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Autore: criminatae    08/05/2017    5 recensioni
Ci sono sessanta secondi in un minuto, ma Jimin ne conta sempre cinquantadue.
Cinquantadue secondi e Yoongi, il suo sorriso quando appare la folla, quando i riflettori gli illuminano il volto, quando si sfila nuovamente l’auricolare per sentire il calore dell’arena, solo per loro.
[Yoonmin]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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52 secondi





 

Ci sono sessanta secondi in un minuto, ma Jimin ne conta sempre cinquantadue.

Con una vita come la loro, è sempre meglio fare tutto in anticipo; gli atti corrono, le particelle si spostano in confusione, i respiri si alternano erratici, i battiti pulsano troppo veloci, i pensieri arrancano uno sopra all’altro.

A Jimin piace immaginare il tempo come un filo: lineare, sottile, sempre troppo corto per bastare, sempre troppo sottile per resistere quanto necessario.

Anche adesso, anche in quell’atmosfera trepidante di attesa, di emozione, di adrenalina che scivola dentro le vene come un torrente in piena, che spinge l’aria fuori dai polmoni come un fuoco d’artificio, ci sono cinquantadue secondi.

L’aria odora di gomma bruciata e leggermente di sudore, una goccia gli cala lungo la tempia mentre corre ad asciugarla col polso della giacca che indossa. E’ buio, una leggera luminescenza a riverberare in lontananza, proveniente dai riflettori, e il suo petto è gonfio di energia, di aspettativa, le urla della folla come una rassicurante ninna nanna in sottofondo, il cuore in gola, quasi a poterlo assaggiare sulle papille gustative, nella saliva che continua a deglutire.

Un brivido gli attraversa la spina dorsale, risale ogni vertebra e si annida nel retro della sua testa, un delicato ronzio soppresso dal sangue che gli pompa rumoroso nelle vene. Sente il make-up pesante sulla pelle, gli occhi iniziare a pizzicare, il filo che scandisce il tempo farsi sempre più sottile.

Mancano pochi secondi ormai, pochi respiri affannati e poi l’apnea momentanea di un istante, di quell’istante.

Stringe i pugni, forte, le nocche a impallidirsi, i tendini a tirare quasi dolorosamente, le unghie a conficcarsi nel palmo.

E si gira. Si gira alla sua sinistra, quasi per istinto, per necessità, per conforto. Si gira perché è ciò che fa sempre prima di uno show, di un concerto, di un passo, di un respiro. Si gira per vedere, per vederlo, perché i suoi occhi lo supplicano, il suo cuore rischia d’impennarsi col suo ritmo scoordinato e il petto si stringe, si stringe, fino a fargli male, fino a sentire i battiti direttamente contro la gabbia toracica, le ossa incrinarsi ad ogni sussulto.

Si gira e trova Yoongi. I suoi occhi trovano Yoongi, il suo cuore trova Yoongi.

Lo guarda, fissa il suo profilo, la mascella contratta, sguardo concentrato e puntato avanti a sé, un leggero luccichio lungo lo zigomo per il trucco che riflette la poca luce filtrante, un auricolare a penzolargli lungo il collo, passante dietro all’orecchio.

Serio, determinato, carico e pronto a salire sul palco, come un vero artista, come un vero cantante.

Nei primi giorni dopo il loro debutto, Jimin era un fascio di nervi vivi, un insieme di ansia e agitazione, un focolare di stress; temeva di fare ogni cosa, perché non era abbastanza, perché non era il massimo, perché qualcun altro l’avrebbe sicuramente saputa fare meglio di lui, perché non era perfetta come avrebbe voluto. Si sentiva insicuro in tutto e per tutto, un fallimento, un peso per il gruppo, un fardello per gli altri membri, l’anello debole della catena.

E poi c’era Yoongi, sicuro di sé, impassibile anche di fronte alle situazioni più terrificanti, sempre professionale, che componeva, che si era allenato per anni, più di quanto Jimin avrebbe mai potuto fare, che sapeva esattamente come comportarsi su un palco, quanta intensità dare alla sua voce, che rappava da una vita, che faceva bene ciò che sapeva fare ed aveva confidenza, sicurezza, coraggio, sfrontatezza, forza, esperienza: tutto ciò che a Jimin mancava.

Lo aveva sempre visto come un modello, come il membro più saldo del gruppo, quello sempre con un’idea in testa, con la mente salda, con un autocontrollo ammirevole, con una serietà che era difficile mantenere costantemente in mezzo a ragazzi della loro età.

Si era sempre sentito affascinato, incuriosito da quel corpo così stabile, quell’artista così formato che aveva davanti, un suo collega, ma che sembrava anni luce più avanti di lui. Guardava a Yoongi come un bambino guarda a suo padre, al suo idolo, al suo giocatore di calcio preferito. 

Prima di avvicinarsi a lui ci aveva messo parecchio tempo: sempre troppo timido per approcciarlo per primo, sempre troppo intimorito da quel suo atteggiamento freddo e composto, da quella sua espressione quasi immutabile, con una storia disegnata negli occhi, che portava dietro il peso di una vita, mentre Jimin era solo un bambino, con le guance troppo soffici e gli occhi pronti a scoprire il mondo, carico di determinazione ma spaventato dalla realtà.

