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Autore: MaxB    25/04/2017    9 recensioni
Non avete mai pensato, giocando con un videogame, leggendo un libro o guardando un film: "Questi due mi ricordano tantissimo i protagonisti di ***"?
Ecco come nasce questa raccolta di crossover: una rivisitazione di storie che hanno per protagonisti personaggi che mi ricordano da matti Gajeel e Levy. Alcune sono semplici sostituzioni di persona con dettagli cambiati, altre saranno leggermente stravolte.
Le ambientazioni saranno le più disparate, ma avranno come unico filo conduttore l'amore dei nostri due meravigliosi Gajeel e Levy.
1. Il Trono di Spade
2. Mulan
3. Uncharted
4. Titanic (...meno terribilmente triste dell'originale... circa)
Genere: Fantasy, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gajil Redfox, Levy McGarden, Pantherlily
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note pre-lettura: la storia è tratta dal libro, non dalla serie TV, che non ho intenzione di guardare. Perciò, per chi non ha letto il libro e ha visto la serie, non so che differenze possano esserci. Anche per chi legge il libro ci saranno alcune cose diverse, dato che non ho copiato pari pari dal libro ma ho reinterpretato (non troppo) il loro rapporto in base alla storia, cambiando alcuni dettagli (dimenticandone altri, sicuramente ahahah (ops)) e omettendone alcuni non fondamentali per questo capitolo. Vi auguro una lettura piacevole^^


Il Trono di Spade

Personaggi sostituiti
Khal Drogo: Gajeel Redfox (Khal Gajeel)
Daenerys (Dany) Targaryen: Laeverys (Levy) McGarden
Il cavallo di Khal Gajeel: Pantherlily (non sapevo dove metterlo, scusate ahaha)
Irri, Jiqui e Doreah, ancelle di Levy: Lucy, Erza e Mirajane



Disagio. Ansia. Confusione. Terrore.
Queste erano le emozioni viscide e pressanti che albergavano nella mente, e peggio ancora, nel cuore, di Laeverys Gardyen, costringendola in uno stato di catatonica apatia e cieca obbedienza nei confronti degli ordini secchi e bruschi di suo fratello maggiore.
Non che di solito non gli obbedisse, certo. La sua vita, la sua esistenza, il suo scopo erano quelli di servirlo e seguire i suoi ordini in modo che lui potesse detronizzare chi sedeva sul Trono di Spade al posto suo, che governava sui Sette Regni macchiati di sangue per via dell’usurpazione.
Laeverys Gardyen, Levy per suo fratello e per il magistro che aveva dato asilo a entrambi, principi umiliati e scacciati dalla propria casa, tornò alla realtà dei fatti solo quando l’ancella le strinse il corpetto con forza, strappandole un rantolo.
- Zitta – le intimò suo fratello, laconico, studiandola come si studia una mucca da macello, un animale dal valore nullo da cui bisogna cercare di trarre il massimo profitto. – Non una parola, capito? E sorridi, che non vogliamo che il Khal ti rifiuti per colpa della tua brutta faccia.
Eccola, un’altra stoccata al suo già inesistente orgoglio femminile.
L’ancella strinse ancora i lacci del corpetto, un’ultima volta, e Levy si morse la lingua per non obiettare.
Un’altra serva le fece passare la veste di seta azzurra come i suoi capelli sopra la testa, lisciandolo poi fino ai piedi e sistemando le curve del vestito in corrispondenza delle forme del corpo ancora acerbo di Levy.
Aveva sedici anni e stava per andare in sposa a un re selvaggio, barbaro, delle terre al di là del mare. Il re dei dothraki, un popolo legato alla terra e a tradizioni e culture violente e prive di umanità come solo quelle primitivi potevano essere. Gente poco civilizzata e brutale, guerrieri che non conoscevano il significato della pietà e misuravano la loro forza e il loro onore solo in termini di numeri. Numeri degli assassinii perpetrati.
L’unico loro pregio era la lealtà, la fedeltà incrollabile di tutto il khalasar nei confronti del proprio Khal, del proprio re.
Ecco di quali tipi di persone Laeverys Gardyen, discendente dei draghi, stava per diventare la regina.
Non sapeva nemmeno se suo marito conoscesse la sua lingua. Non sapeva chi fosse, non l’aveva mai visto, anche se stava per incontrarlo.
Solo il nome le era noto: Gajeel, Khal Gajeel dei dothraki, il più sanguinario e impassibile dei re. Nella cultura dothraki, pareva che più il re fosse imperturbabile e inflessibile, più fosse osannato.
In quel momento prevalse il terrore nell’animo di Levy.
- Mettile in mostra le tette, sono lì da qualche parte. Non si vedono, ma ci sono – la schernì suo fratello, rivolto all’ancella, per nulla divertito. – Sedici anni e hai le tette di una neonata. Speriamo che il Khal preferisca il tuo abbondante didietro a quelle ciliegie imbarazzanti.
