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Autore: Lumos and Nox    23/04/2017    6 recensioni
La prima cosa a invecchiare, ogni giorno, nonostante fosse anche nuovo, di quella mattina stessa, la prima cosa a invecchiare era il pane.
Il solito background di un cattivo.
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Senza un Lieto Fine'
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Jung~ Vita Eterna


La prima cosa a invecchiare, ogni giorno, nonostante fosse anche nuovo, di quella mattina stessa, la prima cosa a invecchiare era il pane. Diventava così duro dopo così poco tempo che diventava un'impresa anche solo spezzarlo, figurarsi poi ingerirlo. Sarebbe stato più semplice masticare corteccia: quella che forse era stata una mollica (anche se di sicuro mai e poi mai era stata tenera) si appiccicava ai denti e, quando si deglutiva, lei se la sentiva cadere giù giù, come se stesse urtando lungo tutta la sua gola. Avevano avuto pane migliore, un tempo, pane sempre fresco che non invecchiava mai.
Avevano avuto anche una casa migliore, una casa che non sembrava vecchia e decrepita e che non era fatta di legno marcio e schifoso, impregnato di pioggia e di freddo.
La casa che avevano avuto prima era di pietra, alta e austera, con tante stanze e con tante cameriere e cuochi e servitori, ma era passato così tanto tempo che ricordava a malapena i colori di quelle stanze e le facce di quella gente. La casa di quei tempi le risparmiava il problema del ricordo. Non c'erano colori nelle stanze e tantomeno servitù, non c'era niente che valesse la pena di ricordare. Era vecchia, quella casa, vecchia e sporca e malconcia, traballante, le travi del soffitto lo urlavano a ogni folata di vento.
La prima persona a invecchiare era stata sua madre. Della sua famiglia, era quella che aveva reagito peggio dell'essere caduti tanto in basso- avevano portato via loro tutto e anche lei ne era stata colpita, lei e sua madre ne erano state entrambe colpite e... ed erano rimaste in un angolo di una camera buia e fredda, avvolte in una coperta di muffa, cercando di scaldarsi e di ripararsi dalla pioggia scrosciante che squassava la casa e dalle urla di suo padre. Siamo degli Eisen! Alzatevi, donne della malora! Siamo degli Eisen e non ci facciamo piegare da nulla!
Ma sua madre non era un Eisen, mai stata, era una Zauberin, una nobile di una famiglia pura e delicata, dai capelli biondi e dai visi bianchi- avrebbe voluto così tanto avere quei capelli così belli, una cascata di luce del sole- e gli Zauberin non erano nati per stare in una casa fatta di marciume, né per ricevere tutte le botte e il dolore che suo padre aveva dato a sua madre.
E così sua madre era stata la prima persona a invecchiare: i capelli biondi e lisci, la cascata​ di luce, si erano fatti di paglia bagnata, sempre più stopposa e sempre più bianca e lei provava a parlare a sua madre, a scuoterla, perché Wilhelm piangeva nella sua culla, ma nulla era servito e lei era rimasta giorno dopo giorno in angoli bui, lo sguardo fisso di chi non vedeva nulla di ciò che aveva intorno. Le ragnatele che pendevano negli angoli della casa avevano cominciato a dipingersi anche sul suo volto, perché una ragnatela di rughe, di piccoli fossi di carne, orribili segni, le era stata calata proprio sul viso, tessuta giorno dopo giorno dal ragno invisibile del tempo. Più rughe c'erano sul suo volto, più Wilhelm piangeva forte forte e nulla lo placava. Finché un giorno, Wilhelm non aveva pianto più, perché non c'era più alcun Wilhelm che aveva potuto piangere. Era un corpo bitorzoluto, brutto e senza vita, dentro una culla fatta di muffa. Anche sua madre era senza vita, era una vecchia fatta di niente che ammuffiva e si prendeva le botte di suo padre senza far nulla.
