissà cosa stava facendo. Avevo intenzione di suonare per lei e magari farla cantare. Mi mancava sentire la sua voce unica.
Presi coraggio andando a suonare il campanello. Ad aprirmi fu sua madre. Da quel che sapevo, anche se non era una certezza, era che non approvasse molto la presunta relazione tra Camila e sua figlia. Dovevo far si di risultarle simpatica. Sfoderai il miglior sorriso di Camila presentandomi alla donna. "Salve, sono Camila Cabello, Lauren è in casa?".
La donna mi squadrò da capo a piedi per qualche attimo prima di dire qualcosa. "Sta studiando in camera sua". Sapevo che si stava chiedendo chi fossi, che il mio viso non le risultava familiare.
"Può dirle che sono qui?", le chiesi cordialmente.
Ci pensò per qualche attimo prima di fare qualcosa, che non si fidasse di me? Che riuscisse a percepire qualcosa di anomalo in me? No, non era possibile, era solo una mia paranoia.
Mi sorrise. "Ma certo, entra pure". Mi rilassai entrando in quella casa.
Casa Jauregui era accogliente, era un bel posto dove crescere. Mi accomodai sul divano in attesa di Lauren, sua madre intanto salì al piano di sopra per dirle che la stavo aspettando. Chissà come avrebbe reagito alla mia visita, le avrebbe fatto piacere oppure no?
Dopo un po' vidi arrivare Lauren con sua madre al seguito, come sempre era bellissima. Mi alzai per andarle incontro.
"Cosa ci fai qui?", mi chiese con un gran sorriso stampato in faccia.
"Ho portato la chitarra", gliela indicai, "ed ho pensato se ti andasse di cantare".
Mi guardò per qualche attimo. "Per quello che ne sai potrei essere stonata come una campana", rise. Beata ignoranza, anche se non lo sospettava minimamente, io sapevo che non era affatto stonata, anzi, aveva una voce splendida, una voce che non avrei mai dimenticato e smesso di ascoltare.
"Il mio istinto mi dice che non lo sei".
"Bene, allora saliamo in camera mia e vediamo se il tuo istinto si sbaglia o no". Si incamminò verso la sua stanza, così la seguii ignorando le occhiate confuse e sospettose della madre. Che sapesse dell'orientamento sessuale della figlia? Quante cose che ancora non sapevo e che dovevo scoprire.
"Allora", disse quando si buttò sul letto ed osservandomi con un sorrisetto stampato in faccia, "cosa mi suoni di bello?". Adesso l'avrei stupita.
Chiusi la porta dietro di me e andai a sedermi sul letto di fianco a lei. Inizia a suonare una canzone di Lana del Rey. Lei non disse nulla, le si illuminò il viso e poi iniziò a cantare. Finalmente, dopo quasi quattordici anni, risentivo la sua splendida e unica voce, mi era così mancata. Averla qui, di fianco a me e poter sentire la sua voce dal vivo suscitava in me un emozione travolgente, avevo voglia di piangere ma non potevo, semplicemente non potevo darle una spiegazione valida e veritiera.
Purtroppo la canzone terminò, avrei voluto che non finisse mai, anche se, sapevo che l'avrei riascoltata cantare per molto tempo. Tanto tempo ancora.
"Bene, anche stavolta il mio istinto non ha fallito", le sorrisi.
"Tu avrai imbrogliato, non c'è altra spiegazione". Lei stava scherzando ma non sapeva quanto avesse ragione, io stavo imbrogliando, e probabilmente avrei continuato a farlo.
"Il mio istinto è infallibile, mia cara. Visto che ho indovinato, non mi merito una ricompensa?", le feci l'occhiolino.
"Non so che ricompensa ti aspetti ma non ho nulla da darti".
"Ci penserò su e poi ti farò sapere". Lasciai la chitarra sul letto e mi alzai per andarmene.
"Dove vai?", mi chiese confusa.
Mi voltai per guardarla e lanciarle un sorrisetto. "A casa".
"E la chitarra, la lasci qui?".
"È la mia scusa per tornare". Uscii dalla sua stanza come se nulla fosse per poi tornarmene a casa.