Levy incassò l’umiliazione senza battere ciglio. Era abituata a stoccate del genere da parte di suo fratello, l’unica persona che amasse al mondo, l’unico parente che aveva conosciuto dal momento della sua nascita, che si fosse preso cura di lei, anche se a modo suo e in maniera discutibile.
Ma lei era viva grazie a lui, e qualsiasi cosa lui avesse comandato, lei avrebbe obbedito.
Lealtà a lui? Alla propria dinastia reale?
Lei cercava di convincersi di sì, nelle lunghe chiacchierate che faceva mentalmente con se stessa per illudersi di poter parlare amichevolmente con qualcuno. Ma la verità era che obbediva solo per paura, timore della rabbia incontrollata del fratello e orrore all’idea di scappare.
Scappare dove, poi? Per andare da chi? Dalla sua gente, a casa sua? Le casate fedeli ai Gardyen erano ormai piegate sotto il volere del nuovo sovrano, i suoi famigliari morti, casa sua occupata. Le rimaneva solo suo fratello. E, se la serata fosse andata come previsto, avrebbe avuto suo marito, che li avrebbe aiutati a riconquistare senza difficoltà tutti e sette i regni.
- I capelli non sono abbastanza lucenti, devono essere azzurri come l’acqua pura in cui i draghi lavano le loro onorevoli scagli, luride schiave. Sistemateglieli, o vi farò conoscere quanto può bruciare il fuoco di quegli stessi draghi – comandò il fratello di Levy, girandole attorno.
Tette piccole. Sedere grosso. Troppo magra. Sproporzionata. Occhi troppo grandi. Capelli opachi.
Quelle e molte altre lodi le erano state rese dal fratello nell’arco del pomeriggio di preparazione cui era stata sottoposta per essere presentabile alla vista del Khal.
Levy si sentiva sempre più prossima alle lacrime, per la sua incapacità di soddisfare il giudizio del fratello e per il destino che l’attendeva. Nemmeno la promessa di riportare ai fasti di un tempo la sua casata l’aiutava a mascherare l’orrore che provava.
Suo fratello si allontanò un attimo per andare a prepararsi, minacciando le ancelle di legarle e tenerle a digiuno se sua sorella non fosse stata pronta entro il suo ritorno.
Appena fu lontano, un’ancella si fermò di fronte a Levy e le osservò il volto. – Siete bellissima, principessa. Non temete, il Khal non vi rifiuterà.
Levy desiderò con tutte le forze crederci, e mentre l’altra ancella le metteva uno specchio davanti al viso, si chiese cosa fosse in realtà la bellezza.
Aveva lunghi capelli azzurri e ondulati, lasciati ricadere morbidamente lungo la schiena e adornati qua e là da trecce e fili di perle, che creavano uno splendido contrasto con il puro turchino delle sue ciocche. Si diceva che tutti i Gardyen avessero capelli dai colori sgargianti e naturali, non colorati con le tinte importate dalle città libere. Era un retaggio che derivava dalle scaglie dei draghi e dalla lunga permanenza a contatto con essi.
Gli occhi erano del colore del miele prodotto da api selvatiche, quel miele che poteva costare anche un cervo d’argento tanto era pericoloso recuperarlo. Una puntura, una sola, e la morte ti trovava nel giro di un’ora. Erano occhi grandi e sinceri, dolci nonostante le angherie subite e le difficoltà della vita. Dagli occhi di Levy traspariva la vera età della sua anima: non sedici anni, semmai sessantuno, forse. O di più. La sua era un’anima antica che aspettava di cominciare a vivere, per smettere di sopravvivere.
Il resto del volto era morbido e armonioso: eleganti zigomi alti, una dolce curva del naso, pelle di seta senza difetti o cicatrici.
Non aveva molto seno, aveva gambe magre e affusolate nonostante la lunghezza non eccessiva, fianchi larghi adatti a mettere al mondo dei bambini senza troppa difficoltà, e un fondoschiena che compensava la mancanza di dotazione pettorale. Il vestito di seta azzurra serviva proprio a cercare di valorizzare il suo piccolo seno e le altre curve del suo corpo, rendendola invitante quanto una cena succulenta.
Forse proprio quello era lei, in fondo. Un pasto da consumare nel momento in cui la fame mordeva, e da abbandonare quando quello stesso bisogno veniva placato, un avanzo da gettare ai cani.
Suo fratello però non l’aveva mai picchiata… per lo meno, non troppo violentemente. Non poteva certo rovinare la mercanzia.
Quando tornò, la squadrò con diffidenza mentre le ancelle si affrettavano ad uscire dalla stanza.
- Bene, andiamo a concludere l’accordo – approvò, dandole le spalle e uscendo.
Nei suoi occhi non aveva visto il minimo segno di compiacenza.
 
Levy scese dalla carrozza per seconda, subito dietro a suo fratello.
L’unica volta in cui si era azzardata, dimentica della sua posizione, a scendere per prima, suo fratello le aveva strappato una ciocca di capelli tanto folta da lasciarle una chiazza calva sulla nuca.