Il giorno che avevano seppellito Wilhelm, invece, lei deciso che non avrebbe più preso le botte di suo padre, né sentito il suo alito pesante da vino che le urlava di essere una Eisen. Era uscita di casa di notte, dopo che suo padre le aveva fatto così male dentro al letto, si era alzata e aveva sceso le scale. Sua madre restava a fare la Zauberin lontana nel solito angolo- anche quella sera non aveva fatto nulla, era rimasta a invecchiare, a lasciare che il tempo scorresse su di lei e la maciullasse. I suoi occhi erano rimasti fissi sulla finestra, lontani, anche quando lei era uscita dalla stanza segreta di suo padre, quella in cui mai e mai e mai doveva entrare, quella per cui avevano perso ogni cosa. Era stata ferma a lasciarsi maciullare dal tempo in un angolo, sua madre, mentre lei nelle sue mani da dodicenne, sentiva l'odore polveroso delle pagine di un sapere arcano e la lama fredda del pugnale. Si era fatta calda, quella lama, due volte calda, una in quell'angolo marcio della casa e una di sopra nel letto- anche suo padre, un Eisen che mai si piegava, si era piegato quando un pugnale si era fatto strada nel suo stomaco.
Poi, tra le sue mani di dodicenne un sapere arcano e una lama ora rossa, la piccola Gothel era uscita da quella casa vecchia.
Aveva cercato di essere delicata e lontana come una Zauberin, ma, col tempo, si era resa conto di essere anche lei una Eisen, perché nulla più l'avrebbe piegata. Non suo padre, non il dolore. Nemmeno il tempo.
Aveva passato un po' di anni ad arricchirsi con le bugie e le storie giuste, tessendo una nuova identità attorno a lei, ma quando il tempo aveva minacciato di ridurla così, una ragnatela di rughe che si confondeva con il marciume e vecchiume del mondo, no, aveva detto Gothel. Nulla l'avrebbe piegata. Era giovane, ancora, aveva vissuto quello che voleva, ma non quanto voleva. Il libro polveroso per cui suo padre e tutti loro avevano perso tutto era stato riaperto, rianalizzato, e le ricerche l'avevano occupata per molto, molto tempo, molto più di quanto volesse ammettere. Ma nulla mai l'avrebbe piegata.
Aveva dato fondo alle ricchezze di quattro matrimoni (marito morto a cavallo, malattia misteriosa, divorzio, malattia ancor più misteriosa) e di molti amanti, aveva quasi dato fondo al suo stesso corpo: aveva visto le prime rughe, quelle schifose piccole tracce, percorsi di vermi nella carne, insinuarsi tra le sue mani e poi ovunque, i capelli neri che si facevano grigi e grigi, la voce stridula, ma nulla l'avrebbe piegata, e aveva continuato la sua ricerca, la ricerca per cui suo padre aveva perso tutto- e per la quale lei stava perdendo la vita.
Finché non lo aveva trovato.
Il fiore nato da una goccia di sole era nato su una roccia lontana, nascosto in un burrone erboso di una montagna sconosciuta. Il libro, di cui soltanto forse un'altra copia era rimasta, era scritto in caratteri antichi, e finalmente le sue parole avevano acquisito un senso, davanti a quel fiore fatto di luce. Una luce tanto bella e calda, quella della giovinezza. Vi aveva poggiato le mani e sussurrato quei versi- letti e riletti così tanto da averli imparati a memoria.
Fiore, dammi ascolto, se risplenderai...
La forza della vita era rifiorita in lei non appena aveva terminato la canzone, proprio come il libro diceva, e la voce era tornata quella seducente che aveva fatto capitolare amanti su amanti, i capelli avevano riacquisito il colore della notte e le rughe... le rughe erano sparite, via come nuvole scomparse dopo la pioggia, niente più rughe, niente più schifose ragnatele sul suo corpo. Era giovane, era bella, ora nulla l'avrebbe piegata, né il tempo, né la morte. Era riuscita dove quell'idiota di suo padre aveva fallito. Era giovane, era bella.
