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Autore: Destyno    01/05/2017    3 recensioni
"Il nome giusto dà a tutte le cose e a tutte le persone la loro realtà. Il nome sbagliato rende tutto irreale. È questo che fa la menzogna."
O dell'inizio dell'amicizia di un mago e di un dremora, e di come quest'ultimo abbia ricevuto il suo nome.
Genere: Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Morndas Blues'
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Il vincolo cade, sfilacciandosi come un vestito vecchio di mille anni.
Il giovane ha paura. Ma la curiosità che gli brucia le ossa e gli torce le viscere è molto più forte della paura, e all’improvviso si ricorda della sua sorella adottiva, quasi una vita fa, che scuote la testa e dice che quella curiosità sarebbe stata la sua rovina.
Ora, con un dremora non vincolato di fronte a lui, si chiede se sua sorelle non abbia doni profetici.
Il dremora ha un’espressione neutra in viso. Il che, basandosi sull’espressione che aveva la prima volta che l’aveva evocato, non è altro che un miglioramento.
Il mago tossisce.
“Ehm… ciao.”
Il Kynval lo guarda come si guarda un folle. Aggettivo che, tutto sommato, gli si addice abbastanza.
“Congedami, mortale.” Ringhia, lapidario, le braccia incrociate. “Se non ti ho ucciso immediatamente è solo perché sono in debito con te.”
“No.”
Non si è quasi reso conto di aver parlato, e si chiede se è quello il posto in cui morirà, sotto una piccola sporgenza di roccia usata come riparo di fortuna dal diluvio che imperversa là fuori.
“Voglio sapere il tuo nome.”
Il daedra ride, una risata cupa, finta, che lo fa rabbrividire.
“Sprechi il tuo tempo.”” Dice, il volto contorto in un’espressione cattiva. “Io non ce l’ho, un nome.”
L’aveva intuito, il mago. È curioso ed è folle, ma non uno stupido.
Ed ora ne ha la certezza. Ora sa perché la risonanza di quell’anima pareva così fuori fuoco.
Aveva parlato con i Barbagrigia e studiato l’antica lingua dei draghi, aveva studiato nella più prestigiosa scuola di magia di Skyrim. Ora sa.
“Il nome giusto dà a tutte le cose e a tutte le persone la loro realtà.”
È un sussurro, così leggero che si perde, nelle urla della pioggia.
Alza il mento, fissando il dremora dritto negli occhi.
“Lo vorresti?”
Il dremora sussulta, e per la prima volta l’ombra di un’emozione che non sia ira perturba il suo volto.
“Cosa?”
“Un nome. Posso dartelo. Posso - posso farlo, posso tesserlo nella tua anima, posso renderti…”
Vero, è l’ultima parola, che muore nel gelido silenzio dell’altro.
La pioggia e il freddo li vedono in piedi, uno di fronte all’altro. Il dremora tentenna, prima di parlare.
“Solo…” attende, quasi a cercare le parole da dire, “... solo i daedra più potenti hanno un nome.”
“Stai evitando la mia domanda.”
Un lampo dell’antica rabbia ritorna sul suo viso, e se gli sguardi potessero uccidere il mago è certo che sarebbe già morto. Ma non si muove.
“Tieni a freno la lingua.”
Ma il giovane non ha più paura.
“Perché non mi uccidi? Non sei vincolato. Potrei difendermi, certo, ma probabilmente non per molto. È davvero solo perché ti ho salvato la vita?”
Senza pensare, il daedra porta una mano alla spalla, dove tempo prima era affondato il coltello avvelenato, e rabbrividisce. Non è rimasta cicatrice alcuna a ricordare l’evento, perché tale è la natura dei figli di Padomay, ma il gelo dell’acciaio e il fuoco del veleno sono bene impressi nella sua memoria.
“Cosa vorresti, in cambio?”
“Cosa diresti, se ti dicessi che non voglio niente?”
“Ti direi che sei un pazzo,” ringhiò, “e che ti ucciderò non appena ne avrò l’occasione.”
Ma il bretone ride, lasciando il dremora interdetto.
“Allora facciamo così.” Dice, gli occhi scintillanti di divertimento. “In cambio di un nome, chiedo la tua amicizia.”
Il daedra lo guarda stupefatto, e ancora una volta il rumore della pioggia riempe il silenzio tra di loro.
