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Autore: Osage_No_Onna    28/04/2017    0 recensioni
[Slash://]
Due ragazzi.
Un mese di vacanza.
Quattordici biglietti lasciati su un muro.
Quindici fiori ad accompagnarli, scelti accuratamente in base al loro significato.
L' evoluzione di un rapporto, dalla fredda indifferenza all' amore.
I sentimenti sono imprevedibili: cambiano in un batter di ciglia e non sempre si trova il modo adeguato per esprimerli appieno.
Ma le possibilità sono tante, quasi infinite.
Sta a noi sfruttarle al meglio.
E se il mezzo di comunicazione è decisamente desueto, la situazione si fa più intrigante...
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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11: A gentle place to stay


Il tramonto, proprio come la sorella mattiniera, stava tingendo il cielo di tenui sfumature di rosa e arancio; ma gli occhi attenti di un osservatore acuto come il ragazzo sapevano cogliere benissimo anche i sette colori dell’iride che s’ erano distribuiti lungo tutto la larghezza della volta celeste, dall’ effimera striscia di rosso che quasi svaniva a contatto con le cime dei palazzi al violetto sbiadito che giocava bizzarro con i cirri.
Ma nelle iridi azzurre del giovane scorrevano nitide anche le immagini della giornata al mare da poco trascorsa.
La loro insegnante si era dimostrata soddisfatta dei progressi che avevano fatto nell’ uso degli strumenti ad arco ed aveva voluto premiarli così. Li aveva condotti ad una spiaggetta libera ed appartata, bellissima nella sua civilizzata solitudine e punteggiata di arbusti e gigli di mare, così i ragazzi si erano goduti una meritata giornata di riposo sotto i benevoli occhi cerulei della violoncellista austriaca.
Si erano divertiti molto, certo, avevano persino improvvisato un concertino per la gioia delle orecchie dei passanti, ma lui era stato travolto da un’emozione completamente nuova.
C’era anche lei, la custodia del violino sulle spalle che non pareva più così grande ed un sorriso sul volto ovale che gli allargò il cuore. La gonna a tubino dalle fantasie etniche e la semplice canotta azzurra evidenziavano la natura mediterranea del suo corpo, con quei fianchi che si stavano allargando a scapito del petto ma che le donavano una graziosa femminilità. Nella capiente borsa di stoffa che teneva su una spalla, oltre al portafogli e a tutto l’occorrente per una serena giornata in spiaggia, c’ erano il suo amatissimo I-pod, uno sketchbook dalla copertina zebrata arancione e una giacchetta, di tessuto leggerissimo e dalla foggia orientale.
L’ aveva indossata quando, verso le cinque, l’aveva invitato a fare una passeggiata lungo la battigia. Spirava un venticello fresco ed il sole non batteva poi così forte, per cui aveva accettato di buon grado. Avevano percorso più di un chilometro, senza fretta, evitando solo pochi altri viandanti ed alcuni podisti dalla pelle brunita, parlottando del più e del mendo e ridacchiando di tanto in tanto.
La luce del sole pomeridiano, finalmente alto dopo lunghi mesi di buio, filtrava attraverso alcuni arbusti e i pochi alti alberi immediatamente prima della spiaggia, quelli già colonizzati da formiche ed amache, i soli compagni dell’ozioso girovagare dei gatti della zona.
Venti minuti dopo, seduti sulla battigia accanto ad alcuni scogli ribelli che creavano piccole pozze d’ acqua talvolta più calda talvolta più fredda di quella marina, lui le stava raccontando del proprio cane, delle corse in bici dopo scuola, della meravigliosa gru dal collo nero che da bambina aveva visto fuggire via durante un’escursione e delle feste del villaggio, quando all’ improvviso le era squillato il cellulare.