Era eterna.
I secoli erano trascorsi senza che lei ne venisse sfiorata, assaggiando il calore della giovinezza ogni volta che ne sentiva il bisogno. Aveva visto malattie, nuovi stati, classi sociali, generazioni che si accavallavano l'una sulle altre, tutte destinate a perdersi nella polvere mentre lei, mentre lei, esisteva lontana dal tempo, lontana dalle rughe e da qualsiasi ragnatela, splendida nella sua eternità di dea.
Aveva visitato per un po' la tomba di Wilhelm, l'unico a cui forse avrebbe dato una possibilità. Gli Eisen si erano estinti duecentoventiquattro anni prima, con la morte del nipote del nipote del nipote del fratello di suo padre, ma forse se Wilhelm fosse stato più forte, avrebbe condiviso il fiore con lui. Se fosse stato più forte, se non si fosse fatto piegare dalla vita e dal tempo. Forse era meglio così. Forse era troppo debole, troppo delicato e distante come sua madre e come uno Zauberin, per poter sconfiggere il tempo. Aveva lasciato che la sua tomba si ricoprisse di rovi e venisse polverizzata lentamente- e del suo passato, da allora, le era rimasto solo il pugnale, perché anche il libro polveroso il tempo se l'era mangiato e figurarsi se avesse voluto sapere qualcosa della sua vecchia casa o dei corpi dei suoi genitori. Nemmeno prima della ricerca del fiore le era importato. Era giovane ed eterna, intoccabile dal tempo e dalla morte. Nulla le importava, se non il restare così per sempre.
Era stato quattrocentocinquantatre anni dopo la sua nascita che aveva commesso un errore. Aveva sentito delle voci, la fretta era stata una cattiva consigliera (per lei, poi, eterna e intoccabile!) e il nascondiglio era stato scoperto. Il fiore, avevano preso il fiore, il suo fiore, la sua eternità.
Lo avevano sradicato e portato via con loro. Gothel li aveva seguiti e da lì ad apprendere la situazione era stato un attimo. Rubare il suo fiore per una stupida regina incinta. Oh, che schiocchezza, non avrebbe dovuto piegarsi alla malattia. Lei non si era mai piegata a nulla. E di sicuro non avrebbe rinunciato al tutto per un capriccio di un re che voleva avere un erede- a saperlo per tempo, gli avrebbe dato uno dei suoi figli. Ne aveva lasciati alle sue spalle così tanti, nel corso della sua eternità.
Il figlio. Il fiore sarebbe cresciuto in lui, nei suoi capelli. Era deciso. Era rimasta in quel regno il tempo necessario, aspettando che l'erede nascesse per poi far pagare ai due idioti il prezzo di ciò che avevano fatto- e riprendersi la sua giovinezza, ovviamente. Aveva cominciato nuovamente ad avvizzirsi, più velocemente delle precendenti volte. Al compimento del terzo mese dalla nascita di quella che si era rivelata essere una marmocchia, era salita al castello, in una notte che le aveva ricordato quella in cui i suoi genitori avevano cessato di esistere. Aveva provato a prendere solo i capelli color oro, color giovinezza della bambina: ma con un singulto qualcosa non era andato come previsto. Tagliati, i capelli non funzionavano, non la rendevano giovane, perdevano la loro vita, non la rendevano eterna. Questo l'aveva fatta ancor più infuriare ed era stata felice di non aver avuto altra scelta, se non quella di prendere quella bambina. Sarebbe stata di una giusta crudeltà con quegli stupidi regnanti: che se ne stessero nel loro castello, a rimpiangere di non aver nulla che salvasse loro e il loro regno dal tempo. Nessun erede, nessun futuro, per loro. Vendetta e giovinezza, eternità, per lei.