Senza saperlo, era cresciuto seguendo un modello ben preciso, prefissandosi un traguardo che si distingueva all’orizzonte.

Era cresciuto, ma le sue insicurezze erano cresciute con lui e, in fondo, era sempre lo stesso ragazzo che aveva messo piede per la prima volta in una casa discografica con una canotta troppo larga e un capello messo al contrario.

E guardava Yoongi nello stesso modo, con gli stessi occhi, con la stessa ammirazione, con la stessa intensità. Lo guardava perché voleva che Yoongi guardasse lui. Che lo guardasse e lo vedesse.

I battiti del suo cuore non sono più violenti, non offuscano più ogni rumore circostante. Il suo cuore si è tranquillizzato, ma non appena Yoongi si volta improvvisamente verso di lui ed incontra i suoi occhi, riprende a scalciargli nel petto, più forte di prima, facendogli ancora più male.

Yoongi gli sorride, un solo secondo, uno solo di quei cinquantadue secondi che continuano a scorrere inesorabili, incessanti, come l’acqua di una cascata che precipita.

Poi si volta, torna a guardare avanti, il sipario chiuso di fronte a loro, l’aria ancora più pesante di qualche minuto fa, le urla ancora più forti, risuonanti per l’arena, risuonanti nelle loro vene.

Yoongi si infila l’auricolare, deglutisce e si passa una mano lungo la fronte per asportare quel poco sudore che gliela imperla.

E Jimin lo guarda, continua a guardarlo fino all’ultimo secondo, fino a quando il sipario si apre e la musica inizia a suonare, il pubblico ad urlare in coro, il palco ad incendiarsi. 

Cinquantadue secondi e Yoongi, il suo sorriso quando appare la folla, quando i riflettori gli illuminano il volto, quando si sfila nuovamente l’auricolare per sentire il calore dell’arena, solo per loro.

E Jimin continua a sentirsi il cuore in gola, anche mentre intona le prime note della canzone, anche mentre le luci lo accecano, il pubblico lo acclama, il palco trema.

Ma ormai è convinto che non sia per l’adrenalina, per il nervosismo prima di un’esibizione.

E mentre lancia un altro sguardo a Yoongi con la coda dell’occhio, ne è sicuro.

 

***

 

Il divano è caldo, la sua pelle appiccicata alla stoffa, i suoi muscoli indolenziti per essere rimasti nella stessa posizione troppo tempo.

Il film sullo schermo della televisione è troppo luminoso per i suoi occhi assonnati, il volume troppo basso per essere udito al di sotto di Taehyung che russa sotto di lui, la schiena contro i piedi del divano e la testa poggiata all’indietro contro il cuscino.

Accanto a lui, Yoongi sta masticando dei popcorn da una ciotola. “Vai al letto se sei stanco.”

Jimin sbatte un paio di volte le palpebre, la sua vista del film momentaneamente oscurata da Namjoon che si alza per andare a cercare in cucina l’ennesimo pacchetto di patatine, per poi tornare a mani vuote e con un broncio.

“Voglio vedere come finisce.” risponde in un sussurro, troppo stanco per alzare il tono della voce. Yoongi non dice nient’altro, allunga solamente la ciotola di popcorn nella sua direzione, senza staccare gli occhi dallo schermo.

Jimin scuote la testa, tirandosi leggermente su per cercare di rimanere sveglio, mentre Yoongi si stringe nuovamente la ciotola al petto e continua a mangiare in silenzio.

Il divano è caldo, quasi bollente per tutto il tempo che vi hanno passato seduti, il tessuto scomodo contro la pelle, fastidioso e ruvido. Jimin lo odia.

Odia anche il film che stanno guardando: una trama noiosa, scontata, senza colpi di scena a movimentare il tutto, con personaggi banali e comuni.

L’unico motivo per cui ha deciso di vederlo con gli altri tre ragazzi è perché Taehyung ha insistito fino a farlo cedere.

Ed eccolo qui, con la schiena dolorante, uno strato di sudore a velargli il corpo, il sonno che sembra chiamarlo come il canto di una sirena ammaliatrice e un film indecente sullo schermo.

I suoi occhi si spostano ovunque attorno alla stanza, focalizzandosi dappertutto tranne che sulla televisione, studiando le ombre che dipinge sul muro del soffitto, fissando la piccola luce rossa lampeggiante che segna che il frigo è in funzione e che si intravede dalla cucina, percorrendo con lo sguardo le venature del tessuto del bracciolo del divano.

Ed è inevitabile quando, dopo essersi posati sull’orribile poster che Hoseok ha attaccato sulla parete alle loro spalle, si abbassano sul volto di Yoongi.

Il suo cuore manca un battito, uno solo. Poi riprende a battere, un ritmo più scandito, un soffio più veloce. 

Yoongi ha solo metà viso illuminata, l’altra metà, specialmente lungo il collo, oscurata dall’ombra proiettata dallo schienale del divano. I suoi occhi, privi di trucco, risultano ancora più piccoli, fissi sullo schermo della tv, ciglia lunghe a posarsi come ali di farfalla sui suoi zigomi ad ogni battito, pelle pallida, ancora più chiara per la luce artificiale che vi è puntata sopra, soffice solo a sfiorarla con gli occhi, ad accarezzarla con ogni sguardo. E poi labbra chiuse, pressate tra loro, umide per averle leccate poco prima, sporche agli angoli della bocca di alcuni granelli di sale, leggermente sporgenti in avanti. 