“Mi sbagliavo.” Mormora il dremora. “Sei ancor più pazzo di quanto pensassi.”
“Non sei il primo a pensarlo.” Ride, dandogli le spalle - oh, che impudenza! - e chinandosi a prendere un sacco a pelo da dentro lo zaino, stendendolo sulla terra umida. “Dai, siediti.”
L’idea di ucciderlo gli attraversa la mente e rimane lì, allettante. Doveva solo sguainare la spada e trafiggerlo. La sua spada d’acciaio daedrico avrebbe trapassato vesti e carne con la stessa facilità del burro. Il mago avrebbe boccheggiato, stupefatto, fissando la lama sporgere fuori dal suo petto. E poi sarebbe crollato a terra, il suo sangue a formare una macchia cremisi sulla terra umida.
Quel povero stupido, così indifeso! Neanche lo guarda più, cercando qualcosa nel suo zaino.
Nonostante tutto, però, non lo fa. C’è qualcosa, dentro di lui, che non vuole ucciderlo.
E quella parte si chiede perché. Si chiede perché quel mago dagli occhi azzurri lo avesse guarito, mentre il veleno gli straziava il corpo. Si chiede perché adesso gli offra un nome, chiedendo in cambio qualcosa di effimero e a lui alieno come l’amicizia.
Amicizia.
La conosce, certamente - un’eternità a servire mortali contro la sua volontà gli aveva fatto apprendere qualcosa sui loro comportamenti - ma non la capiva. Che spazio può esserci per l’amicizia, la pietà, tra i dremora del Signore della Distruzione?
Si chiede se un nome potrebbe cambiare le cose. I daedra maggiori lo posseggono un nome, eppure non paiono troppo diversi da quelli come lui. Sempre brutali. Sempre carichi d’odio verso il Mundus. Ma il loro nome gli viene dato dai loro Principi, e quel Kynval conosceva le leggi immutabili di tutta Aurbis: nessun daedra può creare dal nulla.
Un nome donato da un mortale sarebbe stato diverso?
I suoi pensieri vengono interrotti dal mago, che gli porge un pezzo di pane.
“Hai fame?” Chiede. “So che quelli come te non hanno bisogno di mangiare, ma non ricordo se è una cosa che potete fare.”
Come in trance, il dremora prende il pane.
Il mago aveva acceso un piccolo fuoco, preso un po’ di pane per sé, e si era seduto sul sacco a pelo. Fuori non accenna a smettere di piovere.
“Avanti, siediti.” Gli propone ancora con tono gentile, battendo con il palmo della mano accanto a lui, in un chiaro invito. “Coraggio.”
Per qualche ragione lo ascolta, e si siede accanto a lui.
“Insomma,” chiede, rimestando le braci con un bastoncino, “lo vorresti o no, un nome?”
“Io non dovrei-”
“Non ti ho chiesto quel che dovresti fare, ma quel che vuoi.
Già, che cosa vuole?
Non lo sa, scopre. Non ha mai imparato a farlo.
“Cosa cambierebbe, se avessi un nome?”
“Beh-” lancia il rametto nel fuoco “-potremmo presentarci, per dirne una.”
Il dremora lo guarda storto, e l’altro ride.
“Un nome… un nome dà identità. Un nome ti rende unico, inimitabile, ma in un certo senso ti limita e ti definisce. Voi daedra minori non avete un nome, siete tutti interscambiabili. O sbaglio?”
Il dremora abbassa lo sguardo e non risponde.
“Tu, però…” il mago si interrompe, dando un morso al pane, pensieroso, “… tre volte ti ho evocato: una volta nella Sala degli Elementi, all’Accademia di Winterhold, nell’Accampamento delle Lune Silenti e qui, infine. Il tre è un numero potente, no? E poi c’era qualcosa, in te, che… non so. La tua anima risuonava in un certo modo particolare… ma forse non era la tua anima, ma la mia. O forse di qualcos’altro, chissà, ed io mi sono solo sbagliato.”
Ride, gettando la testa all’indietro.
“Divini, sono così stupido.”
La pioggia comincia a diminuire, e il cielo si fa più chiaro.
I
l daedra dà un morso al pane.
È secco.
Non aveva mai mangiato, prima d’allora.
Nessuno si era mai preso il disturbo di offrirgli niente.
“Accetto.”