"Ben tornata, tesoro", mi accolse con un gran sorriso mia madre mentre era intenta a dar da mangiare alla mia sorellina Sofi. Andai da loro e diedi un bacio sulla guancia ad entrambe. "Non avevi con te la tua chitarra quando sei uscita?". Non le sfuggiva nulla.
"Sì, l'ho dimenticata a casa di un'amica".
Mi guardò col suo sguardo da: Signorina a me non puoi nascondere nulla, sono tua madre. "Tu non dimentichi la tua adorata chitarra, è più facile che ti scordi la testa piuttosto, confessa". Ribadisco, non le sfuggiva nulla.
Mi mossi a disagio sul posto. "Diciamo che ho volutamente dimenticato la mia chitarra da lei".
Incrociò le braccia sul petto. "La conosco?".
"No".
"Conosco almeno la sua famiglia?". Non ne avevo la minima idea.
"Non lo so".
"Dove abita?". Era un terzo grado per caso?
"Mamma, è una brava ragazza, credimi", cercai di rassicurarla.
"Non voglio che ci resti male", sospirò, "per te può essere più difficile trovare la persona giusta, di certo non andate in giro con la scritta: mi piacciono le ragazze". A volte quando voleva, Sinueh sapeva essere davvero comica.
"Sinceramente sarebbe più facile", risi e lei insieme a me, con la mia vera madre non succedevano certe cose, al contrario di Sinueh, lei non si era mai interessata a me.
"Almeno puoi descrivermela?", mi chiese dopo che si fu ripresa dalle risate.
"Potrei far di meglio".
"Cioè?".
"Potrei portarla a casa".
"Ti deve davvero piacere questa ragazza". Non sapeva quanto, così tanto da prendere la vita di un'altra, di sua figlia.
"Diciamo che è la ragazza che aspettavo".
Mi abbracciò stringendomi a lei in modo materno. "Sono contenta che ti piaccia una ragazza, ma sta' attenta".
"Lo farò, mamma".
Mi piaceva tanto la mia nuova famiglia, mi sostenevano e mi davano l'affetto che non avevo mai avuto, nonostante il rimorso verso Camila, finalmente ero davvero felice.

Il mio altro piano era in atto, con la scusa della chitarra dovevo tornare per forza a casa sua, così feci. Il piano susseguiva nel portarla a casa mia per farle mangiare la crostata alla Nutella che avevo preparato per lei. Come sempre ignara di tutto, non sospettava che sapevo che adorasse la Nutella, fortuna che piace a tutti, o quasi. Ho sempre amato cucinare, faceva parte del mio DNA d'italiana, anche se adesso ero Cubana, nonostante ciò avevo mantenuto questa mia caratteristica e la mia nuova famiglia ne era contenta.
Per andare a casa di Lauren, avevo preso la mia bicicletta, quella con il sedile per il secondo passeggero, l'avevo comprata solo per lei.
Quando arrivai suonai al campanello e questa volta ad aprirmi fu la sorella di Lauren, Taylor. Anche se era più piccola di me era piuttosto alta per la sua età. "Ciao", mi salutò facendomi un sorriso, in questa famiglia erano tutti sorridenti.
"C'è Lauren per caso?".
"Chi la cerca?". Perché in questa famiglia dovevano tutti sospettare di me? Avevo la faccia da cattiva ragazza? No, Camila non l'aveva. Iniziavo davvero a credere che percepissero qualcosa di anomalo in me.
"Camila, sono venuta a riprendere la chitarra che ho dimenticato", le spiegai.
Mi fece un sorrisetto che mi insospettì parecchio, che Lauren le avesse parlato di me?
"Io sono Taylor, entra pure Camila, fa come se fossi a casa tua", mi fece entrare in casa, "i miei genitori non ci sono e Lauren è in camera sua".
"Va bene, ti ringrazio".
"Immagino che saprai dove si trova la sua stanza".
"Sì". Mi squadrò da capo a piedi continuando ad avere quel sorrisetto, qui qualcosa non quadrava. Feci come se nulla fosse e andai di sopra.