Delicato, delicato come un fiore, un fiocco di neve che, nella sua mortale e condannata bellezza, vive troppo poco il suo splendore, la sua magnificenza, giusto il tempo di raggiungere il suolo prima di dissolversi in una triste goccia d’acqua. Yoongi è come neve, candido e sfuggente, gelido al tatto, ma soffice se preso tra le mani con dei guanti, da scoprire nella sua bellissima forma, bellissima natura, che arriva solo per una stagione e poi se ne va, ti lascia col ricordo, col sapore dell’inverno sulla lingua, con l’ombra del freddo impressa sulla pelle.

Una neve lenta, che cade silenziosa ma immensa, che ricopre tutto, tutto, fino a soffocare, a schiacciare tutto ciò che riveste, in quella maniera leggiadra però micidiale, che ti uccide dolcemente, un po’ come sta facendo con Jimin.

Yoongi è la neve che è arrivata nella sua vita: fredda, inaspettata, meravigliosa. E ha ricoperto ogni cosa, ogni pensiero razionale, ogni certezza, ogni appiglio che credeva di avere. E poi, con la stessa lenta sorpresa, è sparita, ha lasciato nel suo petto quel bruciore tipico del freddo, dell’inverno, che nessuna estate ha mai saputo rimpiazzare, che nessuna estate avrebbe mai potuto scaldare.

E Jimin, senza saperlo, si è ritrovato sommerso da quella neve, quella stessa neve che ha amato e che adesso lo soffoca, gli toglie il respiro, fino all’ultimo. 

Jimin trema, trema sotto il gelo di quella neve. E trema tuttora, un brivido a scuotergli il corpo, lo stupore nel realizzare che non è per il freddo, non è affatto per il freddo, perché è fin troppo caldo in quella stanza.

Ma quel brivido gli corre di nuovo lungo la schiena, quando azzarda un’altra occhiata alla bocca di Yoongi. Allora decide di chiudere gli occhi, di smetterla, di non guardare, non guardare.

E prima che se ne accorga, il brivido è svanito, il freddo solo un fastidio lontano, la neve trasformatasi in soffice coperta, in caldo rifugio.

Si addormenta così, la testa nascosta nell’incavo tra la spalla e il collo di Yoongi, sognando fiocchi di neve e distese bianche.

 

***

 

Il rumore dei suoi passi contro il pavimento di legno della sala prove è familiare come il profumo dello shampoo che usa sempre, come il contorno ruvido delle sue dita quando, preda del nervosismo, inizia a torturare le pellicine intorno alle unghie. Quella stanza è diventata un’abitudine, una parte intrinseca delle sue giornate, le pareti bianche ad accoglierlo con la stessa placida atmosfera, lo specchio che occupa un intero lato della stanza a rifletterlo come ha fatto ogni singolo giorno che Jimin ha passato dentro quelle quattro mura, col sudore a scivolargli lungo il corpo, con la musica a rimbombare per lo spazio riecheggiante, con i muscoli stanchi e le ossa fragili.

Anche oggi è sempre la stessa sala, sempre le stesse pareti e lo stesso specchio, che probabilmente lo conosce meglio di quanto Jimin conosca se stesso.

I passi della coreografia si susseguono confusamente nella sua testa, ripetuti più e più volte, fino allo stremo, fino a che il corpo non li pratica come siano un movimento involontario. 

La musica suona ancora in sottofondo, leggermente più bassa, una canzone che non fa parte dell’esibizione, triste, decisamente triste, una melodia che gli inonda il cuore di malinconia, malinconia di qualcosa, qualcosa che non sa neppure lui cosa sia, perché si sia insinuata all’interno del suo petto, pressante come una nuvola di fumo racchiusa nei suoi polmoni.

Non conosce neppure il nome della canzone, probabilmente qualcosa che Namjoon ha scaricato e di cui se n’è dimenticato il giorno dopo.

Ma la porta della sala prove si apre, all’improvviso, un fruscio silenzioso ma che spezza l’aria sottile che si è creata, e Jimin alza lo sguardo per vedere Yoongi entrare, un foglio e una penna in mano, il cappuccio calato sopra la testa e i capelli in disordine che gli coprono parzialmente gli occhi.

“Jimin.” 

I suoi occhi sono già su di lui, lo erano ancor prima che parlasse, lo sono sempre.

“Ho qualcosa per te.”

E Jimin annuisce, annuisce perché è tutto ciò che sa fare, tutto ciò che il suo corpo vuole fare.

Ma non realizza che Yoongi gli sta dando una canzone, la sua canzone, e gli sta offrendo di cantarla con lui, di rapparla con lui.

Ed annuisce, annuisce perché pensa di poterlo fare, vuole farlo, vuole che quella canzone sia la sua rivincita, sia il motivo per cui Yoongi sarà fiero di lui, per cui finalmente lo guarderà e lo vedrà.

