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Autore: gayzombie_    21/04/2017    3 recensioni
[Johnlock]
Non era mai stato un musicista, ma il suono del violino, in particolare il violino di Sherlock, era una delle cose che riuscivano veramente ad emozionarlo. E quando l’investigatore iniziava a far scorrere l’archetto sulle corde dello strumento, con una tale abilità da farlo quasi cantare con voce umana, sembrava che nient’altro attorno a lui avesse più importanza.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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No one knows me like you do
 
 
 
29 Gennaio.
Quella data aveva un posto fisso nel palazzo mentale di Sherlock Holmes: era l’anniversario del loro primissimo incontro.
 Eppure l’idea di festeggiarlo non lo aveva mai neanche lontanamente sfiorato. Non era sua intenzione abbassarsi al livello dei comuni mortali che attribuivano un valore affettivo ad un semplice numero sul calendario, non era da lui. Il suo “festeggiamento” consisteva nel rileggere di quell’avvenimento sul blog del dottor Watson* e crogiolarsi nei bei ricordi, il tutto rigorosamente di nascosto.

John di certo non lo avrebbe costretto in un qualche imbarazzante appuntamento da fidanzatini, lo conosceva troppo bene ormai e sapeva che qualunque cosa richiedesse coinvolgimento emotivo o convenzioni sociali metteva a dura prova i nervi del detective.
Per questo motivo diede per scontato che quel giorno sarebbe stato come tanti altri: avrebbe salutato lui e Rosie con un bacio prima di andare in ambulatorio, avrebbe eseguito esami della prostata per gran parte della mattinata (non aveva studiato medicina per questo, dannazione) mentre Sherlock, a casa, cercava di far parlare la piccola insegnandole parole come “omicidio” o “tassidermia”; poi sarebbe tornato al 221B di Baker Street per un attimo di riposo e la sera sarebbe uscito a bere qualcosa per riprendersi completamente.

Almeno fino al ritorno a casa, tutto sembrò andare come da programma.

Varcando la soglia dell’appartamento, si ritrovò di fronte a una scena vista e rivista:

«Siamo alle solite, piccola Watson. Se vuoi seguire le orme di tuo padre, devi iniziare ad assumere un comportamento maturo e dimostrare di essere una donna dotata di intelletto e capacità di giudizio. Una volta presa una decisione, devi accettarne le conseguenze. Ora, per l’ultima volta: se vuoi tenere il sonaglino, non devi lanciare il sonaglino. In base a quale logica lo getti a terra, se sai già che lo vorrai indietro?!»

Il detective aveva un’aria esasperata, come se avesse ripetuto quel discorso almeno una decina di volte (e probabilmente era proprio così). Per tutta risposta la principessina di casa, dal suo seggiolino, lo guardò con aria interrogativa per poi colpirlo in piena faccia con il suo giocattolo. L’uomo inspirò profondamente, imponendosi di mantenere la calma, salvato dall’improvvisa apparizione del dottore nella stanza.

«Ah, sei qui John, è il cielo che ti manda. Tua figlia deve avere un problema.»

Watson soffocò una risata togliendosi la giacca per lasciarla sull’appendiabiti vicino alla porta:

«Te l’ho già detto, è soltanto piccola… e quando le parli non capisce la metà di quello che dici. Come la maggior parte delle persone che ti conoscono, insomma.»

Il moro gli lanciò un’occhiataccia, sdraiandosi supino sul divano con l’aria di chi ha appena sudato sette camicie, mentre con la coda dell’occhio guardava il compagno prendere in braccio la piccola e salutarla con un bacio su quella testolina inondata di riccioli biondi.

«A me non lo hai dato.» osservò, voltandosi di scatto.

«Come, scusa?» chiese il dottore con evidente confusione.

«Il bacio. A me non lo hai dato.»