Quando arrivai davanti la sua camera, ovviamente la porta era chiusa, a lei piaceva così.
Bussai e la sentii dire: "Avanti".
Era intenta a scrivere qualcosa non prestandomi la sua attenzione e di conseguenza, non si accorse che ero io. Chiusi la porta dietro di me, per poi schiarirmi la voce. Quando si accorse della mia presenza e vide che ero io, per un primo momento fece un accenno di un sorriso, poi sgranò gli occhi allarmata nascondendo il suo quaderno. Cos'aveva da nascondere?
"Ti ho interrotta mentre scrivevi cose sconce sul tuo diario segreto?".
"Non scrivo cose sconce sul mio diario segreto", protestò.
"Si come no".
"E poi non è il mio diario segreto", puntualizzò.
"E allora cos'è?", le chiesi mentre mi andavo a sedere sul suo letto.
In viso aveva un espressione tra il disagio e l'imbarazzo. "Ehm... il mio blocco da disegno".
"Posso vedere?". Allungai una mano per avere il blocco che non arrivò.
"No".
"Perché no?", le chiesi mentre continuavo ad avere la mano tesa verso di lei.
"Perché mi vergogno, e poi neanche ti conosco".
Mi alzai dal letto per andare da lei. "Ciao, sono Karla Camila Cabello Estrabao, ho quasi quattordici anni e vengo da Cojimar, Cuba. Vivo a Miami dall'età di sei anni... che altro dire...", feci una pausa mentre lei mi guardava divertita, "cado come se nulla fosse", a questa confessione scoppiò a ridere.
"Davvero?".
"Credimi, vorrei che non lo fosse".
"Che altro?".
"Qui qualcuno è troppo bramoso d'informazioni, quando questo qualcuno non mi vuol far vedere il suo blocco".
Rassegnata mi diede il suo blocco. Nella mia vecchia vita amavo disegnare e me la cavavavo piuttosto bene, era l'unica cosa che mi rendesse un po' felice, che mi facesse dimenticare per un po' quel dolore che sentivo dentro e che mi tormentava. Avevo deciso che in questa vita non avrei disegnato, era la punizione che mi ero data per aver rubato la vita di Camila, anche se da piccola a scuola mi avevano chiesto di disegnare, quello fu il mio unico strappo alla regola, solo perché non potevo sottrarmi.
Sfogliai il blocco da disegno osservando con cura i vari schizzi e bozze che aveva fatto Lauren, non erano affatto male e aveva una buona mano.
"Niente male", commentai.
"Tutto qui?", mi chiese.
"Sappi che non ti dirò che sei bravissima, a un artista non piace".
"E cosa piace ad un artista?".
"Una critica costruttiva".
"E quale sarebbe la tua?".
"Non saprei, sono negata in disegno", risi.
"Tu sei fuori di testa", mi disse tra le risate.
"Questa è un'altra cosa che devi sapere su di me". Oramai l'avevo persa fra le risate.
Mi alzai a prendere la mia chitarra che Lauren aveva riposto in un angolo della stanza, tornai sul letto ed iniziai a strimpellare.
"Tu canti?", mi chiese ad un tratto.
"Sì".
"Mi canti qualcosa?".
Tolsi lo sguardo dalle corde per osservarla ed era in attesa, così decisi di accontentarla. Mossi le dita sulle corde pizzicandole ed iniziai a cantare una canzone dei Onerepublic, il mio gruppo preferito. Non sapevo se a Camila fossero mai piaciuti o a Lauren. Cantai per lei, solo ed esclusivamente per lei, avevo atteso per tanto tempo questo momento e lei mi guardava con un luccichio negli occhi, forse era solo frutto della mia immaginazione, e stava sorridendo. Quando conclusi la conzone mi regalò un applauso. "Sei stata bravissima!". Il mio cuore palpitava frenetico dall'emozione.
"Grazie ma tu sei molto più brava di me".
"Non dire stupidaggini, sei stata bravissima". A quanto pareva era inutile ribattere con lei.
"Be', anche tu lo sei", mi spuntò un mezzo sorriso timido.
"Grazie".