Ma è uno sciocco, uno sciocco che non sa rischiare, non riesce a lasciar uscire il mondo che ha dentro, le parole che sente agitarsi dentro di lui, senza poterle incanalare e trascrivere su un dannato foglio.

Ed è un codardo, un povero codardo. Namjoon storce il naso e lo rimprovera, ma poggia comunque la penna sul foglio e scrive. Scrive quelle parole che sarebbero dovute essere di Jimin, quelle parole che avrebbe voluto dire, cantare, mostrare.

Parole per Yoongi, per la sua fottuta canzone.

Parole che non bastano, bellissime e perfette ma non sue.

E poi vede il volto di Yoongi, sotto i riflettori, dopo l’esibizione, quando Namjoon rivela di aver scritto ogni singola strofa pronunciata dalle corde vocali di Jimin. Vede la sua espressione, quell’espressione che conosce, che conosce bene come ogni altra parte di Yoongi: il taglio di un’unghia, un dente leggermente più indietro di quello accanto, una ciocca di capelli, un certo modo di muovere le dita mentre parla, mentre tiene il microfono.

E prova vergogna, nuda vergogna, sensi di colpa ad avvolgersi attorno alla sua gola, a strozzarlo come rampicanti.

Ma è solo uno sciocco, un codardo, un sacco di pelle troppo grande per il suo essere, per poterlo rivestire nel modo giusto.

E’ solo un convoglio di desiderio, un convoglio di materia coalescente che sfuma, si dirada, senza riuscire mai a vederla appieno, in tutta la sua misera interezza.

E non capisce, non capisce perché voglia così tanto, desideri così tante cose che non può avere persistentemente, languidamente.

Non capisce perché desideri tanto tutto lui, lui, la sua sagoma, forma, aria, non solo una parte del suo corpo, non solo un’ombra della sua persona.

Ama quel dolore.

Sua madre gli ripeteva sempre di amare, amarlo, amare anche le cose che lo feriscono.

E Jimin lo sa. Sa che lo ama, lo ama anche se lo ferisce, lo ama perché lo ferisce.

Ma non riesce ad amare anche quel dolore, il dolore che gli conferisce quella costante sensazione di umiliazione che prova, che gli si riversa addosso come acqua congelata ogni giorno che passa, ogni sguardo che Yoongi gli rivolge, vuoto e quasi arrabbiato.

Yoongi non gli dice nulla dopo il concerto, ma quel silenzio è anche peggio di tutto il resto, saturo di pregiudizi, rimproveri, malintesi, scuse sussurrate non abbastanza forte da essere udite, o abbastanza piano da essere ignorate.

E Jimin gli si avvicina, gli chiede scusa, gli dice che non è riuscito a farcela, non poteva farcela.

E Yoongi annuisce ma non lo guarda. Jimin aspetta.

Poi Yoongi si volta, lo guarda ma non lo vede, come sempre, e gli sorride in modo affrettato, distratto, come si sorride ad un passante per strada che per sbaglio ti urta la spalla.

E Jimin sente di nuovo quel dolore, lo sente in tutto il corpo, quel vuoto che si tramuta in male, male fisico, un masso a premergli sul petto, un pugno silenzioso a spaccargli un osso.

La sera, nel letto, si infila le cuffiette e rimette la canzone che ha ascoltato in sala prove. La mette due, tre, sette volte prima di addormentarsi.

Solo che stavolta sa dare un nome a quella malinconia che sente sguisciargli nelle vene, lungo la pelle, insinuarglisi dentro i ventricoli del cuore e sporcarlo di tristezza.

Sa dare un nome, un volto a quel dolore.

Ma nonostante tutto, continua ad amarlo.

 

***

 

Jimin guarda Yoongi come il mondo non dovrebbe, non potrebbe. Lo guarda come a volerlo respirare, fino a che non riesce a respirare più. Lo guarda in quel modo egoista, il petto culla di sentimenti altrettanto egoisti. Egoista perché lo guarda e vuole che sia l’unico a farlo, pretende che sia l’unico a farlo. Ma non lo sarà mai, non con la vita che fanno: riflettori, telecamere, fan e occhi, occhi ovunque, occhi che derubano Yoongi di ogni sua piccola e meravigliosa parte, assetati di dettagli, affamati di quel viso, di ogni sua curva e sfaccettatura.

Ma Jimin è sicuro che nessuno lo guardi come lo guarda lui, allo stesso modo in cui i suoi occhi sembrano voler divorare l’essenza di Yoongi, volerlo rapire, nascondere, conservare dietro la retina per portarlo impresso nella mente, nell’anima.

E nessuno, nessuno lo ha mai visto come lo ha visto Jimin. 

Jimin ha visto tutto di Yoongi. Per prima cosa, ha visto il suo volto concentrato mentre scrive una canzone, sorridente mentre Jin dice una delle sue battute, triste e rigato dalle lacrime alla vincita di un premio importante, annoiato durante l’ennesima intervista della giornata.

Ed infine lo ha visto arrabbiato, furioso, fuori di sé.

Come lo sta vedendo ora; la mascella contratta, le sopracciglia aggrottate, le spalle inarcate in avanti, la postura rigida ed evidentemente tesa, mentre lancia il cellulare dall’altra parte della stanza, che urta contro la parete con un tonfo secco e cade al suolo crepando il vetro dello schermo.