Il mago si gira a guardarlo, sorpreso. Il volto nero del dremora era determinato, le labbra contratte. Per la prima volta, ma non l’ultima, gli pare che i suoi occhi siano pieni di stelle.
“Dammi un nome.” Dice il daedra. “E proverò ad essere tuo amico.”
Il volto del giovane mago si schiude in un grande sorriso.
“È- è meraviglioso! Devo - dannazione, devo mettermi a cercare un nome-” fruga nel suo zaino, emergendone vittorioso con un rotolo di carta e un carboncino “-dimmi che nome vorresti - anzi no, scusa, non pronunciarlo ad alta voce, o perderebbe potenziale, scrivilo qui.”
Ne scrissero molti, di nomi, mentre il cielo si schiariva e il sole tornava a splendere su Nirn. Ma nessuno pareva andar bene, e nessuno dei due sapeva spiegare il perché.
Scrissero nomi su nomi, finendo per usare quasi tutta la carta che il mago si era portato appresso, e continuarono a cercare il nome del dremora finché il cielo non si tinse di luci arancioni e rosate.
È un tramonto sereno. Non pioverà, non quella notte.
Il giovane bretone gli mostra un nome, che al daedra piace particolarmente. Lo ripete dentro di sé più e più volte, eppure gli sembra… non sbagliato di per sé, ma piuttosto che gli manchi qualcosa.
Annuisce, e lo riscrive, stavolta in rune daedriche. Mischia delle lettere, ne aggiunge e ne toglie altre, finché non si ritrova di fronte un nome che… non sa come definire la sensazione che prova. Ma sa che è quello, che è il nome giusto e che l’hanno trovato.
“È-” deglutisce a vuoto “-è questo.”
“Davvero?” Il mago sembra particolarmente felice. “Fammi vedere.”
Gli porge il pezzo di carta.
Lo vede, scritto in rune daedriche, acuminate e affilate come punte di freccia. Sotto, la traslitterazione in tamrielico, in lettere ugualmente sottili.
Annuisce.
“D’accordo. Penso che possiamo iniziare.”
Il sole è ormai completamente oltre l’orizzonte. I primi figli di Magnus iniziano ad illuminare il cielo notturno, mentre Masser sorge placida.
Mentre il mago elabora il rituale il dremora si concede di essere nervoso.
Un nome! Un nome, tutto per lui! È un pensiero così strano, sembra quasi irreale. Si chiede cosa accadrà, se sarà diverso.
Si chiede se farà male.
“Dammi la mano- no, senza il guanto.”
Toglie l’armatura, rivelando una mano grande, dalla pelle solo leggermente più chiara della notte, attraversata da sottili linee rosso cremisi, le stesse che attraversano il suo volto.
Il mago la prende nella sua, e il daedra ha solo il tempo di pensare che la sua mano è a un tempo molto più fredda e molto più calda di quanto credesse, prima che il giovane uomo cominci a parlare.
“Io ti nomino et’Ada e daedroth e dremora. Io ti nomino Kynval del Clan Dagon, nato dalle Deadlands, servo di Mehrunes Dagon. E ti nomino di un nome nuovo.” Riesce a percepirla benissimo, la magicka che imprime nelle parole. La tesse, cucendo i fili tra di loro, intrecciandoli nel suo arazzo, in attesa del nome che avrebbe finalmente cucito all’interno del suo animus.
Non ha paura che possa ingannarlo; nell’attingere alla sua magicka gli si è aperto completamente, e quel Kynval legge le anime degli uomini da molto prima che quel mago nascesse.
La voce del mago vibra di potere, facendolo rabbrividire. I suoi occhi brillano d’azzurro, e i suoi capelli sono sollevati in aria, che adesso è crepitante di energia.
“Il tuo nome, ora e per sempre, è-”

È ad un tempo travolgente e piatto.
Nulla di visibile, o di sensibilmente percepibile, accade: l’incanto che era stato tessuto attorno a loro sublima e la sua pelle nera lo assorbe come una spugna.
È strano, perché non cambia nulla: le Ossa della Terra quelle erano e quelle rimangono; il Nirn è ancora un mondo estraneo a lui, che tenta di respingerlo; Mehrunes Dagon è ancora il suo Principe e il suo padrone.
È strano perché cambia tutto: percepisce il proprio animus mutare, assorbire dentro di sé quell’incanto, e si sente come una zattera in preda alla tempesta, costretto a far spazio a quel nome che da quell’istante era da sempre parte di lui.
