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Autore: Sea    27/04/2017    1 recensioni
Non sempre le cose vanno come ci aspettiamo e Sara ed Edward lo sapevano bene. Nulla di tutto ciò che avevano immaginato prima di incontrarsi si era avverato, la vita aveva superato di gran lunga le loro aspettative. Non credevano che avrebbero potuto provare davvero la felicità, eppure…
Eppure, non sempre le cose vanno come ci aspettiamo. Non sempre, al mattino, ci svegliamo nello stesso letto, nella stessa vita in cui credevamo di essere. Non sempre siamo le persone che gli altri credono di conoscere. Non sempre il senso che diamo alle cose, le verità da cui dipendiamo, sono corrette.
A volte la vita ci costringe a ricominciare da capo.
Edward e Sara, i protagonisti di Afire Love, dovranno varcare il sottile confine che separa i sogni dalla realtà ed intraprendere un nuovo viaggio. Di una sola cosa sono certi: comincia una nuova vita.
«Si portò una mano al petto, sperando di contenere il dolore, ma non servì.
Scoppiò in lacrime non appena Edward cominciò a cantare: Loving can hurt…»
Il sequel di Afire Love cambia scenario e si ambienta nella...realtà.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I



 

A Nirai1235.

Ai nuovi inizi.









Il cuore le martellava nelle orecchie e non sentiva che quello, le voci ormai soffuse e lontane. Sentiva, ma non ascoltava. La mente era sospesa nel vuoto.
Gli occhi del suo fidanzato, svuotati dalla sua stessa consapevolezza, le mettevano un’angoscia senza limiti ed avevano un unico e solo significato: aveva sognato.
La sua vita era tutto d’un tratto un’enorme bugia. Non ricordava come fosse finita in ospedale, ma di lui si ricordava eccome. E se era Dario la sua realtà, se era lui l’ultimo con cui aveva fatto l’amore, l’ultimo che aveva baciato, l’ultimo a cui aveva promesso il suo cuore, allora tutto ciò che credeva fosse vero era soltanto una menzogna. Edward, il loro incontro, la loro storia, il loro matrimonio. Il sesso. Tutto quello non era mai accaduto? Tutto l’amore e la sofferenza e le gioie e i viaggi non erano mai esistiti. Lei, la persona che sapeva di essere, non esisteva. Edward, suo marito, il dolce e tenero Edward non era mai entrato nella sua vita.
Il peso di quella verità fu troppo difficile da sostenere e dentro, nella sua anima, le impalcature cominciarono a crollare. Dario sembrò leggere nei suoi occhi, aprendo la bocca in segno di sconvolgimento, ma non disse una parola.
Lui era il suo vero fidanzato. Quella era la realtà.
Si portò una mano alla bocca, bagnandosi le dita con le lacrime. Non potevano sapere cosa stesse accadendo nella sua testa, il suo dolore non faceva rumore, ma nel profondo della sua anima si era formata una crepa così profonda che tutte le sue lacrime non sarebbero mai bastate a riempirla. In un momento aveva perso la sua vita, la sua felicità, la sua identità. Chi era lei, a quel punto? Perché doveva accaderle questo? Perché l’amore della sua vita, l’unico uomo che avrebbe mai amato, doveva essere solo un sogno? Un sogno! Durante il coma!
Anna accarezzava la mano di sua figlia con sguardo impietosito e Sara la guardò, ritirando improvvisamente la mano, in un tentativo disperato di credere che tutto quello fosse un’illusione. Il calore delle mani di sua madre era così reale da bruciarle la pelle.
Sentiva l’aria che respirava come una cosa ripugnante e la forza di gravità come un pugno nello stomaco.
Sua madre la guardò, turbata dal suo comportamento, ma non vedeva che stava piangendo? Non capiva cosa stesse accadendo?
  • Tesoro, non-
  • NO! – urlò, risvegliando la sua voce – Lasciatemi stare!
  • Sara, calmati. – Dario si avvicinava al suo letto. – Siamo tutti qui, stai bene.
  • No… - sussurrò, più a se stessa che a loro, mentre si ritraeva sul letto, muovendosi nonostante i muscoli doloranti per la prolungata immobilità. - …andate via.
La guardarono come se fosse pazza. Non capivano che dal momento in cui aveva aperto gli occhi la sua vita era finita, non contava più nulla. Era inutile vivere senza Edward. Era inutile.
  • Signora, forse è meglio se ci lasciate soli. – disse il medico, il primo di cui aveva ascoltato la voce. Lo guardò, pregandolo con lo sguardo.