Aveva portato la marmocchia, Rapunzel, l'avevano chiamata, in una torre lontana dal castello, in un luogo nascosto ma accessibile a chi lo conoscesse- le serviva recarvisi per la sua giovinezza e le sarebbe servito trovare anche un uomo che permettesse al fiore di rinascere in un altro corpo, se Rapunzel fosse invecchiata troppo. Non sapeva se utilizzare la giovinezza direttamente su Rapunzel, a dire il vero. Era una bambina stupida come lo erano stati i suoi genitori, ma avrebbe potuto capire cosa significava essere eterni e tentare di rivolgersi contro di lei. Ma un erede nato non direttamente dal fiore avrebbe potuto essere di seconda mano, già sfiorito, non utile quanto poteva essere la bambina con la giovinezza già dentro di sé. Ci avrebbe pensato, aveva il tempo infinito di fronte a sé.
Certo, era stato faticoso crescere quella marmocchia- aveva assunto una domestica, per un po' di tempo, ma poco dopo l'aveva uccisa quando aveva cominciato a fare troppe domande. I pianti di Rapunzel le ricordavano quelli dei figli che lei aveva dato alla luce, una lista lunga al cui vertice si trovava Wilhelm, che piangeva e piangeva prima di diventare solo un corpo bitorzoluto tra panni sporchi di una culla. Ma nulla avrebbe potuto piegarla, nemmeno i pianti di una mocciosa. Il tempo per quella Rapunzel per fortuna era passato e i pianti erano finiti: era solo una bambina, patetica come tutte quelle che si erano succedute in secoli e secoli, dai capelli di una cascata di luce. Erano belli, facevano sembrare la bambina quasi decente quando le sorrideva- una vampata strana dentro di lei quando quella Rapunzel le regalava qualcosa- erano capelli che le ricordavano quelli dei tempi felici, quelli di sua madre... di quella debole fatta di ragnatele e polvere. Aveva deciso che nulla avrebbe voluto di quella mocciosa, se non i suoi capelli, la sua gioventù. Nulla l'aveva mai piegata, nulla lei aveva mai amato. Rapunzel non sarebbe stata un'eccezione. Era solo un intoppo alla sua eternità, un disastro di due regnanti che avevano osato portarle via il suo fiore. Per lei che aveva vissuto per secoli, ciò che era successo al diciottesimo compleanno di Rapunzel era scivolato via in un lampo: la fuga, le sue tracce verso una taverna, guardie che inseguivano, due perfetti delinquenti idioti come alleati, un inganno, il piano che andava a buon fine e...
E. E quell'idiota di un ragazzo per cui la sua fonte di giovinezza voleva andarsene era ricomparso nella torre. No.
No! Nulla sarebbe più successo contro i suoi piani! Non aveva trovato l'eternità e sofferto tanto solo per permettere a due stupidi giovani di rovinare ogni cosa. La lama era stata di nuovo tra le sue mani, lama bagnata di sangue ancora, oh, da quanto tempo non assaporava più il sangue, quella lama? Afferrava la ragazza e faceva per portarla via e quella si dibatteva, stupida ingrata mocciosa, e Lascia che guarisca la sua ferita e resteremo insieme per sempre.
Per sempre. Lascia solo che io guarisca la sua ferita.
L'eternità era stata di nuovo a un passo da lei, aveva visto la lei giovane ed eterna annuire, specchiata nei grandi occhi lucidi e decisi di Rapunzel.
Aveva legato il ragazzo, nella malaugurata ipotesi che volesse seguirle, Rapunzel si era chinata su di lui per curarlo (spreco di tempo, prima o poi sarebbe morto comunque, se non per quella ferita, per il tempo), lui le sfiora i capelli, si fa in avanti per baciarla e...