Il biondo scoppiò a ridere incredulo mentre rimetteva la bambina nel seggiolino, ma decise che era meglio accontentarlo senza discutere; non è mai una buona idea mettersi contro un sociopatico che tiene bulbi oculari e dita umane in frigorifero.

«Dio, sei lo stesso tipo che un attimo fa faceva discorsi sulla maturità a Rosie?»

Si chinò per stampare un bacio veloce a metà tra la guancia e le labbra del detective, ma l’altro, non soddisfatto, tentò di approfondire il contatto tirandolo a sé per la cravatta (quell’orribile cravatta che gli aveva comprato per dargli un’aria da vecchio e scoraggiare le donne che, regolarmente, ci provavano con lui a lavoro).
John aveva qualche difficoltà a lasciarsi andare con il fidanzato mentre sua figlia li osservava curiosa, ciucciando l’estremità del proprio bavaglino; ricambiò frettolosamente, lasciando il moro più contrariato di prima e aggiungendo un «Vai a farti la barba!» prima di dirigersi verso quella che recentemente era diventata la loro camera da letto, per concedersi un po’ di meritato riposo.
Con la coda dell’occhio vide Sherlock rotolare di lato sul divano fino a ritrovarsi con la faccia rivolta al muro perforato dai proiettili.
Dargli le spalle era uno dei suoi modi per dire “ce l’ho con te, vedi di farti perdonare al più presto”, ma John era troppo sfinito dal lavoro per preoccuparsi di quelle scenate da primadonna.


-

Dormire per così tanto tempo non era nei suoi piani, ma la stanchezza aveva avuto la meglio.
Il dottore aprì gli occhi intontito dal sonno appena interrotto, guardandosi attorno come per capire dove e in quale epoca si trovasse; una rapida occhiata alla radiosveglia sul comodino lo convinse ad abbandonare di malavoglia le lenzuola e mettersi addosso qualcosa di decente per uscire.
Lasciò la stanza e iniziò a percorrere i pochi metri che lo separavano dalla porta dell’appartamento senza neppure guardarsi intorno, completamente inebetito da quella dormita colossale, ma il suono di una voce familiare lo riportò alla realtà:

«Oh, stai… stai uscendo?»

Suonava talmente delusa, dispiaciuta, che il dottore faticò a riconoscerla come la voce dell’uomo acido e sicuro con cui condivideva quelle quattro mura.

«Si, pensavo di uscire, c’è qualche problema?» chiese confuso, rendendosi conto solo in quel momento di tutti i particolari che aveva ignorato un attimo prima: Sherlock indossava una camicia viola (quella camicia viola, la famosa camicia che, addosso a lui, era in grado di far cambiare sponda anche ad un prete), la tavola era apparecchiata con un’accuratezza esagerata, decorata da un paio di candele ancora spente, diversi ingredienti erano sparsi sui vari ripiani della cucina e qualcosa stava già cuocendo in forno. E… si era davvero fatto la barba?

Sherlock si mosse di scatto, evidentemente imbarazzato, rimettendo a posto qualche piatto in fretta e furia come se stesse nascondendo le prove di un delitto.

«Nessun problema, cioè… non proprio. Stavo solo preparando qualcosa, ma non importa, se esci possiamo mangiarlo io e Rosie… no, che dico, Rosie mangia ancora omogeneizzati… beh, ne porto un po’ alla signora Hudson… non fa niente, era un’idea stupida comunque.»

Stava parlando a raffica, ragionando ad alta voce tra sé e sé, come era solito fare nei momenti di nervosismo più acuto, e la cosa fece letteralmente sciogliere l’ex medico militare sul posto.

«Stavi… preparando la cena?»

«Vedo che stavi ascoltando, è quello che ho detto.»

«Per l’anniversario?»

Ci fu un momento di silenzio imbarazzante (adorabile e imbarazzante), poi il detective si decise a rispondere, fingendosi vago e indifferente per darsi un tono e salvare quel poco che restava della sua reputazione.