  • Ma dottore, abbiamo aspettato per mesi. – tentò Dario, ormai davanti a lei. – Posso restare almeno io?
  • NO! – urlò ancora, senza più avere il controllo di sé.
Tremava, seduta su quel letto scomodo, mentre delle mani cercavano di afferrarla. Non voleva nessuno, nessuno. Tutto quello era solo un incubo, Dario non esisteva.
  • Lasciate la stanza, per favore. – il dottore li invitò di nuovo ad uscire, prendendo il braccio di Anna e guidandola fuori, avendo fretta di tranquillizzare la paziente.
Non appena fecero il primo passo verso la porta si tranquillizzò, quasi quelle persone – che poi erano sua madre e il suo fidanzato – volessero portarla via per sempre. Dario continuò a cercare i suoi occhi, ma Sara era troppo distratta dal cercare la fede intorno al suo dito. Quando lasciarono la stanza e rimase sola con un secondo medico, quello le fece delle domande che non ascoltò. Riusciva soltanto a guardare il suo anulare, cercando con le dita qualcosa che non c’era. Poteva un’anima disintegrarsi? Lei credeva di sì, perché la sua si era distrutta in un attimo. Le lacrime bagnavano le lenzuola e si seccavano sulle sue guancie.
Non appena gli intrusi furono fuori, il medico le mise una mano sulla schiena e cominciò a massaggiarla. Finalmente lo guardò: un uomo giovane, capelli scuri e barba, lo sguardo luminoso e tranquillo di un trentenne. La mano calda le carezzava la schiena in modo circolare, eppure non riusciva a smettere di tremare. Tantomeno di avere paura.
  • So che sei spaventata, ma se provi a tranquillizzarti vedrai che le cose saranno più chiare.
Voleva rispondere e dirgli che non era pazza, che suo marito non esisteva più, che la sua vita era finita. Come se fosse morta e fosse in un'altra dimensione.
La paura che provava non era insensata e ancora doveva pensare a cosa avrebbe fatto da quel momento in poi, poiché l’unica sua preoccupazione, in quell’istante, era Edward. Che non c’era più. Si chiese se il medico o chiunque altro riuscisse a immaginare cosa stesse provando, se qualcuno avrebbe mai provato a comprendere il suo dolore fino in fondo. Lo sguardo dell’infermiera che le metteva la mascherina per aiutarla a respirare, le diede la risposta che cercava. I suoi occhi erano pieni di pietà e spavento. La paziente pazza credeva di essere sposata con un uomo splendido, peccato che non esistesse.
Per un attimo guardò in quegli occhi e non vi trovò alcuna comprensione, solo diffidenza e ribrezzo. La mano del medico continuava a sfregare sulla sua schiena e Sara cominciò a guardarsi meglio intorno, perché il dubbio che stesse ancora dormendo le sussurrava qualcosa all’orecchio, come se quello potesse essere solo un incubo. Le pareti della stanza quadrata erano bianche e sporche, il suo era l’unico letto e accanto al materasso c’erano diversi sgabelli, ora vuoti. Su uno di quelli, riconobbe la borsa di sua madre e il cappotto di Dario. Un altro conato.
Il filo della flebo era vecchio e ingiallito e il neon acceso sfarfallava di tanto in tanto. L’ossigeno puro che le entrava in gola le seccava le labbra, ma non riusciva a farla stare meglio. Per forza. Tutto quello non era vero, stava sicuramente sognando, per quello non smetteva di tremare mentre iniettavano il tranquillante nella sacca.
Il rumore di un clacson, proveniente dalla finestra socchiusa, la fece scattare e il medico sembrò spaventarsi al suo movimento improvviso. Fece intendere all’infermiera di chiudere la finestra.
  • Ti senti meglio? – le chiese.
Lo guardò e nei suoi occhi vide il suo riflesso. Finalmente lasciò stare il suo anulare e si portò entrambe le mani alla testa. Al suo matrimonio aveva i capelli lunghi, ma quando le dita toccarono le spalle, non trovarono altro se non il camice dell’ospedale. Abbassò lo sguardo su di sé e sentì la gola stringersi, mentre faceva salire le mani lungo il collo. Si fermò soltanto quando sentì i capelli all’altezza della mascella. Gli stessi capelli di quando aveva conosciuto Edward, quel giorno in città.
Forse glieli avevano tagliati, per facilitare le cose.
Un singhiozzo lasciò le sue labbra, troppo ferita dalla realtà.
