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Autore: gayzombie_    25/04/2017    4 recensioni
[Johnlock + Parentlock]
Una raccolta di One-Shots riguardanti momenti comici e/o fluff della famiglia composta da Sherlock, John e la piccola Rosie Watson. (Ogni One-Shot è indipendente dall'altra e probabilmente non saranno in ordine cronologico)
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«Hai idea del perché la maestra di Rosie voglia parlarci di persona, Sherlock?»
«Non direi.»
«William Sherlock Scott Holmes, se vengo a sapere che mia figlia ha cercato di vivisezionare qualche suo compagno per colpa delle strane idee che le metti in testa, sappi che…»
«Rilassati, l’ho soltanto fatta giocare con la testa mozzata del nostro ultimo caso.»
Genere: Comico, Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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«Hai idea del perché la maestra di Rosie voglia parlarci di persona, Sherlock?»

«Non direi.»

«William Sherlock Scott Holmes, se vengo a sapere che mia figlia ha cercato di vivisezionare qualche suo compagno per colpa delle strane idee che le metti in testa, sappi che…»

«Rilassati, l’ho soltanto fatta giocare con la testa mozzata del nostro ultimo caso.»

«Ha giocato con COSA?!»

«Qual è il problema? Lestrade ha detto che non serviva più, e Rosie voleva truccarla…»

Watson aprì bocca per dire qualcosa, ma la richiuse immediatamente ricordandosi che si trovavano nel corridoio di una scuola elementare, e le uniche parole a cui riusciva a pensare in quel momento non sembravano adatte a quell’ambiente.
Optò quindi per una breve occhiataccia, che nel loro linguaggio significava “farò finta di non aver sentito”, e incrociò le braccia al petto con aria rassegnata.

In quel momento una giovane donna dal sorriso gentile uscì dalla porta di fronte a loro, salutando con una stretta di mano due genitori che avevano appena terminato il colloquio; nel vedere Sherlock e John, la coppia indietreggiò istintivamente, cambiando immediatamente espressione e risultando tesi e imbarazzati. Li salutarono sbrigativamente con un cenno della mano, lasciando il dottore piuttosto confuso, mentre il detective sembrò restare impassibile.
L’insegnante fece accomodare i due indicandogli due sedie vuote di fronte alla sua cattedra, cercando qualcosa tra dei fogli disordinatamente ammucchiati accanto a un portapenne.

«I genitori di Rosie Watson, non è vero?»

«Non fa i compiti? Non studia? Ha detto parolacce?» John non le diede neanche il tempo di prendere il registro di classe, sembrava fin troppo preoccupato per una situazione ordinaria come quella.

La maestra scosse immediatamente la testa rivolgendogli un sorriso rassicurante, e prese a sfogliare una piccola agenda su cui erano appuntati i giudizi sul comportamento dei vari alunni.

«A dire il vero, signor Watson, Rosie è una bambina veramente intelligente… di questo non deve preoccuparsi. Fa i compiti regolarmente, interviene spesso in classe per dire la sua, ha un vocabolario notevole per una bambina della sua età. Penso che sia un piccolo genio.»

Sherlock sorrise fin troppo compiaciuto nel sentire quelle parole, era orgoglioso di aver trasformato la figlia del compagno in un’adorabile versione di sé stesso in miniatura. Tirò una gomitata a John, come per dire “è tutto merito mio”, mentre accavallava le gambe mettendosi più comodo.
Il dottore preferì ignorarlo, non intendeva dargli alcuna soddisfazione: qualunque fosse il motivo di quel colloquio, doveva essere colpa sua.

«Allora il problema qual è? Non interagisce con gli altri bambini? Interagisce nel modo sbagliato

La donna scosse di nuovo la testa: «Solitamente è educata e sa come comportarsi con i compagni, le vogliono tutti molto bene.»

Stavolta toccava a John tirare la gomitata del “è tutto merito mio”, ma era troppo teso per quei giochetti, e voleva solo arrivare al punto senza ulteriori indovinelli: «Insomma, cosa ha fatto Rosie?! È per l’ultimo tema sulla fiaba da inventare? Si, magari il mio compagno l’ha aiutata un po’ con i verbi, ma le assicuro che è tutta farina del suo sacco, a meno che…»

Si voltò di scatto verso il detective, tirandolo per una manica della giacca in modo da avvicinarlo e sussurrargli all’orecchio: «Dimmi che non le hai davvero fatto scrivere “Omicidio nel mondo delle fate”. Dimmi che avete scartato quell’idea.»