«Può darsi. Oppure volevo semplicemente cenare con qualcosa che non fosse ordinato dal ristorante cinese.»

John non se la bevve neanche per un attimo. «Perché? Pensavo che odiassi queste cose…»

«Oh Dio si, le odio a morte.»

«Allora perché lo fai?»

Un altro breve silenzio, durante il quale Sherlock fissò un punto nel vuoto, come se la risposta a quella domanda potesse sbucare fuori da lì.

«Ho pensato… che potesse renderti felice.»

Il dottore non riuscì a trattenere un sorriso che gli si allargò sul volto in meno di un attimo, e annullò velocemente lo spazio che li separava per poter allacciare le braccia al suo collo; spesso si dimenticava di quanto l’altro fosse alto, e si ritrovava a doversi alzare in punta di piedi per stringerlo in quel modo. Era un po’ imbarazzante e doveva ancora farci l’abitudine ma, ritrovandosi con il viso così vicino al suo e respirando il profumo del dopobarba mescolato all’odore naturale della sua pelle, sentendo le mani dell’altro accarezzargli la schiena dopo un attimo di esitazione, quel lieve disagio svanì nel nulla. Il moro ne approfittò per ruotare la testa di lato e prendersi il bacio che nel pomeriggio non gli era stato concesso, e questa volta, con la bambina beatamente addormentata nella culla e nessuna distrazione nei dintorni, Watson non aveva alcuna intenzione di scappare. Fu un breve sfiorarsi di labbra, inizialmente, ma bastò poco per evolversi in un contatto maggiore e sempre più profondo; Sherlock doveva aver assaggiato il vino che stava utilizzando per cucinare (probabilmente per farsi coraggio prima della cena), perché il respiro che il dottore sentiva infrangersi contro le proprie labbra sembrava essere contaminato da qualcosa di alcolico.
Non faticava a crederlo, quella per il detective era una situazione anomala, e John non poteva fare a meno di sentirsi importante al solo pensiero che l’altro si fosse rimboccato le maniche per organizzare il tutto, solo per lui.
Si separò dalla bocca del compagno con uno schiocco fin troppo rumoroso, che creò un immediato imbarazzo da parte di entrambi; erano ancora così impacciati, evidentemente perché Sherlock era il primo uomo per John, e John era la prima persona in assoluto per Sherlock. Era un continuo sperimentare e, nonostante si conoscessero ormai da diversi anni, il loro si era trasformato in un rapporto di coppia da relativamente poco tempo, per cui il passaggio da “amico” a “fidanzato” era ancora in corso.

«Come… come mai questo cambiamento improvviso? Non hai mai voluto festeggiare un anniversario prima d’ora…» le mani del dottor Watson si spostarono dalle spalle al petto del compagno, mentre scendeva dalle punte tornando ad appoggiare completamente i piedi a terra. «Voglio dire, cos’è successo?»

«Sei scemo, John?» chiese l’altro, rivolgendogli un’occhiata esasperata, quasi delusa. «È successo che ci siamo fidanzati! Questo è il nostro primo anniversario come coppia… dovresti ricordarle tu queste cose da sentimentali, non io.»

Come aveva fatto a non pensare alla ragione più ovvia? Preferì sorvolare, ora che conosceva la risposta, e passare alle domande successive:
«Stavi… stavi solo cercando di essere “carino” oggi pomeriggio, vero? Mi dispiace di non averti dato soddisfazione, ero veramente a pezzi…»
Il moro scrollò le spalle, come per dire “non ha importanza”, ed effettivamente non ne aveva, ormai. Era tutto chiarito e stavano per passare la serata insieme, perché dilungarsi tanto su quel particolare?

«Potresti farti perdonare mettendoti a tavola e accendendo le candele, tanto per cominciare.»

Il biondo sorrise e annuì, per poi recuperare un accendino da uno dei cassetti della cucina e prendere posto a tavola, come richiesto; accese entrambe le candele mentre il fidanzato tirava fuori dal forno qualcosa di apparentemente commestibile, quasi invitante, sistemandolo poi sul tavolo per dividerlo sui due piatti.