Mentre si guardava le gambe, alla ricerca di un indizio, fece scivolare le mani fino alla fronte, ma aveva paura. Se la sua cicatrice non fosse stata lì, sarebbe potuta morire sul colpo. Mentre la mascherina si appannava ai suoi sospiri, strinse gli occhi e i denti, pregando Dio che quel dolore non la uccidesse, che quella non fosse la sua vita. Sentì le sopracciglia sotto le dita, poi la fronte e alla fine l’attaccatura dei capelli. Lì, dove quella ragazza l’aveva colpita con quella mazza, non c’era alcun segno.
Si pietrificò, sospendendo il respiro. Con la bocca aperta, l’aria la lasciava lentamente, fino a restare sospesa tra le sue labbra. Lo sguardo fisso nel vuoto, puntato nel nulla. Le mani che formicolavano.
Il dolore.
Le faceva male il cuore.
Aiuto. – pensò – Aiutatemi.
Non pensava a sua madre. Non pensava a Dario. Non pensava alla sua vita o a cosa stesse accadendo. Non sentiva la voce del medico o il rumore delle auto. Non sentiva l’ossigeno freddo uscire dalla bombola.
Vedeva soltanto la parete, bianca davanti a sé. Quello che vi vedeva sopra era tutto ciò che sapeva.
Qualcuno avrebbe potuto dire che quello fosse il giorno in cui la sua vita ricominciava, ma chi se ne importava. Quella non era la sua vita, non sapeva niente della ragazza che conoscevano.
Quello era il giorno in cui la sua vita finiva.

 
***
 
 
Il sedativo doveva essere davvero potente poiché, quando riaprì gli occhi e la luce non glieli ferì, si rese conto che fosse sera inoltrata. Per un attimo, mentre la coscienza tornava a funzionarle, aveva creduto di aver sognato e che Edward fosse steso accanto a lei, ma il colore smorto del soffitto le ricordò ogni cosa. Il dolore che sentiva al petto non tardò ad acuirsi, sempre più intenso di secondo in secondo.
Guardandosi intorno, riaprendo del tutto gli occhi, notò prima la sua cena – sicuramente fredda – posata sul mobile di fianco al letto e subito dopo, inaspettatamente, la figura silenziosa di Dario, che se ne stava col fiato sospeso sullo sgabello dall’altro lato del suo letto. Inalò rumorosamente l’aria, cercando di mantenere il controllo, ma la sua espressione doveva essere troppo eloquente. Sentì gli occhi divenire immediatamente lucidi, mentre lui faceva una smorfia di delusione. Aveva i capelli arruffati, contrariamente al solito. Il ciuffo che portava a destra, normalmente curato e della giusta lunghezza, era riportato verso l’alto, forse per qualche tic dovuto all’agitazione. Sotto ai suoi occhi scuri, due macchie violacee segnalavano la mancanza di sonno e sulle sue guancie, due lievi rientranze indicavano la scarsità di nutrimento. Nonostante ciò, nonostante le spalle curve, indossava una delle sue 40 camicie. Ricordare quel dettaglio e notare la familiarità della cosa, le fece voltare il viso dall’altra parte. Sara strinse le lenzuola tra le dita. Voleva restare sola.
  • Ciao, amore. – la cadenza napoletana fu un pugno nello stomaco.
Non rispose e perseverò nella sua osservazione dello spigolo del vassoio che sporgeva dal mobile, ancora distesa. Una lacrima scivolò sul cuscino.
  • Non ti ricordi di me? – chiese lui quasi in un sussurro, colpendola ancora, come se non fosse già abbastanza ferita.
Avrebbe voluto rispondere di no, mentre cercava di controllare il respiro. Calò il silenzio e pregò che andasse via presto. Non riusciva nemmeno a sentirsi in colpa per quel comportamento, nemmeno un piccolo rimorso, perché come si permetteva lui di piombare nella sua vita e pretendere il posto di Edward?
E fu allora che la realtà la investì definitivamente e strinse gli occhi, pregando che qualcosa cambiasse. Pregando che Edward esistesse.
  • Lei non può stare qui. – la voce ferma di una donna rimbombò nel silenzio della stanza. – La sta turbando. Esca, per favore.
Aprì gli occhi e una donna in camicie bianco, gli occhi velati da un paio di occhiali dalla montatura sottile e i capelli raccolti con una matita, superava l’ingresso e si avvicinava a lei, guardando Dario con sguardo severo e intransigente. I capelli color caramello le ricordavano una certa tonalità delle foglie di Central Park in pieno autunno.