Jimin rimane in silenzio, seduto nell’angolo opposto dello studio di registrazione, le mani già tremanti, il cuore già tremante.

Non dice nulla.

Yoongi si passa una mano frustrata tra i capelli, poi si volta di scatto, gli occhi indubbiamente lucidi, vitrei, vuoti ma allo stesso tempo colmi di un dolore e una rabbia repressi, costretti sul fondo del suo sguardo, ma che affiorano inevitabilmente nel momento in cui le sue iridi si posano su Jimin.

E Jimin sente la gola pungere, le corde vocali dolere come se stessero cercando di urlare qualcosa, come se la sua gola lo stesse implorando, costringendo a parlare, a pronunciare quelle parole, quella domanda.

Invece dice solo:”Hyung.” con la voce rotta e impaurita, la paura evidente, il risentimento ad avvolgergli la lingua, a renderla pesante e ruvida come cartavetrata contro il palato.

Yoongi si volta completamente verso di lui, le spalle più dritte, più tese, lo sguardo più duro.

“Non iniziare, Jimin. Non iniziare nemmeno.” lo avverte, la voce roca, come se stesse trattenendo un grido frustrato, come se stesse cercando di modulare il suo respiro per non ansimare furioso.

E Jimin rabbrividisce, la paura più evidente, palese sul suo volto, dipinta in ogni tratto.

Si sente inutile, inutile, inutile. E sciocco.

“Cazzo.” esala Yoongi, un sospiro stanco, esasperato, lasciandosi cadere sulla sedia alle sue spalle, prendendosi la testa tra le mani, torturandosi i capelli, rendendoli un ammasso informe, le vene sulle sue braccia più prominenti.

E Jimin lo capisce, sa come si sente in quel momento: ci sono passati tutti, perfino lui, ed ognuno di loro ha reagito in modo diverso, reagisce sempre in modo diverso, perché non sai mai bene come reagire, come comportarti quando il mondo intorno a te sembra volerti schiacciare, rendere un brandello di pelle, un pulviscolo insignificante che vaga per l’atmosfera circostante avendo perso ogni briciolo di dignità, di proposito, di coraggio.

Quella è la loro vita: se non sei forte abbastanza, se non sei pronto a sacrificare abbastanza, allora non vai bene, non fa per te, non potrà mai fare per te.

E Jimin lo sa bene, perché molte volte anche lui ha pensato che non fosse qualcosa in cui sarebbe riuscito, qualcosa che avrebbe potuto portare avanti per lungo tempo, perché avrebbe finito per consumarlo, come la fiamma di una candela, come la sabbia di una clessidra che non poteva essere rigirata e fatta partire da capo.

Yoongi rimane in silenzio, e Jimin fa lo stesso, perché è uno sciocco, un codardo, ed ha paura.

Paura di Yoongi, di ferirlo ulteriormente, di dire la cosa sbagliata, di risultare un peso in più, invece che un aiuto.

Dopo un po’, Yoongi si china a raccogliere il cellulare da dove era rimasto per terra e passa una mano sullo schermo frantumato. Sospira di nuovo. Sospira a fondo.

Jimin sa perché Yoongi continua a fissarlo, con una disperazione nello sguardo che ha visto poche volte in quegli occhi impassibili, sempre bravi a nascondere i veri sentimenti che vi navigano all’interno.

Sa anche come si possa sentire Yoongi, perché è lo stesso modo in cui si sente lui in questo momento: inutile, triste, senza speranze, con il cuore in una mano e degli occhi che fingono di non vederlo, che fingono di non notarlo, ma che sanno.

Yoongi digita un numero, preme più volte sul pulsante della chiamata perché lo schermo non fa contatto come dovrebbe dopo la caduta, e poi si porta il telefono all’orecchio.

Uno squillo e la voce meccanica della segreteria telefonica risuona per la stanza vuota. Yoongi attacca e stringe il cellulare in una mano, forte, le nocche bianche e i tendini prominenti.

E Jimin sta male. Si sente male, male, male.

Vuole piangere, e proprio mentre lo pensa, Yoongi accanto a lui lascia cadere la prima lacrima dall’occhio sinistro, l’asciuga frettolosamente col dorso della mano, ma gliene sfugge un’altra dall’occhio destro e la ignora, rinuncia a camuffare il suo dolore, un singhiozzo silenzioso a scuotergli il petto, poi un altro, e un altro ancora, fino a che Jimin non rimane a guardarlo piangere come non lo vedeva fare da tempo, riversare tutta quella tristezza e quello stress accumulato nel tempo che gli opprime il petto, non lo lascia respirare, lo fa sentire come se stesse per morire.

Il cuore a pezzi, a pezzi, come quello di Jimin.

E quel dolore, quel dolore che fa parte di ogni giorno ma che viene sempre messo all’ultimo piano, perché è meglio così, perché è più facile così, perché devi fare così, se vuoi vivere quella vita.

Jimin non pensa, non sta pensando più, sente solo la gola stretta, la saliva accumularsi sotto la lingua, gli occhi che scottano.

“La amavi?”

Yoongi trattiene l’ennesimo singhiozzo, si porta il collo della maglietta contro la faccia e si asciuga le guance umide.