«Quindi sai cucinare… e io sto per mangiare del cibo preparato dalla stessa persona che, per mesi, mi ha usato come cavia per i suoi intrugli chimici… a mia insaputa.»

«Falla finita, se non te lo avessi detto non te ne saresti neanche accorto.» l’investigatore ridacchiò, porgendogli il piatto. «Mangi sempre distrattamente, potrei metterci anche del veleno per topi e non te ne renderesti conto.»

John rise, riempiendo a metà un calice di vino prima di berne un sorso: «Ma qualcosa mi dice che non verrò avvelenato stasera.»

«Buon Dio, Watson, no. Stasera a letto mi servi vivo.»

Il dottore rischiò seriamente di sputare il contenuto del bicchiere addosso al compagno, che per tutta risposta gli rivolse un’occhiata confusa, per la serie “Beh? Cosa ho detto che non va?”

Per superare quel momento di imbarazzo, decise che era il caso di fidarsi e provare ad assaggiare quel piatto; non osò chiedere cosa fosse, ma alla vista non sembrava male, e scoprì con un certo stupore che era anche decisamente buono. Anche l’uomo seduto di fronte a lui aveva iniziato a mangiare, osservandolo senza farsi notare per cercare di cogliere la sua reazione al sapore del cibo, che scoprì essere positiva.
Sapeva interpretare alla perfezione il linguaggio del corpo, non ci sarebbe stato bisogno di spiegarsi anche a parole, ma il suo dottore era troppo bene educato per non complimentarsi: «Risolvi casi, suoni e componi musica, balli, sai usare le armi e lottare a mani nude, e adesso sai anche cucinare… ha ragione la signora Hudson, quando dice che ho scelto bene!»

«So anche scovare ex medici militari bassi ma carini, ho un talento vero. Il che è comodo, per uno che ha un military kink.»

Il biondo alzò lo sguardo dal proprio piatto, trovandosi di fronte all’espressione seria di Sherlock; scoppiarono a ridere quasi nello stesso preciso istante, rumorosi come lo sarebbero stati due bambini, ma John si ricordò improvvisamente della piccola che avrebbe potuto essere svegliata da quella confusione, e fece cenno all’altro di fare silenzio mentre cercava a sua volta di ricomporsi.

«Se Rosie si sveglia, ti toccherà di nuovo suonare il violino tutta la notte per farla riaddormentare…» sussurrò, tornando alla propria cena.

Il moro soffocò le ultime risate rovistando nel proprio piatto con la forchetta, poi riportò lo sguardo sul fidanzato, mostrando un’improvvisa dolcezza nel tono di voce: «Potrei farlo. Potrei suonare il violino per te, se vuoi.»

Per un momento John credette di potersi letteralmente liquefare sul pavimento a quell’affermazione. Allungò una mano sul tavolo per prendere la sua, accarezzandone le dita sottili e l’anello (il suo) che portava all’anulare.

«Sarebbe bello, non ti sento suonarlo da un po’.»

Sherlock gli rivolse un sorriso impacciato, quasi timido, e gli servirono diversi secondi per elaborare quello che intendeva dirgli. Ci aveva pensato a lungo anche prima, mentre l’altro dormiva nella sua stanza, e ancora non era riuscito a trovare le parole giuste.

«John, per la cronaca, penso ancora che questi festeggiamenti siano completamente privi di senso… e il 29 Gennaio è ancora soltanto un numero sul calendario. Non ho bisogno di un qualche “giorno speciale” per fare queste cose per te…»

«Sherlock, lo so.» cercò subito di rassicurarlo il dottore, ma lui continuò a parlare, ignorando il suo intervento.

«Non ho bisogno di un giorno, perché noi festeggiamo ogni giorno quello che abbiamo, a modo nostro.»