"Senti, visto che ho ritrovato la mia chitarra perduta", rise, "ti andrebbe di venire a casa mia per mangiare una crostata alla Nutella? Sai per ringraziarti di aver custodito con cura la mia adorata chitarra".
"Adoro la Nutella, accetto ben volentieri". In questo momento sarei potuta rimorire dalla felicità.
"Bene, allora andiamo".

In meno di quindici minuti arrivammo a casa mia. Dovevo ammettere che da un punto di vista il viaggio in bici fu gradevole, sentire le sue braccia intorno alla mia vita e il suo calore che mi scaldava era qualcosa di unico e meraviglioso. Però visto la mia guida spericolata si era stretta troppo a me, quasi da togliermi il respiro, e quando arrivammo a destinazione ringraziò Dio per essere arrivata sana e salva, era un po' esagerata.
"Scusa, è che amo la velocità e il vento che ti sferza il viso".
"Sei spericolata", esclamò.
"Oh be', è un'altra cosa che devi sapere su di me".
"Me lo terrò a mente".
"Allora, entriamo? Almeno così mi farò perdonare".
"Spera che sia buonissima allora", ci scherzò su.
"Scherzi? Nessuno cucina meglio di me", feci la finta offesa.
"Vedremo".
Quando entrammo dentro casa mamma sentendo la porta venne ad accoglierci.
"Mamma, lei è Lauren".
"Piacere di conoscerti, Lauren", la salutò squadrandola da capo a piedi.

Qualche ora prima:
Mentre aspettavo che la crostata si cuocesse in forno ed osservavo Sofi giocare con la babysitter, sentii rincasare mamma dal lavoro.
"Che buon profumino", esclamò mentre entrò in cucina.
"Non è per te, perciò giù le mani", la avvertii.
"E per chi sarebbe?", mi chiese curiosa.
"Per Lauren". Mi sentii a disagio in quel momento.
"Lauren? Non si tratta di quella ragazza, vero?".
"Sì, è proprio lei e voglio invitarla qui a casa, non ti dispiace, vero?".
Era pensierosa. "No, almeno così potrò conoscerla e valutarla". Valutarla!
"Mamma, non è mica una carcerata o una drogata!".
"Vedremo", mi liquidò per poi dedicarsi a mia sorella.
"Quando verrà qui, per favore, non dire se è la mia fidanzata o quant'altro", la supplicai.
Mi guardò stranita. "E la ragione sarebbe?".
"Lei non sa di me, almeno credo".
"E lei non sai che tu sai di lei?".
"Esatto, mamma".
"Non capisco perché voi ragazzi di oggi vi complichiate le cose".
"Me lo chiedo anch'io", dissi sospirando, ma in realtà le cose erano più complicato di quello che immaginava.


Presente:
"Il piacere è mio, signora", la salutò Lauren in modo timido, com'era tenera.
Mamma le sorrise, era un buon segno. "Chiamami, Sinueh". Era fatta! Mamma l'aveva approvata, il fascino Jauregui colpiva proprio tutti.
"Vieni Lauren, andiamo in cunica", la presi per un braccio conducendola di là.
"Tua madre sembra simpatica", commentò mentre si sedeva su uno sgabello.
"Oh be', quando vuole lo è". Era una mamma dolce. Mi affrettai a tagliare due fette di crostata che avevo lasciato sul piano della cucina a raffreddore che misi su dei piattini. "Ecco qua!". La servii, in risposta le spuntò un espressione contenta, intanto andai a prendere qualcosa da bere per entrambe.
"È davvero buonissima! Mai mangiato niente di più buono". Per fortuna l'era piaciuta la mia crostata, fu un gran sollievo per me.
"Oh be', tutto merito del mio ingrediente segreto".
"E quale sarebbe?".
"Che ingrediente segreto sarebbe se lo dicessi in giro", esclamai.
"Dai, a me puoi dirlo", mi fece il labbruccio e gli occhi da cucciolo, ero decisamente spacciata. "Allora?". Senza rendermene conto ero rimasta incantata da lei.
"Ehm... l'amore", risposi senza rifletterci.