  • Volevo solo parlare con lei. – rispose lui, quasi scocciato che i medici lo tenessero lontano, ma era troppo cieco per rendersi conto che lei voleva lo stesso.
  • Esca. – ribadì la donna.
Di scatto, Dario si alzò facendo stridere lo sgabello contro il pavimento. Sara continuava a non guardarlo, ma avrebbe scommesso la sua salute mentale che lui la stesse fissando. Riprese a respirare solo quando i suoi passi furono troppo lontani per essere sentiti. Allentando la stretta sulle lenzuola, il sangue riprese a circolare.
Durante quegli istanti di silenzio si sentì quasi desolata, la sua parte razionale si sentiva in dovere di giustificare quel suo infantilismo, poiché era sicura che agli occhi degli altri quel suo atteggiamento sembrasse solo un capriccio. Lo leggeva nelle iridi di sua madre, nell’indifferenza delle infermiere. E questo, proprio questo, la feriva. Proprio questo le faceva desiderare di richiudere gli occhi e far finta di non essersi mai svegliata, dimenticare che esiste una realtà oltre gli occhi di Edward.
Quel nome continuava ad echeggiare in quella stanza, mentre un flusso infinito di ricordi – di fantasie – si ripresentava ai suoi occhi. Riusciva a sentire la sua voce nella mente.
  • Non sei pazza. – un lieve tono di comprensione la riportò indietro. – So cosa significa.
Voltandosi, riuscì a vederla accomodarsi su uno sgabello, di fianco a lei. Le braccia poggiate sulle gambe stanche, un sospiro.
  • Anche a me è capitato, anni fa. – la guardava, ma senza fissarla. Anche i suoi occhi castani, dietro alle lenti, vagavano nella stanza spoglia alla ricerca di un appiglio. – Dopo un incidente, sono stata in coma per quasi due anni. Quando mi sono svegliata, la mia famiglia non era più la mia famiglia. Quindi capisco.
Si era girata lentamente sul fianco, senza quasi accorgersene, incantata dalle parole della persona che aveva davanti, unico anestetico al suo dolore, unica certezza che non fosse pazza. La prova che non fosse l’unica della sua specie. Si strinse di più nel lenzuolo, senza riuscire a non paragonarlo a quelli morbidi degli hotel in cui aveva alloggiato con Edward. O almeno, credeva di averlo fatto.
La sensazione dell’anulare nudo le punse il cuore.
  • C-com’è possibile? – blaterò, quasi involontariamente. Quella non cambiò espressione.
  • Vuoi che ti spieghi cosa è accaduto? – chiese lei, lasciandole intendere che avesse capito la sua esigenza di non incontrare i familiari. Quando Sara annuì debolmente, lei continuò. – Sei svenuta improvvisamente durante un esame, all’università, circa 9 mesi fa. Hai battuto la testa e non ti sei più svegliata. Il trauma che ti ha provocato il coma fortunatamente non era troppo grave, per questo ti sei svegliata.
Immobilizzando lo sguardo su di lei, Sara mise il cervello in stand-by, cercando di ricordare qualsiasi dettaglio di quell’evento, ma nel suo archivio non c’era assolutamente nulla. Proprio come alla conferenza stampa con Ed, anche di quella volta non ricordava niente. Sempre che fosse accaduto. Non ne era più certa. Tremava, sperando che lei non se ne accorgesse.
  • Non te ne ricordi, immagino.
  • Che giorno è? – improvvisamente realizzò di non essere sicura della propria età. – Chi è lei?
  • Io sono Olga, la psicologa di questo reparto e oggi è il 3 Ottobre 2014.
Aveva sognato 4 anni della sua vita.
Ripercorse i suoi finti 26 anni, i suoi compleanni con gli amici, con la famiglia di Edward. Ricordava l’odore del fumo che rilasciano le candeline subito dopo averle spente, il sapore della torta alla nocciola. Edward sapeva che adorava la nocciola.
Eppure, il viso di quella donna era così disteso, nitido, certo che quella fosse la data giusta. La psicologa del reparto.
  • Lei non vuole convincermi che mio marito non esista. – le disse, guardandola dritto negli occhi, lasciando trasparire tutta la sua paura. Era una persona rassicurante.
  • No. Il mio unico ruolo qui, è quello di supporto. Non voglio convincerti di niente.
Guardò le sue mani che si intrecciavano, mentre si rendeva conto di avere ancora 22 anni. Era ancora una bambina. E non era nessuno.
Non era niente di ciò che credeva di essere.
  • Un giorno, capirai.