«Sherlock… pensi veramente di doverti giustificare?» John sorrise, accarezzando il suo polso con il pollice e notando un’improvvisa accelerazione nel battito cardiaco del fidanzato. «Ma dai, guardaci. Siamo un sociopatico iperattivo che viene nei pantaloni di fronte a un omicidio ben architettato, e un ex medico militare che stava sviluppando una zoppia psicosomatica per nostalgia della guerra. Noi non siamo normali. Io stavo impazzendo per colpa della normalità, prima di incontrare te.»

Il moro sembrò compiaciuto da quell’affermazione, che in effetti condivideva, ma c’era ancora qualcosa che voleva mettere in chiaro:

«È solo che… a volte penso che ti piacerebbe fare quelle cose che fanno tutte le coppie, e mi sento… mi sento inadeguato, perché io non sono il tipo a cui verrebbe in mente di andare al centro commerciale insieme la domenica, magari con la bambina, o non so… andare al cinema?»

«Allora non devi farlo.»

«Come?»

«Sherlock, noi facciamo un sacco di cose “da coppia”, ma tu non te ne rendi neanche conto, perché ci viene spontaneo; è così che dev’essere. È come hai detto tu, a modo nostro festeggiamo ogni giorno. Risolviamo casi insieme, che per te è una delle cose più intime che si possano fare, e non accetti nessuno come spalla a parte me. Viviamo insieme, ci occupiamo insieme di Rosie, discutiamo su chi deve fare le commissioni, ceniamo spesso fuori casa… Dio, Sherlock, componi addirittura musica per me! Se questa non è una cosa smielata…»

«Non c’entra niente, comporre mi aiuta a pensare.» si giustificò immediatamente, come se si trattasse di qualcosa di cui vergognarsi.

«Certo, si.» il biondo ridacchiò, dandogliela vinta; sarebbe stato inutile insistere. «Il punto è che va bene, è perfetto così com’è. Non voglio che tu cambi e che ti sforzi di essere un fidanzato modello, perché la persona di cui mi sono innamorato non è così.»

La parola “innamorato” fece comparire un lieve rossore sulle guance del detective; era sempre stato sottinteso, certo, ma sentirglielo dire era un altro discorso. Appoggiò un gomito sul tavolo e portò la mano, chiusa a pugno, a nascondere lo stupido sorriso che stava trattenendo con tutte le proprie forze.

«Quindi…» cercò di formulare una frase di senso compiuto, ricomponendosi. «Non devo più provare a fare cose di questo tipo? Ammettiamolo, non è proprio da me…»

Il dottore scosse la testa e riprese ad accarezzare la mano ancora stretta nella sua, intenerito dall’ingenuità che un uomo intelligente come lui dimostrava su argomenti di carattere sentimentale; non erano proprio il suo forte, sebbene fosse un esperto in qualsiasi altra cosa.

«No, non dico questo… ti chiedo solo di essere te stesso, di fare quello che ti senti di fare. Non c’è niente da aggiustare, non sei “sbagliato”... anche se so che molte persone ti hanno detto il contrario.»

Vide Sherlock spostare lo sguardo in un punto indefinito sul tavolo, e capì di averlo messo a disagio con quell’ultima affermazione.

«Non ti conoscono come ti conosco io. E, conoscendoti, sono veramente felice che tu abbia pensato di fare una cosa del genere per me. So che per qualcun altro non lo avresti fatto.» concluse, sperando di aver scacciato via quei brutti pensieri dalla testa del compagno, e ne ebbe conferma non appena quest’ultimo tornò a fissare gli occhi azzurri sui suoi, così simili ai propri.

«Nessuno mi conosce come mi conosci tu.» rispose liberando momentaneamente la mano dalla sua presa, ma soltanto per intrecciare le dita con le sue.