La prima cosa che Levy notò era che il khalasar del re, la sua corte e la sua guardia, tutti raggruppati in quell’immenso palazzo grezzo e rustico come il popolo dothraki, era composto da soli uomini. Uomini massicci, uomini che la superavano in altezza e larghezza di misure non trascurabili. Il più basso guerriero probabilmente era più alto di lei di una testa abbondante.
La seconda cosa di cui prese atto fu che tutti si zittirono e la fissarono come si fissa un pezzo di carne grondante grasso alla fine di una giornata di digiuno, quando alzò la gonna alle caviglie per salire le scale.
La terza cosa che capì, e che le strinse le viscere in una morsa tale da costringerla a non mangiare nemmeno un pezzo di pane per non vomitare, fu che molti di quegli uomini enormi facevano parte della guardia reale del re. Almeno dieci di loro di sicuro. Il Khal condivideva tutto con i suoi cavalieri di sangue, pensieri, pasti, guerre, rabbia. Mai un uomo della guardia aveva tradito il proprio Khal.
E il Khal condivideva anche la propria moglie.
Levy deglutì a vuoto, cercando di buttare giù il grumo di disperazione che le occludeva la laringe e rischiava di farla soffocare. Dover condividere il letto con il Khal forse sarebbe diventata un’abitudine, una cosa che avrebbe imparato a fare meccanicamente, magari senza nemmeno provare più dolore. Lei ci sperava. Ma essere posseduta a turno da dieci di quegli uomini possenti e privi d’affetto, agli occhi dei quali lei era solo uno strumento di piacere, l’avrebbe dilaniata dentro, nel profondo, oltre che nel corpo.
Ad un tratto sentì voglia di piangere.
- Quello è il Khal, Khal Gajeel – la informò suo fratello abbassandosi per farle udire il suo sussurro.
Stava indicando un individuo che svettava sugli altri di una buona spanna. Khal Gajeel era massiccio, alto quanto un gigante e muscoloso quanto un toro, ma nel momento in cui si voltò verso di loro e si avvicinò, Levy notò che aveva anche una certa grazia. In qualche modo le ricordò una pantera, nera quanto i capelli che portava raccolti in una treccia fino alla base della schiena.
Indossava un gilè di cuoio impreziosito con gingilli dorati, sotto cui erano visibili i muscoli guizzanti dell’addome e del petto. In vita portava una cintura di cuoio bardata con anelli d’oro che lo identificavano come Khal, che sosteneva dei pantaloni di pelle larghi e morbidi, neri come i suoi capelli.
Aveva i piedi nudi, ma Levy si rese conto che l’unico rumore che lui produceva in quel silenzio innaturale era dovuto ai campanellini d’oro incastrati nella sua treccia folta come la criniera di un cavallo.
A quanto pareva, non era consuetudine solo femminile quella di acconciarsi la capigliatura, nel popolo dothraki.
Quando Khal Gajeel le fu davanti, lontano da lei solo due passi, Levy fu costretta ad alzare del tutto la testa per osservarlo in volto: i suoi occhi gli arrivavano al petto, tanto era alto. Da lontano sembrava mastodontico, ma da vicino era un vero gigante.
Levy studiò velocemente il suo viso: aveva il mento, i lati del naso e la pelle occupata dalle sopracciglia tempestati di piccole placche di metallo. Non era raro che i dothraki si bucassero la carne con gioielli o appendici metalliche, e quando la ragazza notò un baluginio anche sulle orecchie e sugli avambracci del Khal, il destro dei quali era anche ricoperto di cicatrici chiare e frastagliate, si chiese quante placche metalliche si fosse fatto impiantare nel corpo. Aveva il volto squadrato, la linea del naso decisa e la curva della mascella retta e ben definita, austera anche se nascosta sotto una curata barbetta corta che partiva dalle basette e gli circondava le labbra, lasciando libera solo un po’ di pelle sotto al mento. Quello la sorprese, dal momento che le barbe dei dothraki erano solite essere selvagge e incolte, spesso legate con qualche laccio grezzo. Mai corte e ben curate.
Ciò che però la ipnotizzò e la bloccò, fermandole il sangue nelle vene, il battito cardiaco, il respiro e i pensieri, furono gli occhi: scintillanti come rubini e freddi allo stesso modo, impassibili, una pozza di sangue nella quale era facile annegare e difficile da attraversare restando incolumi. Persino per i dothraki, che avevano tutti occhi color fango o rosso-marrone, era insolita una tonalità così sgargiante.
La posa fiera, i tratti del viso, la corporatura, il vestiario e gli orpelli, i capelli e la barba: tutto in lui suggeriva fermezza e autorità.
Levy sentì i muscoli del ventre contrarsi. Le ci volle tutto il suo autocontrollo per non piegarsi e gemere di dolore: un preludio a ciò che sarebbero state le notti con quel guerriero barbaro e violento.