“No, Jimin.”

Una pausa mentre tira su col naso, “Ma avrei potuto.”

E Jimin annuisce perché capisce, capisce benissimo, capisce tutto.

Ma quella vita, la loro vita, non lascia spazio a tutto questo: ai sentimenti.

I sentimenti ci sono, ma sono sempre sbiaditi, soppressi dal dovere, limitati da un copione, fabbricati apposta per una determinata situazione.

Jimin annuisce, annuisce mentre sente il mondo aprire una voragine sotto di lui ed inghiottirlo, il cuore rotolare a terra e venire calpestato, calpestato e calpestato.

“E’ lei che non ci è riuscita. Non è riuscita ad amarmi.” riprende Yoongi dopo qualche istante, gli occhi fissi sul pavimento.

“Qualcuno ci riuscirà.”

Io ci riesco.

Jimin si alza perché non può non farlo, perché il suo corpo freme per muoversi, per avvicinarsi a Yoongi, al suo calore, al suo dolore.

Si inginocchia accanto alla sedia su cui è seduto, china la testa e la nasconde nell’incavo tra la spalla e il collo di Yoongi, respira il suo profumo, sente il tessuto umido di lacrime contro la sua pelle, e rimane lì. Lì dove ormai pensa di appartenere, tra quegli spigoli ossuti ma che gli sembrano il posto più bello del mondo, dove ormai riesce a riconoscere ogni centimetro di pelle, dove il suo viso sembra incastrarsi alla perfezione, modellarsi per diventare tutt’uno con quella conca che sa di casa, di neve fresca, di Yoongi.

E con le labbra contro il tessuto della sua maglietta sussurra:”Ama quel dolore.”

Così come lo amo io.

 

***

 

Il vento gli sferza il volto come piccole lame, senza però tagliare, solamente osando, sfiorando la pelle più del dovuto, tentennando sulla soglia del dolore, ad un passo dal fare male.

Ma Jimin sta bene, come non stava da tempo.

Il tramonto all’orizzonte annega in un mare di arancione e rosa, delicato e caldo, nel silenzio delle strade di Seoul come raramente si riesce ad udire.

Al suo fianco, Yoongi.

E’ come se il mondo si sia fermato, solo per loro, solo per lasciargli vivere quel momento di pace, di tranquillità, sospeso nel tempo, come il sole sta sospeso nel cielo.

Ed i pezzi del puzzle combaciano, dopo essere stati a lungo persi, sparsi, confusi, mescolati tra di loro. Il quadro ha finalmente la sua cornice, si completa nella sua interezza, ogni pennellata a raccontare una storia diversa, una sofferenza diversa, un’emozione diversa.

Jimin lo ha sempre visto quel quadro, sempre immaginato nella sua mente, nel letto con la guancia premuta contro al cuscino, nei sogni con la luce spenta, nelle speranze quando pensa al futuro.

Ed ora eccolo: Seoul, il tramonto, quel silenzio confortante, un muretto da cui lasciar penzolare le gambe, Yoongi ed una bottiglia di birra accanto a lui, poggiata sul cemento.

“A cosa stai pensando?” domanda Jimin, il tramonto avanti a sé e gli occhi sul profilo di Yoongi.

Yoongi avvolge le dita attorno al collo della bottiglia ma non la solleva, le lascia lì, lo sguardo perso nel cielo, i colori di esso a riflettersi nelle sue iridi e la luce vibrante del sole a fargli scintillare gli zigomi.

Bellissimo.

“Se ci sarà mai un altro tramonto come questo.”

“Di tramonti ce ne sono tanti, ce ne sono tutti i giorni.”

“Ma non come questo, non così.”

“Hai ragione, questo è speciale.”

Yoongi annuisce, finalmente solleva la birra e se la porta alle labbra per prenderne un sorso.

Jimin scuote la testa quando la allunga verso di lui, leggermente imbarazzato; ha sempre odiato il sapore della birra, troppo amaro, gli pizzica la gola e rimane lì, ancorato alla lingua, lasciandogli quel retrogusto per ore.

“Quant’è che siamo qui?” chiede Yoongi, il polso scomodamente vuoto, l’orologio dimenticato nel dormitorio. Ma è meglio così, è giusto così: non hanno bisogno del tempo, non ora.

Jimin fa spallucce, punta lo sguardo sul pomo d’Adamo di Yoongi quando deglutisce per mandare giù un altro sorso.

“Forse è meglio rientrare.”

Yoongi scende dal muretto, atterrando su due piedi, fa un passo ma viene fermato subito dalla mano di Jimin che afferra la sua spalla, la stringe tra le dita, come se possa scomparire da un istante all’altro.

“No,” la disperazione nella voce, una punta di tristezza, “Restiamo.”

E Yoongi lo guarda, alza gli occhi per incontrare quelli supplicanti di Jimin, leggermente più in alto perché ancora seduto sul muretto.

Lo fissa un attimo, poi annuisce e poggia la bottiglia di vetro nuovamente sul muretto, accanto alla gamba di Jimin. Ma la sua mano non si ritrae subito, non si ferma lì: le sue dita si poggiano esitanti proprio sopra la coscia di Jimin, i polpastrelli a scivolare verso il basso, a tracciare un percorso immaginario che scotta, che lascia dietro di sé una scia rovente, un fuoco inestinguibile, fino a poggiarsi sul suo ginocchio, restare lì, immobili e brucianti.