Il moro roteò gli occhi sbuffando, mentre la maestra tentò di trattenere una risatina poco professionale:

«Non se la prenda con il suo compagno, penso che qui il problema sia qualcosa che ha detto lei.»

Il biondo restò di sasso, lasciando andare subito la manica del fidanzato, mentre cercava di ripercorrere mentalmente ogni singola frase inappropriata che poteva aver detto in presenza della bambina.

«…Io? Sul serio?»

L’insegnante si schiarì la voce, continuava a mantenere un atteggiamento gentile e comprensivo nonostante quell’affermazione.

«Un bambino stava facendo battute a sfondo omofobo in sua presenza, e Rosie si è sentita presa in causa… inizialmente è stata molto corretta e gli ha spiegato con calma che non c’è niente di male nell’avere due papà, che voi due siete fantastici eccetera.»

John si sentì improvvisamente attanagliare dal senso di colpa: come aveva potuto pensare male della sua principessa? Li aveva soltanto difesi, come lui le aveva sempre insegnato a difendere il prossimo.

«Quel bambino è un mio alunno, conosco i suoi genitori e sono convinta che lui stesse solo ripetendo le loro parole… per questo ho chiesto di parlare anche con loro due oggi.»

«Si riferisce alla coppia che era qui prima di noi?» chiese il dottore e, vedendo la maestra annuire, gli fu subito chiaro il motivo del loro strano comportamento. «Ma ancora non capisco, Rosie cosa ha fatto di male?»

«Beh… il bambino ha insistito con parole piuttosto pesanti, e Rosie gli ha detto: “Il mio papà è un ex medico militare, significa che può spezzarti tutte le ossa chiamandole per nome.*”. Le dice qualcosa?»

Si sentì sbiancare e si tirò un ceffone in piena faccia, come per auto-punirsi. Erano le parole che aveva detto a Rosie per rassicurarla il primo giorno di scuola, quando lei gli aveva chiesto cosa avrebbe potuto dire a un eventuale bullo o ragazzino antipatico. John lo aveva detto scherzando, ovviamente, e Rosie dall’alto della sua intelligenza lo aveva capito, ma evidentemente aveva pensato che quell’avvertimento avrebbe potuto tornarle utile sul serio.

La maestra cercò subito di rassicurarlo, «Sono convinta che le sue intenzioni fossero buone, non si senta in colpa, pensavo solo che fosse giusto informarla. I bambini hanno fatto pace e si sono scusati entrambi, magari per i genitori del piccolo servirà più tempo… è curioso come a volte i bambini siano più maturi degli adulti, non crede anche lei?»

Il dottore annuì ripetutamente, sebbene non stesse ascoltando una singola parola di quel discorso, troppo occupato a sprofondare nell’imbarazzo più totale. Un uomo corretto come lui, che veniva fatto passare per un aggressore di bambini.

La conversazione si spostò su altri argomenti: recita scolastica, gli ultimi disegni di Rosie, un tema così ben scritto che la maestra aveva deciso di farlo leggere dalla bambina a tutta la classe;

stavolta fu Sherlock, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, a conversare con l’insegnante e chiedere informazioni, mentre Watson non sembrava più in condizione di sostenere scambi di alcun tipo.

Rivolse di nuovo la parola al compagno soltanto a fine colloquio, mentre si dirigevano verso il parcheggio:

«Tu. Fammi indovinare: tu l’avevi già dedotto.»

Il moro ridacchiò, non riuscendo a trattenersi; aveva tenuto duro fin troppo a lungo, restando serio durante l’intero colloquio.

«Può darsi.»

«Quando l’hai capito? Quando hai visto quei due genitori, vero?»

«Non proprio.»

«Quando, Sherlock?»

«Più o meno quando abbiamo ricevuto la telefonata dalla scuola.» si voltò in direzione del dottore per vedere la sua reazione, e rise di gusto quando l’altro smise di camminare fermandosi nel bel mezzo del marciapiede.

«Sherlock, dammi le chiavi dell’auto. Aspettami qui, vado a prenderla io.»

«Perché?»

«Devo investirti.»
 
 


 
 
Note
*Sono le precise parole che Watson pronuncia in “L’Abominevole Sposa”: «I'm an Army doctor, which means I can break every bone in your body while naming them.»
   
 
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