Sarebbe sopravvissuta? Ce l’avrebbe fatta?
Lanciò al fratello un’occhiata supplice, pregandolo di rispondere a quella muta domanda, ma l’unica cosa che lui le trasmise fu odio.
D’istinto, cercò di sorridere, ma forse non le riuscì troppo bene la cosa dal momento che Khal Gajeel sollevò un sopracciglio.
Quel movimento era stato l’unico cambiamento che la sua espressione impassibile aveva subito da quando lo aveva visto.
Suo fratello fece per parlare, ma Khal Gajeel lo precedette e alzò una mano per bloccarlo, studiando con interesse la ragazza di fronte a lui. Be’, Levy sperava che fosse interesse, dato che i suoi occhi rossi come le fiamme che ardevano nei bracieri sparsi per la sala enorme non avevano tradito emozioni.
Alla fine, dopo un esame che a Levy parve interminabile, Khal Gajeel annuì seccamente e si allontanò, facendo ghignare suo fratello. I guerrieri tornarono alle loro chiacchiere e alcuni alle loro baruffe, e non la degnarono più di attenzione.
- Bene, è fatta, sorellina – concluse suo fratello, squadrandola dall’alto.
Levy si illuse di vedere orgoglio dipinto nei suoi occhi, ma poi tornò alla realtà e capì che era solo un guizzo di autocompiacimento. Non rivolto a lei.
- Sai, Levy, si dice che un dothraki si tagli i capelli solo quando perde una battaglia, sia essa una guerra o un duello corpo a corpo. Khal Gajeel ha la treccia più lunga di tutto il khalasar. Sono convinto che a letto ci sarà da combattere, quindi vedi di soddisfarlo. Mi sono spiegato?
Lei annuì titubante, e soppresse una smorfia quando suo fratello allungò la mano per torcerle la pelle del polso in un pizzicotto che avrebbe lasciato il segno.
Il sorriso che gli rivolse era sincero quanto la dichiarazione di pace di un uomo con in mano una spada insanguinata.
In qualche modo riuscì a spacciare le lacrime che le sfuggirono dagli occhi per gioia, pura gioia.
In risposta, suo fratello le accarezzò i capelli.
 
Si sposarono una settimana dopo, di pomeriggio, in una radura erbosa punteggiata da fiorellini bianchi e violetti che venivano brutalmente calpestati dai piedi pesanti dei dothraki.
Come da tradizione, Khal Gajeel studiò il cielo terso che iniziava a rabbuiarsi, alla ricerca della luna. Quando la individuò e fu certo che luna e sole, in quel momento, coesistessero nello stesso cielo per benedirli, si avvicinò al centro della radura su cui calò il silenzio. Levy, pizzicata al fianco dal fratello, deglutì e lo seguì alzando la gonna lunga e leggera nella tiepida aria serale.
Indossava un vestito chiaro piuttosto semplice: suo fratello aveva lesinato pesantemente sul suo vestito da sposa quando aveva scoperto che ai dothraki non fregava un fico secco dell’abbigliamento e delle cerimonie. Così Levy portava un vestito leggero che aveva già precedentemente indossato, dalle maniche lunghe e larghe che quasi toccavano terra. Aveva uno scollo profondo e longilineo che terminava alla base del seno, dove partiva una fasciatura che metteva in risalto la vita stretta. Dall’addome fino ai piedi si dipanava la lunga gonna morbida e velata che le metteva in mostra le gambe in controluce. Portava pochi gioielli, ai dothraki non interessavano simili gingilli estetici e futili. Solo il Khal e i suoi guerrieri ne portavano, e quel giorno Khal Gajeel non si era risparmiato sugli accessori.
Indossava un gilè semplice, come gli altri che Levy gli aveva visto indossare, ma questo era fatto di pelliccia di piccoli topi. Era considerato un portafortuna nella cultura dothraki. L’addome muscoloso era esposto dal petto fino all’ombelico, sotto al quale era legata strettamente una cintura di cuoio pesante che poteva essere considerata un’armatura, borchiata con catenine e anelli d’oro che Levy, principessa deposta di tutti i sette regni, non aveva mai visto nonostante il suo alto lignaggio. Bastava la quantità d’oro appesa alla vita del Khal per rendere ricco un poveraccio per tre intere generazioni. Le gambe erano coperte da pantaloni chiari, color bianco sporco, che sembravano essere morbidi e lisci al tatto. Probabilmente era la versione dothraki del velluto e della seta.
I piedi di entrambi erano nudi, e Levy cercò di concentrarsi su quelli per non far caso alle placche metalliche incastonate nel viso e negli avambracci di Khal Gajeel, per non soffermarsi sulla forza che i suoi muscoli esposti emanavano, sulle braccia possenti o sull’altezza vertiginosa.
Tutto faceva presagire che quella notte, e tutte le altre a venire, sarebbero state per lei un vero tormento.