Il vento soffia, gli sposta una ciocca di capelli davanti agli occhi, ma le sue pupille rimangono incastrate in quelle di Jimin, affogano nel mogano delle sue iridi, accarezzano ogni angolo di quelle orbite delicate e familiari.

Jimin resta immobile, sospeso tra una vibrazione che non attende altro che un’irrisoria, infinitesimale concessione per tramutarsi da sogno a corporeità, e una lucidità fredda, calcolatrice, cosciente di essere in equilibrio su un filo di ragnatela.

Yoongi è imperturbabile, inarrivabile, indecifrabile, se non sia per lo sguardo di un’intensità abissale, frastornante, nero come l’ebano e impressionante quanto un cielo in fiamme. Occhi fissi nei suoi senza esitazioni, senza remore, senza pietà: una sfida aperta, lanciata con la fatalità di un dardo nelle tenebre.

Finalmente mi vedi. Mi vedi davvero.

Quanto silenzio c’è, adesso.

Immobile. Greve. Saturo.

Il silenzio di quando il passato e il futuro si annichiliscono a vicenda e il presente si riduce allo stato primigenio, della stessa potenza di una scintilla che incontra una distesa d’ossigeno.

La luce viene a mancare, il tramonto a sprofondare completamente alle loro spalle, silenzioso e complice.

Respiri pesanti come il vento, taglienti come l’aria che spira, carichi di scariche elettriche che si irradiano lungo le braccia, il collo, dentro le vene, dentro il cuore.

Yoongi lo bacia con labbra al sapore di birra, il mento inclinato verso l’alto e le mani premute contro le sue ginocchia per sollevarsi verso il volto di Jimin.

Un bacio soffice nella sua semplicità, delicato nella sua veemenza, la contraddizione tra la completezza assoluta e la disperata certezza che non sarebbe mai stato sufficiente. I capelli di Yoongi, quelli che ha bramato di scarmigliare, arruffare, toccare, gli accarezzano il collo quando il vento li sposta, causandogli un brivido serico, fresco, che si trasmette alla carne nell’arco del respiro a cui si abbandona quando schiude le labbra e lascia che Yoongi lo esplori, lo tocchi, lo assaggi.

Lascia che Yoongi lo baci, lo baci e gli entri dentro, dentro al cuore, ancor più di quanto già non vi sia.

Lascia che gli faccia male, con i denti quando gli afferra il labbro inferiore, con quell’amore che lo ha sempre ferito e che continuerà a ferirlo.

Ma è sempre parte di quel dolore che ama, che ha imparato ad amare e con cui ha iniziato a convivere, un’appendice del suo cuore, della sua anima.

Poi la bottiglia di birra cade, spinta dal vento, rotola a terra con un suono vitreo.

E scoppiano a ridere, felici come se il mondo non esista, come se questo momento, questo attimo, sia eterno.

Jimin lascia cadere la testa dove ormai sente il bisogno costante di poggiarla, il profumo del collo di Yoongi lo stesso di sempre, forse ancora più buono.

E soffoca lì la sua risata, col naso contro la pelle soffice e il sorriso contro la maglietta.

 

***

 

Smettere di respirare, per un attimo, affondando la caviglia nell’ennesimo paio di scarpe, il bottone dei pantaloni che preme troppo sulla vita, il tessuto della maglietta che rimane appiccicato alla pelle umida di sudore, sudore che cola per il nervosismo, l’agitazione, la consapevolezza che la porta del backstage è l’unica cosa che li separa dal palco, da quell’immenso e spaventoso palco, terrificante come la prima volta che vi sono saliti, così grande da ridurti un puntino minuscolo, da farti sentire insignificante, da farti domandare se sarai davvero in grado di dominarlo, di mettere piede lì e fare finta che sia esattamente dove senti di appartenere, l’unico posto in cui vorresti trovarti.

E invece dentro tremi, urli, imprechi. Dentro sei un disastro, un tornado confuso di sentimenti contrastanti che si accalcano l’uno sull’altro e si annodano in maniera indissolubile, fino a formare una matassa di paura che ti rimane dentro, radicata nell’animo.

Jimin ha paura, come ogni volta che deve salire sul palco, come ogni volta che solleva le palpebre e si rende conto che il mondo si aspetta così tante cose da lui, proprio da lui, che non sa se sarà in grado di riuscire a farne anche solo una.

E poi si sente chiamare, si alza in piedi quasi come se il suo corpo fosse un macchinario e si dirige dietro il palco, il buio ad avvolgerlo e il solito spiraglio di luce a ricordargli che a breve sarà abbagliato da riflettori, flash, telecamere.

Sente il petto dolere, i polmoni lottare per inalare aria nel modo giusto, con regolarità.

Si era quasi dimenticato come fosse, dopo questo periodo di pausa, ed invece eccolo nuovamente qui, eccolo nuovamente col fiato corto.

Com’è stato facile respirare fino ad ora, respirare l’amore nell’ossigeno, ubriacarsi di contatti ad occhi chiusi.