Era la sorella minore, Valentina, troppo giovane per il loro corso di musica e dunque rimasta a Napoli, che le raccontava di un’ altra escursione, sul Vesuvio e, stando alle parole della ragazza, in toni particolarmente entusiastici. Nemmeno il tempo di riporre il cellulare nella borsa che erano arrivati, tramite MMS, scatti di momenti rubati a quella gita: in uno di essi la ragazzina, il carré castano legato in due code sbarazzine e tuta informe che le ricadeva addosso con il tipico effetto-sacco, si reggeva ad un cespuglio di ginestre.
Pulizia” aveva ridacchiato la sua amica, mentre i suoi occhi venivano attraversati da un lampo fugace di tenerezza, e poi aveva digitato veloce un messaggio al padre per chiedergli quale fosse stato il poeta che aveva scritto di quei fiorellini gialli. La risposta era prontamente arrivata e probabilmente lei gliel’ aveva anche riferita, ma lui non ricordava nulla se non una subitanea visione di un manto macchiato.
Mancava qualche minuto alle sei quando finalmente avevano fatto ritorno dagli amici, e fu proprio allora che i venti ragazzi si sedettero in cerchio sulla sabbia, a gambe incrociate; tra chiacchiere, stecche e risate cominciarono a suonare e, da allora fino al momento in cui si alzarono per fare ritorno al pullmann, fu tutto perfetto.
Anche lei aveva cantato.
Dopo una “Le long de la route[1] praticamente sconosciuta a tutto l’ uditorio ma che aveva riscosso ampio consenso al suo finale, cantato in un francese acuto e di certo non eccelso ma quanto meno orecchiabile; era passata a “21 guns”, di certo eseguita con miglior pronuncia e maggior sentimento.
E lui, nel sentirla modulare una per una quelle parole, aveva sussultato. In un attimo si ricordò di quando lui ed il suo biondo compagno pianista l’avevano invitata nella loro stanza. Era stata un’idea dell’australiano, che la conosceva meglio e sapeva come consolarla: lui al momento non se n’ era curato, ma nel riascoltare quella canzone aveva desiderato ardentemente di essere stato lui a muovere quei primi passi. Era stato uno o due giorni dopo la riflessione scaturita dal Polygonatum, quindi sarebbe stato più che naturale, oltre che giusto, da parte sua.
Eppure era andata così.
Dopo l’iniziale rimorso era subentrata la speranza, una di quelle frammiste a felicità e dubbi che per un po’ ti mozza il fiato, ma che una consapevolezza nuova: era guarita.
Il miglioramento che aveva notato non era transitorio, ora che la guardava attentamente non c’ erano più occhiaie a cerchiare i suoi occhi; né i suoi movimenti erano bruschi ed esitanti; non si ingobbiva più, anche se il suo stare dritta pareva in qualche modo forzato.
Era buffo: le era stato vicino per poco tempo per tutti quei giorni ed aveva notato dei piccoli passi in avanti, ed ora che l’aveva avuta sotto gli occhi per tutto questo tempo non era riuscito a stilare immediatamente una diagnosi, ma aveva dovuto prima mettere assieme tutti i frammenti del puzzle?!
Com’è strana la mente, sospirò scrollando le spalle.
E, visto che era guarita, perché aveva scelto, tra le migliaia di canzoni che sicuramente conosceva, di cantare proprio quella?
Cosa aveva voluto dire?
E c’era davvero un significato nascosto, dietro a quella scelta?
Era stato solo un caso?
Aveva voluto chiudere un ciclo, prepararsi all’ avvenire?
Era un avviso, un incoraggiamento che aveva voluto farsi o darsi, un promemoria?
O semplice gratitudine?
Cosa c’era dietro agli sguardi che gli rivolgeva mente cantava?
Era talmente preso da questo turbinio di interrogativi che, mentre tutti cantavano allegramente assieme a lei, lui era rimasto muto in uno stato di mutismo per quasi tutta la durata del brano, e quando si era unito al coro era ormai troppo tardi.
Fortunatamente, l’ inevitabile scroscio di risate era stato messo a tacere dal virtuosismo (era proprio il caso di dirlo) di un tale Atsushi Kotomi, un vecchio compagno di classe di lei -che per chissà quale oscuro motivo aveva dei freddissimi occhi azzurri-, che era riuscito chissà come ad eseguire sulla viola un brano complicatissimo come “L’ Orientale” del Rondò Veneziano.