 
***

 
4 Ottobre 2014


Anche quella mattina, quando si era svegliata, aveva dimenticato cosa fosse accaduto, come se la sua memoria cercasse di non immagazzinare le ultime informazioni. Il suo inconscio stava cercando di proteggerla da quell’incubo che le portava via l’aria. Con gli occhi ancora chiusi aveva cercato di ascoltare l’ambiente, di cercare un indizio che le desse la sicurezza che fosse nel luogo in cui voleva essere: a letto con Edward, pronta per un nuovo giorno insieme. Nessun Dio poteva essere tanto crudele da privarla di quella gioia, eppure…
Quando aprì gli occhi, il soffitto smorto la fissava ancora e il vociare lontano dei medici e degli infermieri la atterrì di nuovo e con la stessa intensità del giorno precedente. Realizzò che solo 24 ore prima si era risvegliata da un coma e che quella era stata la sua prima notte senza sogni. Si chiese, guardando la flebo, quanto tranquillante le stessero dando, perché era impossibile che fosse riuscita a dormire così serenamente se al solo risveglio si sentiva così male.
L’orologio segnava un orario che non riusciva a distinguere. Eppure avrebbe dovuto sapere che non poteva leggere l’orologio, gliel’avevano detto i medici dopo il suo primo coma a New York. Ed ecco un altro schiaffo in pieno viso. Ogni cosa che la circondasse le ricordava Edward, la sua vita e tutto ciò che aveva perso risvegliandosi. Quella mattina affermò a chiare lettere, a se stessa, che non voleva vivere. Che quella vita fosse inutile. Che non voleva famiglia o medicine, desiderava solo chiudere gli occhi e ritrovare la pace che aveva perduto.
  • Buongiorno. – la voce di un uomo, probabilmente il medico, la fece voltare. – Come ti senti stamattina? – Le sue mani finirono sulla cartellina attaccata ai piedi del letto. – Sembra che le analisi siano perfette. Molto presto potrai uscire e tornare a casa.
  • Dov’è la dottoressa…quella con gli occhiali?
Quello la guardò, probabilmente non aspettandosi di sentire la sua voce così ferma. Per un attimo aggrottò lo sguardo, non capendo a chi si stesse riferendo.
  • La donna che ieri sera è entrata nella mia stanza.
  • Oh! – sembrava che avesse compreso. – La dottoressa Olga. Credo che la vedrai dopo pranzo.
  • Voglio vederla ora.
  • In questo momento è impegnata con un altro paziente, non appena si sarà disimpegnata la farò venire da te.
  • Quando?
Non sapeva come riuscisse a rivolgersi a lui in quel modo. Il giorno prima era stato gentile con lei, ma non riusciva più a ricordare cosa fosse la gratitudine.
  • Non appena potrà. Non posso darti un orario preciso.
E poi, tanto, non poteva leggere l’orologio. Non aveva alcuna cognizione del tempo che passava ed ogni cosa sembrava confusa. Era ancora stordita da quella roba. Quando il giovane dottore si congedò, l’infermiera la informò con freddezza che fosse l’orario delle visite e che a breve i suoi genitori sarebbero entrati.
  • Non voglio vederli. – disse di scatto, prima che anche lei andasse via. – Gli dica che sto male, si inventi qualcosa. Non voglio vedere nessuno.
La donna di mezza età la guardò con espressione atona, non si curò di risponderle e richiuse la porta. Certo che le infermiere erano molto più gentili a New York.
Il primo conato di vomito della giornata.
Non dovevano essere passati molti minuti che qualcuno bussò alla porta e senza aspettare di ricevere il permesso, i suoi genitori fecero il loro ingresso.
  • Ciao, tesoro.
La voce di sua madre la fece rabbrividire fino a farle stringere i pugni intorno alle lenzuola. Non aveva detto a quella stronza che non voleva vedere nessuno?
Subito dietro di lei, suo padre – gli occhi azzurri di sempre – avanzava molto più cauto e prudente. Forse lui era l’unico che si curasse davvero dei suoi sentimenti, lo capiva dal modo in cui restava accanto alla porta, attendendo che il suo sguardo gli desse l’ok per avvicinarsi. Il ricordo del loro rapporto le fece inondare gli occhi di lacrime.
Mentre cercava con tutta se stessa di ripudiare quel barlume di dolcezza, sua madre era già seduta accanto a lei, tesa come la corda di un violino e impaziente di toccarla. Le sue mani a momenti si avvicinavano al suo braccio, per poi tornare subito indietro.