Quando sentì un’ombra e una presenza massiccia incombere su di lei, si bloccò, sapendo di essere arrivata al cospetto del Khal. Lui le alzò il mento con mano delicata ma allo stesso decisa, un gesto perentorio ma non brusco, e Levy seppe che avrebbe dovuto guardare le fiamme ardere nei suoi occhi per tutta la durata della cerimonia.
Non seppe dire, in seguito, cosa fosse accaduto durante quella specie di funzione. Una vecchia, probabilmente una saggia o una donna assimilabile ad una sacerdotessa negli usi dothraki, mormorò alcune parole incomprensibili, ne urlò altre, inneggiò al cielo e poi tacque, gli occhi chiusi e il respiro bloccato.
Khal Gajeel replicò all’invocazione della vecchia recitando poche parole, continuando a tenere la mano sotto il mento di Levy e senza mai lasciare il suo sguardo.
Alla fine tutto il khalasar esplose e iniziarono i festeggiamenti mentre Khal Gajeel si allontanava verso la sua postazione. Dal suo cenno della testa, Levy capì di doverlo seguire, e così fece. Nel momento in cui sedette per terra, sulle stuoie e i cuscini, pregò che i festeggiamenti durassero quanto più possibile, per evitarle di stare con il Khal, da sola, ed essere così costretta a consumare il matrimonio.
Le ci vollero poche ore per cambiare idea e pregare che quell’orgia inferocita, quello scempio selvaggio finisse.
Laeverys non sapeva più dove posare gli occhi. Non aveva nessuno con cui parlare: il Khal non la degnava di uno sguardo e suo fratello era di pessimo umore. Nel momento in cui Levy si mise il cuore in pace e provò a dare un’occhiata alla festa in suo onore, per passare il tempo, l’orrore attraversò il suo viso in un muto grido, represso e custodito nel suo cuore.
Ballerine dothraki mezze nude si esibivano in danze sensuali e sfrenate, ottenendo come risultato quello di essere prese dal guerriero di turno, casuale quanto un passante incontrato per strada, ed essere possedute lì a terra, senza pudore né sentimento, come due animali. Come due cavalli, l’animale prediletto dei dothraki. Ovunque guardasse, Levy vedeva corpi uniti in danze ancestrali e animalesche che avevano come unico scopo l’appagamento di impulsi primordiali dettati dall’ebbrezza e dall’euforia del momento. Levy si chiese quanti bambini dothraki conoscessero con certezza l’identità del proprio padre, quanti fossero figli legittimi.
Poi si rese conto che in un khalasar, la corte del re, dove tutto era di tutti, forse non importava nemmeno conoscere i propri genitori. I bambini venivano curati e allevati da tutti, erano figli di chiunque e di nessuno. Se persino i rapporti sessuali venivano messi in mostra senza vergogna e gelosia, forse non c’era nulla di privato nelle loro vite. Una volta aveva sentito dire che tutte le cose importanti per i dothraki dovevano essere fatte al cospetto del cielo, e che il Khal condividesse tutto, tutto con le sue guardie di sangue. Persino la moglie. Levy aveva evitato di pensarci per non rischiare l’iperventilazione da panico.
Chi non copulava come un animale beveva fino al vomito, e chi non faceva nemmeno quello si ingozzava di carne di cavallo arrostita, che scorreva a fiumi come le bevande inebrianti e la libido.
Quando Levy pensò che l’unico posto sicuro da guardare fosse la punta dei suoi piedi, iniziò il giro di regali, che durò per la maggior parte della notte.
In quel momento, salutata dalle voci per una volta pacate dai dothraki, che la omaggiavano con i loro doni e chinavano la testa chiamandola “khaleesi”, Levy si rese conto di essere davvero una regina. Per la prima se lo sentiva dentro, non le era detto a voce e basta.
Levy era la regina dei dothraki, e la legittima regina del Trono di Spade, governatrice dei Sette Regni.
Tecnicamente era suo fratello il sovrano legittimo, ma nei Gardyen era abitudine sposarsi tra fratelli e sorelle, per preservare la purezza di sangue, pertanto Levy sarebbe comunque diventata regina, sposa di suo fratello. L’essersi salvata da quel supplizio non le rendeva più dolce il futuro, accanto ad un re sconosciuto che governava un popolo di barbari nomadi e selvaggi.
Tre furono i regali che apprezzò di più: tre ancelle donatele da suo fratello, due di origine dothraki per insegnarle la lingua e l’arte del cavalcare, di nome Lushi ed Erza, una delle sua cultura per insegnarle le regole dell’amore fisico, chiamata Mirajane; tre uova di drago tramutatesi in roccia, dono di un ricco commerciante che li aveva presi sotto la sua ala protettiva; e tre grossi manoscritti che narravano le leggende delle sue terre, dai miti sui draghi alle gesta della dinastia Gardyen, fino ad arrivare a prima che gli uomini tenessero memoria scritta delle proprie azioni, l’era dei primi uomini e degli elfi ormai scomparsi.