E i capelli sono tagliati, recisi, NO! luce del sole che si fa marrone terra, terra dei morti, serpeggiano verso di lei, li afferra, afferra gli ultimi biondi, biondi di luce, NO! cascata di luce ormai recisa e marrone. La mano si sfalda, la carne si fa grigia, ammuffita, marcia, le rughe che le scavano la pelle e l'animo come larve che la mangiano lentamente, Che cosa hai fatto? un grido acuto che esce dalle sue labbra sempre più ruvide, fragili, schifose. I capelli diventano lana di pecora stopposa e bianca, bianca come le ragnatele di sua madre, arranca allo specchio e quello che vede è un teschio, la pelle tirata sulle sue ossa, gli occhi grossi che la fissano, le pupille che sembrano due grosse croci su una tomba. Si stringe nel mantello, ultimo ricordo di un corpo giovane, NO!, non vuole che nessuno la veda, non vuole vedersi nemmeno lei, in quel corpo, si copre il volto fatto ormai di fili sottili, arranca, mentre il tempo mai trascorso, il tempo di secoli, la divora con ferocia, ossa dopo ossa, goccia dopo goccia.
NO! la voce è un raglio, uno stridere ubriaco su un'ugola ormai sfribrata, scarnificata, No, no, no, no..., l'eternità, la giovinezza, la sua giovinezza, nessuno la può piegare, nessuno, nessuno, no...
Suoni indistinti le rimbombano nelle orecchie, si stringe al mantello fino a quasi lacerarlo, inciampa, i lamenti le si incastrano in gola. Cade. È un urlo quello che ora le esce, un urlo disperato di rabbia, di odio, di dolore, di tutto ciò che ha provato nella sua vita, delle botte, degli stupri di suo padre, di sua madre ferma, di suo fratello morto, ha perso tutto, la giovinezza, eternità, la sua eternità, lei è una dea, immortale.
Il suo corpo si disgrega mentre cade, il mantello viene aperto dal sole, che la abbaglia, il sole, il sole vuole riprendersi la giovinezza della sua goccia caduta da là, fiore, dammi ascolto, cade, cade, in un urlo agonizzante.
Non riuscì nemmeno a vederlo, il suolo. A toccare l'erba, fu soltanto un mantello sporco di polvere.





N.d.A.
Non credo siano necessarie molte note, ma ho deciso comunque di espormi per eventuali chiarimenti. "Jung" significa giovane in tedesco- secondo il mio headcanon, infatti, Gothel è originaria della Germania settentrionale. La sua famiglia, gli Eisen (letteralmente "ferro", sempre in tedesco), è caduta in disgrazia dopo che suo padre è stato accusato di stregoneria di atrocità varie, ne commetteva, in effetti. Se vi interessa, si chiamava Humbert, mentre la giovane madre di Gothel era Bärbel Zauberin, appartenente a un'altra famiglia sempre inventata da me ("Zauberin" significa "strega"). La storia comincia circa nel 1359 (Gothel è nata circa nel 1347) e copre un arco decisamente lungo, dato che Rapunzel, stando a molti, si ambienta nei primi anni dell'Ottocento. Il libro su cui Gothel fa affidamento ha origini atlantidee, è molto, molto antico- e più che il tempo, a distruggerlo è stata lei per paura che qualcuno lo trovasse.
Il rapporto di Gothel con Rapunzel, come spero si sarà notato, è un po' complicato. Vorrebbe quasi trattarla come una vera figlia, ma ha paura di essere troppo coinvolta oppure non vuole direttamente... preferisco lasciare a voi la scelta.
Prima che qualcuno lo chieda, l'ultima parte è scritta appositamente così. Vuole essere una sorta di flusso di coscienza, una tipologia di scrittura sviluppatasi dagli anni Venti; se volete approfondire​, vi consiglio la lettura di qualche opera di James Joyce.
E niente, le prossime storie saranno su Jafar e su un altro personaggio che reputo particolarmente interessante. Recensioni sempre gradite, con le vostre parole mi incoraggiate a pubblicare&aggiornare più spesso!
Baci,
Nox
  
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