Per la prima volta si rende conto di ogni contrazione del proprio cuore, del modo in cui il suo petto si alzava ed abbassava, a cercare un’aria di cui non aveva bisogno.
Si chiede se è così che i mortali provano emozioni.

“Tutto a posto?”
La voce del mago pare provenire da miglia e miglia di distanza.
Apre gli occhi che non ricorda di aver chiuso, e vede il giovane di fronte a lui come fosse la prima volta.
Ha i capelli lunghi e sciolti, del colore del mogano, lunghi fino alle spalle. Alcuni sono finiti sul suo volto, quando l’incanto è terminato.
I suoi occhi sono azzurri, di un azzurro brillante, come i ghiacciai splendenti della cosa del Winterhold quando vengono colpiti dalla luce del mezzogiorno. La sua pelle è pallida, come se non prendesse abbastanza sole, e sul suo mento e sulle guance paiono crescere… altri capelli? Li fissa incuriosito, chiedendosi come sarebbe stato avere i capelli anche lì.
Ma c’è altro da vedere.
Il mago, anche da seduto, è più basso di lui di una buona testa, ed è molto più minuto, anche se sotto tutte quelle vesti e mantelli non si nota molto. Le sue orecchie sono leggermente a punta, come quelle dei mer, che cosa strana. Chissà se gliele lascerà toccare.
“Sì.” Una pausa che dura il tempo di un respiro. “Grazie.”
Il giovane umano sorride, e qualcosa si muove nelle viscere dell’altro.
“Immagino…” tossisce, evitando il suo sguardo, “… immagino che dovremmo presentarci a dovere, no?”
Il sorriso sul suo volto si fa più ampio, e nota che le sue orecchie e le guance sono più rosse di prima.
“Hai ragione. Prima io.” Si schiarisce la voce, e gli porge nuovamente la mano. “Mi chiamo Balthazar Lungo Passo, ma tu puoi chiamarmi Balthazar. È un piacere conoscerti.”
“Mi chiamo Kyneev,” risponde, stringendogliela, “ed il piacere è tutto mio.”



Nella mia modesta opinione di tizio queer, Skyrim non è abbastanza gay per essere parte di un impero dove i matrimoni gay sono legalizzati (mi rifiuto di credere che siano legali solo in quella provincia va bene), quindi ho deciso di porvi rimedio. Indovinate un po'? Ralof e Hadvar sono gay e stavano insieme prima della rivolta (rip), Onmund e Farkas sono transgender, Brelyna è bisessuale, come Ulfric, J'zargo è asessuale e aromantico, Aela è lesbica e trans, e insomma a Skyrim (ma anche a Solstheim eh) non esistono più gli eterosessuali (scherzo, ce ne saranno, tipo, almeno tre).
Mettendo però da parte i miei stupendi piani pieni di gaiezza e arcobaleni, vorrei parlare un po' di questa storia. Parlare un po' a caso, ma pur sempre parlare.
Prima cosa da sapere è che è ambientata prima di Wellspring (in caso non fosse già ovvio), ma dopo il secondo capitolo della mini-long in cinque capitoli delle avventure di Balthazar all'Accademia, che non ho ancora completato - ma dovrei essere a metà, più o meno (dico "dovrei" perché poi magari vado avanti per altre 10k parole boh). Quindi gli eventi di cui parla Balthazar (la prima e la seconda evocazione di Kyneev) non sono ancora avvenuti.
Ooops, spoiler. Dannazione, Balthazar, taggali prima!
Seconda cosa da sapere è che sta cosa dei nomi l'ho tirata fuori tantissimo da La Storia Infinita, come potete notare dalla citazione in descrizione. Non so se abbia una corrispondente canonica nel mondo di TES, ma se così non è andatevene a quel paese e non rompete prendetela come licenza poetica.
Inoltre penso che abbiate notato il fatto che non li chiamo mai per nome, se non alla fine quando si presentano. Pensavo fosse d'effetto, un po' come usare il presente quando di solito io uso spessissimo il passato remoto - a proposito, se trovate qualche refuso fatemelo notare, perché l'ho sì editato, ma a mezzanotte e mezza, quindi qualcosa mi sarà sfuggito.
Boh, non ho altro da dire, adieu!

   
 
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