Quell’ultimo regalo, donatole dalla sua guardia personale assoldata sempre dal mercante loro protettore, le fece venire le lacrime agli occhi. Le uova erano un regalo prezioso, le ancelle un dono utile, le avrebbero anche tenuto compagnia, ma quei manoscritti… erano l’unico raggio di sole che squarciava le fitte tenebre del suo incerto futuro.
Laeverys Gardyen diede tutti i suoi regali al marito, dando voce ad una formula dothraki che Lushi, l’ancella che doveva insegnarle la lingua, le suggerì seduta stante. Khal Gajeel la guardò per la prima volta in tutta la serata, e fece un secco cenno con la testa. Poi si allontanò, mentre tutto il khalasar, uomini, donne e bambini riuniti per i festeggiamenti, gli aprivano un lungo corridoio umano per farlo passare. Lushi spinse gentilmente Levy, che si affrettò a seguire il marito.
Khal Gajeel si fermò davanti a due stalloni purosangue, un gigantesco cavallo nero come la notte con un occhio solcato da una cicatrice a mezzaluna, potente e maestoso come il proprio padrone, e una delicatissima ma poderosa giovenca dello stesso colore dei suoi capelli, azzurra con la criniera bianca.
Levy trattenne il fiato di fronte a tanta pura, magnifica bellezza e perfezione. Non ebbe dubbi riguardo a cosa fare: superando il re stesso, correndo, si diresse dalla cavalla e le accarezzò dolcemente il muso, guardandola negli occhi. L’animale sbuffò con il naso e si lasciò coccolare, facendole chiaramente intendere di essere sua amica.
- Il regalo del Khal per te, mia khaleesi – le confermò pacatamente Lushi, alle sue spalle.
Levy sorrise e si voltò per osservare suo marito, gli occhi pieni di gioia e luce per la prima volta da quando lo aveva incontrato.
Gli sorrise e chinò la testa con deferenza. – Meravigliosa, è semplicemente sublime. Grazie.
Khal Gajeel incurvò leggermente l’angolo della bocca in quello che Levy pensò, o volle pensare, fosse un sorriso. Il Khal le rispose, e Levy poté cogliere una nota dolce in quella voce così aspra e brusca che di solito impartiva ordini secchi o commenti stentorei, privi di emozione e morbidezza.
- Khal Gajeel dice che è cavallo degno di khaleesi, del colore di tuoi capelli – tradusse Lushi, sorridendole incoraggiante.
Levy dimenticò per un attimo la paura e l’angoscia vicino a quella cavalcatura degna di un sovrano, ma si irrigidì non appena suo marito le si avvicino e la sovrastò con la sua massa imponente.
Che volesse prenderla lì, in mezzo ai cavalli, di fronte a tutto il khalasar?
Levy trattenne un gemito di paura e la sua voglia di spingerlo via quando Gajeel le mise le mani sui fianchi. Due secondi dopo si trovò in sella alla cavalla, a guardare il Khal dall’alto.
La sua presa era stata forte ma gentile, e Levy aveva avuto l’impressione di volare per un attimo.
- Devi inaugurare cavallo, mia khaleesi – le spiegò Lushi.
Levy osservò suo marito, in attesa di fianco a lei, e poi vide gli occhi di tutto il khalasar puntati su di lei.
- Devo… cavalcarla? E fino a dove?
- Dove vuoi, khaleesi. Prima cavalcata molto importante per dothraki.
Levy respirò a fondo e prese le redini, sistemandosi sulla sella dura e liscia. Non aveva mai cavalcato, ma cercò di darsi un tono e di scacciare la paura mentre osservava il punto verso cui voleva andare. Qualcosa le diceva che non avrebbe potuto fare una cavalcatina trotterellante. Doveva far correre la puledra, lo voleva il suo re, lo voleva il khalasar, lo voleva la puledra e… lo voleva pure lei.
Urlando, lanciò la cavalla al galoppo e la stallona nitrì di gioia, rispondendo come solo un carro da guerra può fare. Levy pensò di volare mentre i dothraki le aprivano la strada, e non si preoccupò minimamente della possibilità di investirli. Lei e la cavalla erano una cosa sola e si ritrovò a ridere, sciogliendosi le trecce e la capigliatura acconciata mentre il vento le accarezzava il viso e le faceva danzare il vestito. La cavalla, sentendosi sicura e intuendo l’incertezza della propria cavallerizza, corse stabilmente, concedendosi di saltare uno dei grandi falò dove i dothraki arrostivano la carne dei suoi simili.
Levy non ebbe paura nemmeno per un secondo, e quando la cavalla atterrò lei la diresse di nuovo dove il Khal l’attendeva, accarezzandole il fianco e sorridendo.
La cavalla si fermò ad un palmo di naso da Gajeel, che aveva uno sguardo divertito negli occhi e non arretrò di mezzo passo di fronte alla maestosa creatura. Sembrava fresca e riposata come se non avesse corso affatto, ma era Levy quella con il fiatone, scarmigliata e accesa d’adrenalina.