Ha finalmente trovato ciò che lo riempie, ciò che lo fa sentire completo, un po’ più giusto, un po’ meglio.

Ha trovato Yoongi, il suo motivo, il suo ingranaggio mancante.

Lo ha nascosto dentro di sé, dentro quei vuoti che non è mai riuscito a colmare, e lo ha reso la diga che regge i pezzi del suo cuore, quella diga che evita che tutto crolli e si infranga contro il suolo ostile.

Yoongi lo è sempre stato, è sempre stato ciò che gli dà fermezza, gli concede forza e stabilità, ma ora sa di poterlo avere, sa che, allungando la mano, troverà quella di Yoongi pronta ad afferrarla e stringerla per rassicurarlo, sa che, cercando il suo sguardo, non dovrà preoccuparsi di non incrociarlo, perché sarà già poggiato su di lui, con quell’intensità che ha a lungo sognato, desiderato, agognato.

E’ questa sua necessità, questa sua necessità perdente che, dal primo momento in cui è nata, non è mai svanita, mai affievolita.

Jimin adesso sa cosa significa vivere Yoongi, viverlo davvero, viverlo appieno, in tutto e per tutto.

Ha frantumato città, scavato pozzi e dipinto un cielo strano fatto di colori epilettici e rumori daltonici. Tutto con un solo dito, lento, lungo la sua spina dorsale.

Ha scelto di essere ciò che voleva, e ha scelto di esserlo con Yoongi. Ha scelto di essere tutto, al buio, nel buio, nel silenzio, essere buio.

Gli sguardi lontani ma sempre vicini, sempre pronti a riprendersi, a ritrovarsi in quella corsa, in quella folla, in quelle luci.

Ha scelto di essere buio, buio con Yoongi, perché in una vita passata sotto i riflettori, l’unica e sola verità la si trova nel buio, e la sua verità è ciò che gli dice il cuore, ciò che i suoi battiti cantano quando sono in sincronia con quelli di Yoongi, tra quattro pareti della stanza del dormitorio, sotto le coperte, i calzini sporchi a solleticarsi, le dita sudate intrecciati, le risate alle tre di notte e le tapparelle delle finestre abbassate.

Buio. Solo loro e il buio, perché non hanno bisogno di nient’altro: nessun riflettore, nessuna telecamera, nessun microfono, nessun palco, nessun pubblico.

Loro e i loro cuori, un cuscino dalla federa stropicciata e la solita bottiglia di birra lasciata ai piedi del letto o sul comodino da Yoongi.

E quindi hanno chiuso le finestre e insonorizzato i respiri, riempito la stanza di bolle di sapone che bruciano gli occhi.

Sfiorarsi, stropicciati. Stiracchiarsi dietro le pareti.

Yoongi aveva paura che non avrebbero più visto un tramonto come quello di Seoul quella sera.

Allora Jimin glielo ha promesso. Gli ha promesso quello e il sole, la pioggia, le neve e i fiori. Gli ha promesso di nuotare nell’erba e affogare nel vento. E gli ha promesso di amarlo, sempre e comunque, nel buio e in qualsiasi altra luce.

Adesso Jimin ci ripensa, ci ripensa mentre il cuore accelera, il tempo passa e manca solo un minuto, un minuto all’esibizione.

Aspetta, aspetta che i suoi respiri erratici si condensino nel fumo scenografico che annebbia l’aria e serra i pugni.

Poi i suoi occhi corrono alla sua sinistra, dove corrono sempre, attirati come da un magnete potentissimo.

E incontrano immediatamente quelli di Yoongi, che lo guarda, che lo vede.

Ci sono sessanta secondi in un minuto, ma Jimin ne conta sempre cinquantadue.

Con una vita come la loro, è sempre meglio fare tutto in anticipo; gli atti corrono, le particelle si spostano in confusione, i respiri si alternano erratici, i battiti pulsano troppo veloci, i pensieri arrancano uno sopra all’altro.

Quindi, cosa fare negli ultimi otto secondi prima del termine di un minuto?

Baciarlo. Baciarlo quando nessuno sta guardando e contare i secondi sulla sua lingua, scandirli con i suoi battiti così vicini.

Perché Jimin vuole che Yoongi sia anche il suo ultimo secondo e tutti quelli seguenti, tutti quelli che passeranno, che sembreranno fermarsi o che correranno troppo velocemente.

Jimin vuole che Yoongi sia il suo tutto, come è sempre stato, come gli sussurra contro il collo quando vi affonda il viso per l’ennesima volta e vi stampa un sorriso.







Hello gente ^^
Ho creato un nuovo account su efp solo per pubblicare questa os e perché ho deciso di farne uno interamente dedicato a storie sui bts e, in particolare, sugli yoonmin.
Ho poco da dire su questa prima os. E' ispirata a questo tweet ed è una delle poche cose fluff che pubblicherò in vita mia.
Ho voluto rendere Jimin una pallina tenera che ha bisogno di affetto ed è pieno di insicurezze e Yoongi quello un po' più distante e freddo all'apparenza ma che in realtà ha un soft spot per Jimin la pallina perché awh.
Spero che abbiate apprezzato e, se volete, lasciate una recensione per rendermi super happy.
Mi trovate anche su twitter <3

Petra

   
 
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