A couple of things in the sunrise
Aveva appena smesso di
piovigginare e il cielo grigio di Konoha si squarciava in un blu che già
sfumava in azzurro, schiarito dall’alba appena nata. Le nuvole si
aprivano lente disfandosi in batuffoli chiari e nell’aria si levavano i
primi timidi cinguettii mattutini.
Aprendo la porta di casa il
ragazzino – perché, a
dispetto di tutto, era soltanto un ragazzino – si trattenne per qualche
secondo ad osservare lo spettacolo celeste, accompagnato da quella gentile
melodia. Voltando lo sguardo intorno, verso nord-est, scorse il sentiero variopinto
tracciato dalle dita dell’arcobaleno spiccare nella luce del sole
crescente. Un sorriso impercettibile si aprì sul suo viso, ancora un po’
gonfio del sonno recente, mentre per qualche istante, perso il suo solito fare
grave, rimaneva a rimirare il panorama con le labbra semiaperte. Il cielo, le
nuvole, l’arcobaleno, e più sotto le cime degli alberi della
foresta, i tetti, la via centrale del rione degli Uchiha e il muretto del
cortile interno di casa sua, da cui debordava la sommità del roseto
rampicante che sua madre tanto curava. Konoha.
Poteva davvero riuscire a
farne a meno?
Un riso leggiadro e in punta
di fiato lo riscosse leggermente, portandolo a voltarsi indietro di scatto. Ferma
sulla soglia nel suo grembiule candido, Mikoto lo guardava divertita.
“Che stai facendo, mort’impiedi?”
lo schernì con dolcezza, coprendo la bocca con una manina chiara. L’altra
reggeva un secchio colmo d’acqua sporca che Mikoto fece dondolare
leggermente mentre, mossasi avanti, lo oltrepassava andando a raggiungere il
condotto dell’acqua piovana sul bordo della strada. “Muoviti o
farai tardi, Itachi,” aggiunse, rovesciando il contenuto del secchio
nello scolo prima di scuotere lievemente la testa. “Il mio guerriero
sognatore...” sospirò infine, tra l’orgoglio e la beffa.
Itachi, impassibile, distese
appena lievemente la fronte, scettico.
“Graziosa definizione,”
commentò educatamente. Mikoto ridacchiò piano, mentre il ragazzo
si metteva finalmente in marcia – ma il viso la tradiva mostrando i primi
segni di rughe precoci e i suoi occhi non brillavano come quando, bambino, le
saltava in braccio.
“Buona giornata, mamma,”
salutò noncurante.
“A te, mi... Itachi?”
lo richiamò lei all’ultimo, posando il secchio. Il figlio si voltò
indietro con sguardo vagamente interrogativo, aspettando silenzioso, e la vide
torcere lievemente le dita delle mani. “A che ora finisci con gli ANBU?”
Lui aggrottò pensoso la
fronte, senza rispondere per qualche istante.
“Non so. Perché?”
rispose vago, anche se conosceva benissimo la soluzione del quesito. Era sempre
la stessa, ogni volta che sua madre gli
rivolgeva quell’interrogativo era perché c’era suo
fratello da andare a recuperare da qualche parte.
Mikoto scrollò
lievemente le spalle.
“Ecco, potresti..?”
“A che ora?” la
interruppe pazientemente Itachi, atono.
“Alle cinque. Ma se non
fai in tempo non fa nulla.” Lei sorrise di nuovo. “Sa camminare, in
fon...” aggiunse, arricciando il naso.
“No,” l’arrestò
il figlio, fermo. “Vedrò di fare in tempo. Quanto al camminare,
non ci giurerei,” commentò assorto.
Mikoto scoppiò nel suo
riso cristallino e Itachi sorrise lievemente. Gli piaceva far ridere sua madre.
Era sicuro che, ovunque fosse andato, la risata melodiosa di lei l’avrebbe
seguito – perseguitato –
per tutto il tempo che gli fosse rimasto da vivere.
“Allora vallo a prendere
all’uscita dell’accademia. Oggi deve fare questo test attitudinale,
è...”
“Ecco perché,”
osservò Itachi neutro, annuendo tra sé. Mikoto lo osservò
interrogativa e lui scosse lievemente una mano. “Ieri sera era
sovreccitato, è venuto tre volte in camera mia dicendo che non poteva
dormire. È crollato sui miei piedi mentre gli raccontavo quanto
diventerà forte,” proseguì Itachi composto, con remota e
pungente ironia.
Mikoto ridacchiò
ancora.
“E’ così...”
iniziò sbuffando.
“Vanitoso?” suggerì
il figlio, asciutto. Mikoto annuì deliziata, mentre il ragazzino
sospirava con fatalismo. “A che serve il test?” aggiunse poi lui,
gettando uno sguardo distratto alla finestra della stanza di Shisui, dall’altro
lato della strada. Chissà se era sveglio.
“A vedere per che cosa
è portato, in vista dell’iniz...”
“Che domanda,”
affermò Itachi con certezza. “Per tutto.”
Mikoto spalancò gli
occhi con eloquente ironia, piegando la testa di lato.
“Poi ci domandiamo come
mai è vanitoso, mh?” commentò beffarda.
“Naturalmente non glielo
direi. Ma è vero. Io lo so, sono suo fratello,” la riprese Itachi, con
un istintivo tono d’importanza.
“Certo, certo,” lo
liquidò sua madre, facendogli cenno di muoversi. “Sicuro che non
è un problema?” terminò, seria.
“No, ovvio che no,”
confermò il ragazzo, incurante. Ma potendo l’avrebbe urlato.
Non era un problema, non
poteva. Così poche occasioni, gliene rimanevano, e potendo evitare il
peggio avrebbe scelto di non fare altro per tutta la vita, svegliarsi all’alba,
andare al quartier generale e sulla via di casa aspettare Sasuke, ogni giorno
di ogni settimana di ogni anno; sarebbe stato così semplice e giusto, e
invece davanti era tutto buio.
“A stasera, Itachi,”
concluse Mikoto, tornando verso casa.
“A stasera, mamma,”
rispose lui pacato, annuendo.
La guardò sparire oltre
la soglia e chiudersela dietro con delicatezza, poi gettò un’ultima
occhiata al cielo. L’arcobaleno stava sparendo, annegato nel chiarore del
giorno. Mentre tornava a voltarsi verso l’esterno del quartiere i suoi
occhi corsero sulle pareti di casa sua – l’intonaco chiaro, lo
stemma, la testa scarruffata di Sasuke dietro il vetro della finestra, gli
occhi abbottonati di sonno e il naso colante. Itachi accennò un cenno di
saluto muovendo appena il capo e Sasuke si mise un dito sul naso, schiacciandolo
indietro come un maialino, e gli fece una sentita boccaccia. Itachi serrò
le labbra per soffocare una risata e non dargli la soddisfazione di smuoverlo
dalla sua superiore compostezza. Scrollò piano la testa con rassegnazione,
poi Sasuke sparì dalla sua visuale. Probabilmente, ne concluse, era
precipitato giù dal davanzale.
Osservò per un paio di
secondi lo spazio ora vuoto oltre il vetro – come avrebbe fatto, lontano,
a colmarlo? – e si girò stringendo forte le labbra.
L’alba di Konoha
maturava nel mattino, e Itachi Uchiha camminava attraverso il suo villaggio in
silenzio. Forse c’erano cose che non funzionavano, lì, e nessuno
lo sapeva meglio di lui. Ma ce n’erano un paio d’altre che, a sapere
di stare per perderle, facevano scoppiare i polmoni.
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(Mille parole
a Itachi. Buon compleanno, Aniki.)