- Mi hai fatto dono del vento, Khal Gajeel – disse lei, guardando Lushi perché traducesse.
In risposta, Gajeel montò sul suo stallone, le fece cenno di seguirla, e galoppò via.
Ridendo, Levy lo seguì, dimentica di ciò che l’aspettava, dello sguardo deluso di suo fratello o del proprio aspetto. Vedeva solo la radura, la notte, la vita scorrere a velocità spettacolare di fianco a sé, lo stallone di suo marito macinare metro dopo metro, e udiva solo il vento, il calpestio degli zoccoli leggeri della sua cavalla e le urla di giubilo del suo popolo.
Mentre correva incontro alla notte, con la luna di fronte a sé, Levy pensò di correre fino a raggiungerla, fino a toccarla. Superò suo marito e si sentì felice per la prima volta nella sua vita.
Si sentì libera. Padrona di sé.
Con la sua nuova amica, avrebbe potuto conquistare il mondo.
 
Il Khal si fermò parecchio tempo dopo, in riva ad un ruscello ampio ma relativamente tranquillo sulle cui acque si riflettevano le luci della luna e delle stelle.
Gajeel scese, legò il suo cavallo ad un albero e gli accarezzò rudemente il muso prima di voltarsi verso Levy, che faceva trottare la sua puledra allegramente.
Il Khal le si avvicinò e allungò le braccia per farla scendere. Titubante, sentendo per la prima volta dall’inizio della cavalcata la morsa della paura attanagliarle il corpo, Levy si sporse verso di lui e si lasciò mettere a terra. Suo marito prese la sua cavalla e la legò accanto al proprio, per poi dirigersi verso il fiumiciattolo e lavarsi le mani.
Levy osservò, tesa, ogni suo movimento, temendo che ad ogni secondo si girasse e la puntasse come un lupo famelico. O uno stallone in calore.
Invece il Khal le lanciò solo qualche occhiata di sfuggita mentre toglieva le selle ai cavalli e prendeva stuoie e coperte che sistemò vicino ad un basso masso perfetto per sedersi. Fu solo a quel punto che si accomodò per terra, sul letto improvvisato, e fece cenno alla moglie di avvicinarsi.
Levy deglutì e costrinse i piedi ad avanzare, fino a sovrastare il marito. Poi si sedette sul masso di fronte a lui, ritrovandosi alla sua stessa altezza. Prima di rendersene conto, sentì le lacrime bagnarle il viso e vide un lampo di confusione attraversare gli occhi rossi del marito.
- No… - mormorò lui pacatamene, asciugandole le gote con le mani callose e ruvide, eppure gentili sul suo viso.
Le lacrime smisero di scendere subito, come obbedendo al comando del suo nuovo padrone.
- Tu parli la mia lingua? – gli chiese con la voce incrinata, sentendo una piccola speranza mettere radice nel suo cuore.
Gajeel la fissò con la stessa espressione di sempre, e Levy si chiese se fosse l’unica che conosceva. Stoica, impassibile, imperturbabile.
Apatica.
- No – le rispose con la sua voce graffiante e profonda.
– Sai solo la parola “no”?
- No – ribadì lui, portandosi la grossa treccia sulla spalla e iniziando a togliere le palline d’oro che vi erano incastonate.
- Penso che saper dire “no” sia già qualcosa… - mormorò Levy, allungando con titubanza una mano per aiutarlo.
Lui la osservò brevemente e poi tornò al suo lavoro. La giovane e inesperta moglie pensò che, forse, era un buon inizio il fatto che lui ancora non l’avesse fatta mettere a quattro zampe per prendersi la sua virtù e non solo. Forse non sarebbe stato così male…
Gajeel interruppe dopo poco la sua attività, lasciando a Levy il compito di sciogliergli la treccia e rimuovere i gioielli dorati. Lei se ne occupò lentamente e delicatamente, ma lui non diede mai segno di essere stanco o impaziente. La studiò come si studia una cosa nuova, a suo modo bella. Un tesoro. E Levy si sentì avvampare sotto al suo sguardo indagatore e pressante.
Quando i suoi capelli furono liberi, lei glieli accarezzò e glieli aprì con le dita, lisciandoli. Erano morbidi grazie all’olio, lucidi e neri come la pece. Si aprirono come un mantello quando lui se li gettò alle spalle. Il mantello di un re.
Levy si rese conto che, a modo suo, Khal Gajeel era bello. Una bellezza selvatica e naturale, come può essere bello un cavallo, un albero in fiore o un giardino. Era giovane, per sua grande fortuna, aveva sicuramente meno di trent’anni. La giovane età però lo rendeva più impulsivo, più aggressivo e fisicamente forte. Decise di non pensarci.
Gajeel la studiò in silenzio ancora un istante, e Levy abbassò gli occhi, pregando di non piangere ancora. Cosa sarebbe successo se lui l’avesse rifiutata? Suo fratello le avrebbe fatto passare esperienze peggiori della morte, ne era certa.