  • Come ti senti? Hai dormito bene?
Si vedeva che non aveva dormito e che l’esasperazione la stesse divorando, ma non si sentì in colpa a guardarla in modo truce. Quel suo istinto di differenziarsi da lei, dopo il coma si era solo rinforzato. Sentiva repulsione. Ai suoi tentativi di essere dolce, Sara non sapeva rispondere se non con il silenzio. Era una buona madre, ma non riusciva ad accettarla più. Lei era l’emblema di quella realtà che non voleva vivere.
Continuò a guardarla e non parlò, mantenendo la stretta sulle lenzuola. Non urlava soltanto perché non voleva far spaventare suo padre.
  • Dario – e a quel nome la sua pazienza arrivò ad un limite. – vorrebbe venire a trovarti, ma non glielo permettono.
Ancora, non rispose. Suo padre la osservò per tutto il tempo in cui sua madre cercò di rivolgerle la parola e ad ogni suo silenzio guardava l’orologio. La stava studiando. E lo stava facendo per un motivo preciso.
  • Vedo che hai ricevuto visite. – il suo medico rientrò d’improvviso nella stanza, l’espressione serena e quasi indifferente al suo stato d’animo. – Bene, signori, Sara è in ottima forma. Sta così bene che potrebbe uscire oggi stesso. Sono clinicamente due settimane che non presenta alcuna alterazione, è pronta per andare.
Sara non sentì la voce di sua madre farsi allegra, perché un fastidioso fischio le riempiva le orecchie mentre ascoltava le parole di quel traditore. Lui, l’infermiera, i suoi genitori, tutti traditori. Non poteva accettarlo. Non poteva tornare a casa. Non era pronta nemmeno a lasciare il suo letto, figuriamoci lasciare l’ospedale. Non si accorse che il medico le stava mettendo la mascherina per l’ossigeno, lo capì soltanto quando sentì le sue dita fredde che le sentivano il battito sul collo. Sentì il rumore del suo respiro strozzato e comprese che doveva aver avuto una reazione fisica alla notizia, ma era come se ogni parte del suo corpo fosse anestetizzata. Anche la sua anima.
Il disperato tentativo di immunizzarsi alla verità.
Quando una voce decretò che l’indomani avrebbe lasciato l’ospedale, la reazione del suo corpo la colpì in pieno. Mentre sua madre la guardava, la vista le si appannò, si sentì soffocare e un conato di vomito la costrinse a sporgersi dal letto.
Lo stridere delle sedie e il rumore della porta giunsero così ovattati che non sapeva nemmeno se fossero reali. Quando riuscì a riprendere fiato, ebbe qualche secondo di lucidità, poi più nulla.
Molte ore dopo si svegliò di soprassalto, come quando hai la sensazione di precipitare, ma non era quello il motivo che l’aveva fatta scattare al centro del letto, nonostante il torpore che avvolgeva ogni suo muscolo.
Aveva sentito la voce di Edward cantare.
Quando la stanza fu a fuoco, vide una luce gialla e soffusa illuminare le pareti, colorandole, e voltandosi verso la fonte del suono trovò soltanto uno stereo e la dottoressa Olga che tendeva una mano verso di lei. Crudele illuderla in quel modo.
Alternò lo sguardo tra lei e lo stereo per convincersi che non fosse un sogno, finché lei non parlò.
  • Avevano paura che rientrassi in coma, così sono corsa subito qui. – il suo sguardo era dolce. – Non volevi svegliarti, così…
Interruppe Thinking Out Loud schiacciando un tasto.
  • No! – il suo respiro era tormentato, la sua voce troppo flebile. – Ti prego, non-
Non ebbe bisogno di continuare che lei aveva già schiacciato il tasto play e la voce di Edward si diffuse nella stanza, dolce come la ricordava. Il ricordo di lui in ginocchio davanti a lei funse quasi da anestetico. Olga la spinse gradualmente a ridistendersi e a tornare a respirare regolarmente.
Prendevano insieme lunghi respiri e poi lasciavano andare l’aria lentamente. Durante quell’esercizio, per la prima volta Sara sentì il petto alleggerirsi, come se fino a quel momento non avesse mai smesso di correre. Ad un certo punto cominciò a cantare, seguendo la canzone, la sua voce ancora roca e distorta dopo i lunghi mesi di silenzio. Olga le porse la custodia del cd e glielo lasciò tenere tra le mani.
  • Devo dire che ha davvero una bella voce, non stento a credere che ti sia innamorata di lui. – commentò lei, con una tranquillità disarmante.