"L'amore, eh...", sembrava pensierosa.
"Qualcosa non va?", le chiesi preoccupata.
"Sì, tutto ok". Non sapeva proprio mentire ma con il tempo avrebbe imparato, lo sapevo per certo.
"Ok". Non volevo insistere. Presi la mia chitarra e iniziai a strimpellare come facevo d'abitudine, e poi volevo rompere quel silenzio che si era creato.
"Suoni da molto?", mi chiese dopo un po'.
Alzai lo sguardo su di lei mentre continuavo a pizzicare le corde, notando che aveva finito la sua fetta di crostata. "Da sempre praticamente".
"Se ti confesso una cosa prometti di non ridere?".
"Non lo farei mai".
"Un giorno vorrei diventare una cantante". Non c'era nulla di cui ridere, anzi, era una cosa bella.
"Credi sempre nei tuoi sogni e non ti arrendere mai".
"Tu dici?".
"Certo, non dubitare mai delle tue capacità".
"Grazie", mi regalò un sorriso timido.
"E comunque sarai la mia degna rivale", ridacchiai, "anch'io un giorno sarò una cantante".
"Sarà bello averti come rivale".
"Decisamente". Fra non molto tempo saremo diventate non rivali, ma ben si colleghe e che saremo diventate molto famose. "Comunque, posso avere la mia ricompensa?", le chiesi.
"Ricompensa?". Mi guardò stranita.
"Ti rammento che ho indovinato che sai cantare". Le feci l'occhiolino.
"Oh quello. Non ho nessuna ricompensa".
"Vieni alla mia festa di compleanno e il gioco è fatto". Sfoderai il miglior sorriso ironico di Camila.
"Quando sarebbe il tuo compleanno?".
"Il tre".
Era pensierosa. "Non saprei cosa regalarti, in fondo nemmeno ti conosco". A me basti tu.
"Basta che vieni, non pretendo un regalo", dissi con non chalance.
"Non posso presentarmi a mani vuote".
"Portami un fiocco per capelli", le suggerii, questo mi fece ridere. La vera Camila amava i fuochi.
"Va bene allora".
"Ti farò avere l'invito".
"Verrà molta gente?".
"L'intera scuola non ci sta a casa mia, perciò ho fatto un accordo con i miei genitori". Ormai era la norma per me.
"Come, scusa?".
"Oh be', non mi considero una ragazza popolare ma sono amica di tutti a scuola", ridacchiai. Proprio amica non ero ma stavo simpatica a tutti ed ero socievole. Volevo essere diversa dalla vecchia me.
"E quindi che accordo hai fatto?", chiese curiosa.
"Mi hanno dato un numero limite da invitare, tutto qua".
"E il numero sarebbe?".
"Una cinquantina".
"Capisco...".
"Quindi verrai?". Dalla sua faccia sembrava che ci avesse ripensato.
"Non so, credo che mi sentirei fuori posto, non conosco nessuno".
"Be', a parte i miei compagni di classe gli altri non li conosco", precisai. "Dai, se vieni sarò tutta tua, non ti lascio mica sola".
"Non vorrai stare con la tua migliore amica?".
"Non ho una migliore amica". Anche se ero socievole non avevo mai avuto una vera amica o amico, in un certo senso ho sempre mantenuto con gli altri una certa distanza.
"Tutti l'hanno".
"Non io, gli amici vanno e vengono, specialmente quando si va a scuola. Se dovrò avere una migliore amica dovrò avere la certezza che sarà per sempre".
"Hai uno strano modo di pensare".
"Lo so", ridacchiai.
"Posso vedere la tua stanza?". La sua domanda mi prese alla sprovvista. Non poteva assolutamente vedere la mia stanza, era imbarazzante, da fangirl, e poi c'era il mio baule con i miei diari segreti, dove con gli anni avevo annotato tutto, rigorosamente in italiano, così nessuno avrebbe potuto leggerli e scoprire il mio oscuro segreto. E poi sopra al letto avevo appesa la bandiera lgbtq. Cosa avrebbe pensato di me se l'avesse vista? Sicuramente che ci stavo provando con lei. Onestamente lo stavo facendo in un certo senso.