Gajeel le alzò il mento con due dita, costringendola a guardarlo negli occhi, e poi allungò le mani per spogliarla, senza mai lasciare che i suoi occhi si separassero.
Quando la mano delicata del marito le lasciò il mento per slacciarle la veste, Levy sentì la pelle entrare a contatto con la sua e rabbrividire. Gajeel le accarezzò le spalle e le braccia mentre le faceva scorrere la veste verso il basso, fino a scoprirle tutta la parte superiore del corpo. Continuò a guardarla negli occhi mentre le accarezzava il ventre e tracciava il profilo del suo seno, delicato come non avrebbe mai creduto fosse possibile.
Gajeel, il gigante rude e burbero, privo di emozioni, la stava trattando con più gentilezza di quella che si riserva ad un neonato. Le sue mani, audaci e decise, non erano mai invadenti o brusche, e lentamente la scaldarono dentro, mentre i suoi occhi le davano tranquillità.
Gajeel si spogliò da solo, togliendosi il gilè e la pesante cintura borchiata d’oro prima di levarsi anche le brache e rimanere nudo di fronte a lei, che sentì tornare l’ansia.
Se la trascinò addosso, facendola sedere sulle sue gambe incrociate, e avvicinò il viso al suo fino a far sfiorare le loro labbra. Gajeel inspirò il suo profumo a pieni polmoni mentre lei li metteva fuori uso, i polmoni. Le mise le mani sui fianchi e le sfilò lentamente il resto del vestito dalla testa, trovandosela nuda addosso.
Solo quando fu completamente esposta e l’incantesimo delle sue mani fu rotto, Levy avvampò di vergogna e cercò di coprirsi. Ma lui fu deciso nel rimuoverle le mani dal corpo. Non doveva coprirsi davanti a lui: lei gli apparteneva, era sua, e lui poteva fare ciò che voleva di lei.
Ingoiando la paura, Levy lo assecondò e allontanò le proprie braccia da se stessa, stupendosi ancora di quanto potesse essere delicata la sua presa stritolatrice.
Ad un soffio dalla sua bocca, con la sua barba corta che le solleticava la pelle, Gajeel le chiese: - No?
Levy sapeva che la sua era una domanda. Un permesso. E le venne da piangere ancora, ma questa volta di commozione. Pensava che l’avrebbe posseduta appena si fossero allontanati, con la furia di un toro e la delicatezza di un bue. Invece, era stato quasi romantico con lei, dolce e paziente. Mai avrebbe pensato che le avrebbe addirittura chiesto il permesso di prendersi ciò che di diritto gli spettava. Perché il suo corpo era suo, poteva farne quello che voleva.
Chiudendo gli occhi, implorando il sangue di drago che le scorreva nelle vene di darle la forza di essere coraggiosa, Levy rispose: - Sì.
Poi lo baciò con trasporto e gli accarezzò il viso e i capelli mentre guidava le sue mani lì dove lui attendeva di andare.
Non fu facile, e nemmeno piacevole, ma Levy non si sentì dilaniare in due, non ebbe voglia di gridare il suo dolore o piangere la sua infelicità. Si avvinghiò a lui come ad un’ancora di salvezza, e si meravigliò quando sentì il suo corpo abituarsi pian piano alla sua presenza, quasi prendendo confidenza con lui. Gajeel la tenne stretta a sé, accarezzandole la schiena e cercando in qualche modo di rasserenarla, cosa di cui Levy fu grata.
Quando ebbe finito, Gajeel continuò a stringerla e accarezzarla, baciandola con calma e dolcezza, per poi sdraiarsi insieme a lei e coprire entrambi con una spessa pelliccia.
Si addormentò subito, lui, con un braccio sul suo ventre e la testa accanto alla sua spalla, mentre lei osservava il cielo terso e la luna che splendeva tranquilla.
Quando si addormentò, l’ultima cosa che pensò fu che, finché la luna avesse brillato così fulgidamente nella sua vita, le cose non sarebbero potute andare male.



MaxB
Salve... so di avere ancora due storie da continuare (LNVI da finire, Fairy Tales... be', una fine non ce l'avrà finché sarò viva), ma questa nuova idea mi ha dato una grande carica e non potevo semplicemente accantonarla.
Principalmente penso che Gajeel e Levy verranno sostituiti a film Disney, tipo Mulan e Shang nel prossimo capitolo, ma rifletterò anche su come sostituirli a personaggi di libri  e altri film che non siano cartoni, o videogiochi come in Uncharted (amo ç.ç).
Comunque, sono aperta anche alle vostre proposte, se anche voi a volte avete pensato: "Mi ricordando un po' Gajeel e Levy...".
Non vi garantisco che seguirò i vostri suggerimenti (scusate, se una cosa non mi convince faccio una schifezza, non volontariamente), ma tentar non nuoce.
Vi ringrazio per essere arrivati fin qui e, be', spero che vi piacciano le storie^^
A presto!
MaxB
  
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