  • Trovi anche tu? – e…sorrise.
  • Posso fare in modo da lasciarti lo stereo, se vuoi. Il dottore mi ha detto che prima non ti sei sentita bene.
  • Io… - Sara aggrottò le sopracciglia, poi vide la sua postura rilassata e si tranquillizzò. Si sentiva quasi una bambina in balia di tutto ciò che percepiva. - …non voglio tornare a casa.
  • Lo avevo immaginato. Anche per me è stato così, è stato difficile tornare alla normalità.
  • Non è possibile rimandare? – si portava in posizione fetale e schiacciava il viso nel cuscino, con la speranza di sentirsi confortata.
  • Purtroppo no, la lista d’attesa per i ricoveri è troppo lunga per tenerti qui. Lo so che non sei pronta…
Olga, che non vedeva altro che una ragazza spaventata, passò la mano sul suo capo, sentendo i capelli stopposi sotto il palmo, rovinati dalla lunga permanenza a letto. Era vero che ci era passata anche lei, ma non era stato così difficile come le raccontava, perché i suoi sogni non erano stati così nitidi come sembravano essere stati quelli di Sara. Aveva fatto presto a imparare ad amare di nuovo i suoi cari, mentre invece lei sembrava essere stata più felice durante il coma che nella realtà. Era ovvio che prima o poi avrebbe dovuto affrontare quel momento, purtroppo per lei era arrivato molto presto. C’erano persone che necessitavano di quel letto.
  • …ma devi farlo. Potrai venire qui tutti i giorni, se avrai voglia di parlare, ma devi andare. – Comunque, non stava fingendo. Era sincera, proprio come cercava di essere con tutti i pazienti…quando poteva.
  • Non voglio… - Sara si portò una mano al viso, per nascondere le lacrime. One cominciava a risuonare.
  • Perché non troviamo insieme un modo di affrontare la cosa? – accavallò la gamba, cercando di infonderle un po’ di coraggio.
  • Come? – la voce soffocata dal cuscino.
  • C’è qualcosa che ti fa stare bene?
  • Se crede che possa smettere di pensarci, può anche andarsene.
  • Non ho detto che devi smettere di pensarci, ma deve pur esserci qualcosa che ti aiuti ad evitare una crisi come quella di stamattina. – lentamente gli occhi della sua paziente, già gonfi per le lacrime, facevano capolino tra le sue dita. La custodia del cd ancora stretta al petto.
  • Qu…quell’esercizio era utile. – borbottò, mentre cercava di regolarizzare il respiro. Non voleva vomitare di nuovo.
  • Bene, quindi posso insegnarti come farlo. Qualche altra cosa? – intanto appuntava qualcosa sulla sua cartellina. – Ti dispiace se tolgo il camicie? È veramente insopportabile.
Sara annuì, trovando che la sua strategia d’azione – per quanto chiaramente calcolata – fosse estremamente rilassante. Non le faceva dimenticare il nodo alla gola che impediva alla sua disperazione di sgorgare incontrollata, ma almeno riusciva a non sentirsi una pazza. Comprensione, era tutto ciò di cui avesse bisogno e Olga riusciva a fornirgliela nella giusta dose, come una droga.
  • L-la sua voce. – le rispose allora, riferendosi chiaramente a quella di Edward. – E parlare con lei.
  • Oh. – disse sedendosi di nuovo. – Non ti da fastidio che io sia una psicologa?
La guardò intensamente negli occhi castani, riflettendo sulla sua domanda. Avrebbe dovuto provare astio verso qualcuno che si trovava lì perché altri la ritenevano pazza, ma per sua fortuna non era così. Si sentiva altamente instabile, pronta ad esplodere da un momento all’altro, ma lei sembrava essere dei buoni.
  • Mi sembra innanzitutto una persona. – sussurrò allora, sperando che lei capisse cosa volesse dire.
Tuttavia, Olga si limitò a sorriderle e a proseguire la conversazione. Non poteva farsi coinvolgere troppo dai problemi dei pazienti, non poteva essere loro amica, anche se loro credevano che lo fosse. Avrebbe tenuto Sara in cura fino a che non avrebbe potuto cavarsela da sola, dopodiché l’avrebbe lasciata per dare il posto a qualcun altro che ne avesse bisogno. Esattamente come per il suo posto in ospedale. Cercò di interessarsi dei suoi gusti, delle sue passioni, di capire se fosse pronta a raccontarle i suoi sogni, per poi prenderli e gettarli nel dimenticatoio.