"Ehm, no".
"Perché no? Tu hai visto la mia dopotutto", protestò.
"Perché la mia stanza è... imbarazzante".
"Cos'ha di imbarazzante?", mi chiese mentre rideva.
"È da fangirl".
Si mise a ridere ancora più forte. "E allora?".
"Già, e allora...", dissi più a me stessa che a lei. "Ok, ti porto in camera mia, ma non pensare male di me", l'avvisai.
"Perché dovrei pensare male di te?", mi chiese continuando a ridere. Oramai la facevo continuamente ridere, era un fatto ufficiale.
Sbuffai. "Quando vedrai capirai". La condussi in camera mia e con titubanza e dopo un respiro profondo, aprii la porta facendola entrare nella stanza. Quando entrò si guardò intorno, guardò la mia libreria con il suo vasto assortimento di libri e manga. Guardò i miei scaffali pieni di gadget fandom, il mio baule chiuso con un lucchetto con dentro nascosti i miei diari, e infine guardò la bandiera appesa sopra il letto. Rimase ad osservarla per qualche attimo, per poi voltarsi verso di me. "Sei un unicorno?".
"Sono un drago", le risposi d'istinto. Dalla mia vita precedente ricordavo che Lauren si definiva un unicorno, invece Camila era un drago. Mi sorrise. "Tu sei un unicorno?", le chiesi.
"Sì".
Mi avvicinai a lei, forse un po' troppo per il mio povero cuore, quella vicinanza lo faceva impazzire. "Adesso che sai, pensi male di me?", le chiesi titubante.
"No, tranquilla".
Tirai un sospiro di sollievo. "Non sai che sollievo".
Si sedette sul mio letto e la imitai. Era pensierosa, come se volesse dirmi qualcosa.
"Qualcosa non va?".
"Mi chiedevo una cosa".
"Che cosa?".
"I tuoi genitori sanno di te?".
"Be', ad essere onesti lo sa tutta la famiglia", risi a quel ricordo.
"Ah sì?".
"Sì".
"E come l'hanno presa?".
"A parte mia nonna che è caduta dalla sedia per lo shock, piuttosto bene".
"Come, tua nonna è caduta dalla sedia?". Era allarmata.
"Nulla di grave, tranquilla", la rassicurai, "comunque anche lei l'ha presa bene alla fine".
"Quindi ti hanno accettato". Era ancora pensierosa, come se avesse un dilemma interiore.
Mi avvicinai a lei poggiando la mano sulla sua per confortarla, questo gesto mi scatenò le cosiddette farfalle nello stomaco. "Cosa c'è che non va?". Ero davvero preoccupata per lei.
"A mia madre non piacerà".
"Non deve piacerle e poi sei sua figlia, ti deve voler bene sempre e comunque, e poi ti piacciono le ragazze, che sarà mai, mica hai ucciso qualcuno", cercai di ironizzare per tirarla su.
"Lo so, però ho paura", si asciugò col dorso della manocol dorso della col dorso della manomano qualche lacrima che le era sfuggita.
"Tranquilla, ci sono io, e poi sono certa che capirà e se ne farà una ragione".
"Tu credi?".
"Ma certo", le sorrisi in modo confortante.
"È meglio se torno a casa, devo studiare". Era evidente che fosse triste. Volevo tirarla su, ma cosa potevo fare? Forse avevo qualcosa in mente.
"Va bene, ti accompagno". Mi guardò allarmata. "Tranquilla, andrò piano", alzai le mani in mia difesa.

Dopo qualche minuto arrivammo a casa sua e questa volta non mi stritolò e non ringraziò Dio per essere ancora viva. Quando scese dalla mia bici decisi di attuare la fase uno del mio piano per tirarla su di morale.
"Senti, potrei avere il tuo numero di telefono?".
"Va bene". Le diedi il mio telefono così da scrivermi il suo numero.
"Grazie", la ringraziai quando mi ridiede il telefono che ricambiò con un accenno di un sorriso. "Ci vediamo domani". Mi misi a pedalare tornando a casa.
  
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