Gli era sembrato, nonostante l’ ottima tecnica (non una nota sbavata), che gli mancasse un po’ di pathos. Lei, nel frattempo, si era spellata le mani per gli applausi.
Tempo altri due-tre brani e l’ insegnante aveva suonato la ritirata, erano le sette meno un quarto.
C’ erano stati movimenti goffi di rialzo, chiacchiere miste a sbuffi ed esclamazioni di delusione e la mandria di ragazzi e ragazze si era avviata al pullman, ancora ebbra della bella giornata.
Si erano seduti insieme e, dopo un’ iniziale esitazione intervallata da alcuni sbadigli, avevano ricominciato a parlare di argomenti vari (musica, il sapre del tè tibetano che lui aveva nel thermos, il canto perpetuo degli uccelli durante tutta quella giornata), godendosi un’ altra sana mezz’ oretta di confidenze che lei aveva chiuso con un “Sono felice”.
Lui, nell’ ordine, aveva tirato fuori dalle corde vocali una delle sue solite risposte scanzonate; si era maledetto mentalmente e poi, arrossendo violentemente, l’ aveva guardata di sottecchi, ma lei non se n’ era accorta. Come suo solito in un qualsiasi mezzo semovente, guardava fuori dalla finestra.
Lui non aveva capito mai capito perché ci tenesse tanto a farlo, ma lei diceva che era un ottimo allenamento.
Per il disegno o cosa?
Mistero.
E poi, in un lampo, la realizzazione.
Che scemo sono, io la amo!”
Complimenti per esserci arrivato soltanto ora, genio!” lo aveva schernito la sua coscienza. “Perché credi di averla aiutata per tutto questo tempo, allora?”
Dunque non era “solo” dispiacere per il suo vecchio stato? E nemmeno pietà?
Boh.
Era partito da un’ incognita ed era arrivato a… questo.
Quindi non è solo la mia mente ad essere complicata, aveva pensato con un altro sospiro.
Si era voltato di nuovo a guardarla ed aveva deciso tra sé e sé che con le guance rosse era ancora più carina del solito, peccato solo per quelle chiazze di pelle arrossata, arrivati a casa le avrebbe suggerito una crema da spalmarvi su.
Se non era amore questo, avrebbe potuto essere il suo inizio, il suo bocciolo, la cui fioritura o morte prematura solo il tempo avrebbe potuto decretare.
Ma lui di certo non se ne sarebbe rimasto con le mani in mano.
Così, mentre stavano ritornando a piedi verso i loro alloggi al campus musicale, aveva approfittato di un momento di stallo dei venti adolescenti stanchi e, infilatosi nel negozio di fiori all’ angolo, aveva chiesto alla solita signorina filiforme, in una spiegazione impacciata e balbettata, un fiore che facesse al caso suo.
Quella, senza pensarci due volte, lo aveva portato di fronte ad una fragrante infiorescenza di lillà.
I fiori avevano sempre la capacità di stupirlo ed era infatti rimasto, anche questa volta, imbambolato davanti ai bellissimi seppur piccolissimi fiori a stella che, sotto ai suoi occhi, sembravano fare a gara per rendere più inebriante il loro profumo. Ce n’ erano in tantissimi colori e varietà ed infatti varie volte si era sentito chiamare da quella con i petali color crema appena dietro di lui, ma alla fine chissà perché era uscito dal negozio con un mazzetto tra il lilla e il viola, chiedendosi come mai proprio a quella specie fosse stato attribuito il significato di “primi sentimenti d’ amore”:
Per la piccolezza, il loro bisogno di sole nonostante la posizione a mezz’ ombra o per la facile diffusione dei semi?
Ancora adesso, affacciato alla finestra, giocherellava con quelle foglioline verde chiaro senza aver cavato un ragno dal buco, ma la cosa non aveva più importanza.
Anche la consegna di fiori e bigliettino era rimandata al giorno successivo: ora voleva solo scaldare il proprio cuore con quelle bellissime immagini, rivivendole ancora e ancora, con la brezza estiva che gli accarezzava i capelli e quella, seppure malinconica, dolcissima canzone giapponese che risuonava dalla stanza accanto.

 
 
Forse questa è la prima volta in cui il biglietto non ha nulla da aggiungere ai fiori.
Cosa ti dice il tuo cuore?

-T

 
[1] Dell’ artista francese ZAZ.
   
 
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