Ci furono diversi minuti di silenzio: non un silenzio forzato o dovuto all’imbarazzo di non sapere cosa dire, bensì un silenzio confortevole, nel quale nessuno dei due aveva alcun bisogno di proferire parola per comunicare. Il genere di silenzio che possono permettersi solo due persone che si conoscono intimamente.**
Finita la cena, Watson si avvicinò alle sue spalle mentre Sherlock riponeva alcuni piatti nel lavello.

«Quindi, che programmi abbiamo ora?» chiese con una certa curiosità. Il detective alzò lo sguardo per darsi una rapida occhiata attorno, come per richiamare alla mente qualche idea che aveva avuto poco prima.

«Dunque, ci sediamo di fronte al camino e suono il violino per te mentre tu mi riempi di complimenti…»

Sentì la risata di Watson attraversargli le orecchie come musica, il che lo incoraggiò a portare avanti quella buffonata.

«Poi diamo un’occhiata al tuo post del 29 Gennaio e ridiamo un po’ ricordandoci che, subito dopo avermi conosciuto, mi hai definito “affascinante” su un blog pubblico e visibile a tutti.»***

«Mi hanno subito chiesto se fossi diventato gay…»

«Lo so, ho letto il commento.»

John decise di ignorare l’espressione spudoratamente soddisfatta che accompagnava quella frase; scosse la testa ridendo, intimandogli di proseguire: «D’accordo, e poi?»

«Beh, se vogliamo chiudere in bellezza, potresti metterti la tua vecchia uniforme militare e aspettarmi in camera da let…»

«Sherlock!»

«Che c’è? La bambina dorme, e la signora Hudson… beh, che resti tra me e te, ma credo che non le dispiaccia.»

Non riusciva a capire se facesse sul serio o meno, ma l’espressione implorante che si era fatta spazio sul suo volto faceva supporre che la prima opzione fosse quella corretta.

«D’accordo, va bene… solo… cerca di essere silenzioso, stavolta.» si passò una mano sul viso, a testa bassa, ritrovandosi ad arrossire come un idiota al solo ricordo dell’ultima volta. Sospirò raddrizzando la schiena e si diresse verso la sua poltrona, sprofondandovi mentre il crepitio del camino acceso iniziava già a rilassarlo. Un momento dopo, il suono del violino di Sherlock si unì a quel concerto, sulle note di quella che non sembrava essere una melodia classica, ma una canzone moderna riadattata da lui.****
John appoggiò un gomito sul bracciolo della poltrona e portò il pugno chiuso a sorreggere la testa, chiudendo gli occhi per concentrarsi su ogni nota.
Non era mai stato un musicista, ma il suono del violino, in particolare il violino di Sherlock, era una delle cose che riuscivano veramente ad emozionarlo. E quando l’investigatore iniziava a far scorrere l’archetto sulle corde dello strumento, con una tale abilità da farlo quasi cantare con voce umana, sembrava che nient’altro attorno a lui avesse più importanza.
Era talmente assorbito dalla musica da non accorgersi che il suo violinista preferito si era inginocchiato accanto a lui, approfittando del suo momentaneo stato di trance per osservarlo da vicino.
La musica rallentò fino a fermarsi, e il dottore avvertì il calore di un paio di labbra premere contro le proprie. Sorrise nel bel mezzo del bacio, ancora ad occhi chiusi.

«Buon anniversario, John Watson
 




 
 

Note:
*Il blog esiste davvero, dateci un’occhiata se vi interessa! http://www.johnwatsonblog.co.uk/
**Ho voluto semi-citare una frase da uno dei romanzi originali, che recita: «For two hours we rambled about together, in silence for the most part, as befits two men who know each other intimately.»
***Ripeto, il blog esiste e le precise parole di John sono state: «I definitely think he might be mad, but he was also strangely likeable. He was charming.»
****La canzone in questione è questa qua ( https://www.youtube.com/watch?v=h3lWwMHFhnA ), e mi è stata consigliata in quanto ricorda proprio questa bellissima coppia.
 
 
 
 
   
 
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