Parlarono senza sosta delle canzoni che stavano ascoltando e del giorno in cui Sara aveva ascoltato per la prima volta una canzone di quel cantante. Olga riuscì a vedere la spiaggia su cui, tre anni prima, Sara era stesa con una delle cuffie della sua amica all’orecchio. Aveva sentito l’umidità della sabbia e visto la luce delle stelle. La sua descrizione fu così dettagliata che si chiese se un’attività ricreativa come la scrittura o la pittura non facesse per lei.
Durante la cena, Olga rimase ad ascoltarla, aiutandola ad ignorare quel purè di patate che proprio non le scendeva. Un’infermiera era rimasta nella stanza, dato che quella era la prima volta che mangiava dopo nove mesi e non poteva essere lasciata sola. Abbastanza presa dal suo racconto, riuscì a mandarne giù tre cucchiai. Non dovette nemmeno alzarsi per andare al bagno, dato che aveva ancora il catetere, così lasciò che migliaia di parole uscissero dalle sue labbra, finché il suo cellulare – lasciato sul comodino da sua madre – non prese a squillare. La parola “Papà” si stagliava su una foto di suo padre, facendola troppo bruscamente tornare con i piedi per terra.
  • Puoi rispondere tu? – pregò Olga con lo sguardo.
  • Non posso, mi dispiace. Devi farcela da sola. Affronta la paura. Io resto qui. – lei stessa le porse il telefono tra le mani.
La vibrazione sembrava decine di volte più forte di quanto ricordasse e la nausea le faceva salire la cena alla gola. Il sapore acido già le disturbava la bocca, ma rispose. Respirò a fondo, fissando gli occhi in quelli di Olga, e portò il telefono all’orecchio. Per un solo istante, sperò di sentire la voce di Edward.
  • U-uhm… - non ci riusciva.
  • Ciao, amore di papà. Stavi dormendo?
Era sicura di aver parlato con suo padre giusto l’altro ieri e invece non sentiva la sua voce da 9 mesi. Quell’improvvisa consapevolezza infranse il muro che aveva alzato anche con lui e non riuscì a frenare il pianto. Singhiozzò, con la mano sugli occhi, per nascondersi.
  • Tranquilla, domani vengo a prenderti. Ci guardiamo un bel film sul divano.
Annuì, sicura che lui non avesse bisogno di vederla per sapere che lo stesse facendo.
  • Va bene se porto anche mamma?
  • No. – riuscì a dirlo in un sospiro.
  • Va bene. Allora vengo da solo. – la sua voce era tranquilla. – Riposati. A domani.
Attese che chiudesse la telefonata. Le sembrò di aver parlato per ore.
Rimise da sola il telefono sul tavolo vicino, con ancora qualche difficoltà dovuta alla lunga immobilità, poi si voltò ancora verso Olga, sentendola alzarsi.
Doveva tornare a casa anche lei, il suo turno era finito, ma le assicurò che si sarebbero viste l’indomani mattina, per affrontare insieme le dimissioni.
Prima di andarsene, le posò una mano sul braccio e le lasciò lo stereo e la lampada accesi.
Quando rimase sola, fissò il soffitto ascoltando l’intero cd, finché non la costrinsero a spegnere lo stereo e da quel momento tornò ad avere di nuovo paura. Il silenzio quasi la divorava e l’ansia persisteva nel suo petto, quasi facendole male. Si rese conto che non aveva altra scelta. Non c’era un’alternativa a quella vita.
Quasi non importava cosa avrebbe dovuto affrontare fuori di lì, il fatto che avesse una famiglia e un fidanzato non avevano alcun peso, perché la peggiore delle sorti – quella che aveva sempre temuto – si era già realizzata. Doveva convivere con la perenne assenza di Edward e non aveva alcun modo di contrastare quella verità.
Lui
non
esisteva.











Note dell'autrice:

Pubblico il primo capitolo di questa lunga e complicata storia - che ancora devo scrivere - perchè ho perso una scommessa. Infondo ne sono felice (di aver perso la scommessa o di aver pubblicato il capitolo, non lo saprete mai).
La trama di questo sequel è già del tutto delineata e la amo in modo particolare, deve solo essere messa nero su bianco. Spero che tra lavoro e studio riesca a riprendere a scrivere come un annetto fa. :)
Intanto, spero che qualche vecchio lettore di Afire Love mi faccia sapere cosa pensa di questo inizio e cosa si aspetta dalla storia.
Grazie mille per le visite, non pensavo fossero tante.
All the love.

S.
  
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