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Autore: fran79    10/05/2017    1 recensioni
Stagione 2, episodio 4.
«E... la Lisandri non si è vista questa mattina?»
«Non ce la fa a salutarti.»
«Non importa. Io e lei ormai siamo in contatto astrale...»
E se invece...?
Un momento che non c'è stato, ma che poteva essere così.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dottoressa Lisandri, Leo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro. I personaggi appartengono alla Palomar Television & Film Production.
La battuta finale, in corsivo, è tratta dal film e la vicenda originale, quindi, riparte da lì.


 
I Braccialetti stanno caricando la canoa sul pulmino. Ormai sono pronti a partire, il motore è acceso e Cris è già seduta al volante. Mentre aspetta che Toni sbrogli uno dei cavi e glielo passi per legare la canoa sul tetto, Leo getta uno sguardo verso l’ospedale. Se ne sta andando e non tornerà: si sente sollevato, sta facendo la cosa giusta… eppure non può non guardare con affetto e un pizzico di malinconia a quell’edificio. Ci ha vissuto. Tutte le esperienze dei suoi coetanei fuori, lui le ha vissute lì dentro: forse diversamente, ma le ha fatte. E sa bene quanto la sua vita sarebbe stata diversa anche solo senza una delle persone che ci ha incontrato.

I suoi occhi vagano sulla facciata. E d’un tratto la vede: una figura ferma a una finestra del primo piano.

La Lisandri.

Non si sono salutati, lei non si è fatta vedere. E adesso è lì, a guardarlo andare via.

Leo rimane a fissarla. A raccontarla così, sembra che passi chissà quanto tempo, ma in realtà sono pochi secondi. Poi lei se ne accorge. Il suo sguardo incrocia quello di lui… e si ritrae. Bruscamente. Sembra che svanisca, tanto è rapida ad allontanarsi.

Leo è già saltato giù dal vano del portellone dove, fermo in piedi, aggrappato al portapacchi, stava aspettando quel benedetto cavo.

«Torno subito, ragazzi!»
«Dove vai?» gli grida dietro Cris mentre lui si sta già allontanando.
«Ho dimenticato una cosa. Aspettatemi, arrivo!»

Corre, Leo. Corre nell’unico modo in cui riesce, con l’andatura un po’ interrotta di chi non ha più un ginocchio vero da piegare. L’ha sempre odiata, quell’assurda pseudo-corsa saltellante, eppure in questo momento non ricorda nemmeno di avere una gamba artificiale. Torna a varcare quella soglia da cui è uscito pochi minuti fa e che credeva non avrebbe mai più oltrepassato, e ha talmente fretta che non aspetta neanche l’ascensore: sale a piedi, tentando con poco successo di proseguire la corsa su per le scale. Sono solo tre brevi rampe, ma gli sembrano lunghissime, e mentre le percorre spera con tutto se stesso che la Lisandri sia ancora nel suo studio, che non abbia deciso di non farsi trovare. Non la vede dall’altra sera, da quella conversazione nel campo da basket sul tetto, da quell’abbraccio seguito alla confessione di un affetto che lui immaginava (lei è cambiata tantissimo in quest’anno) ma che… beh, sentirsi dire è un’altra cosa. L’ha vista soffrire, si è accorto che tratteneva a fatica le lacrime, e sa che da allora lei lo ha evitato di proposito, perché non ce la fa proprio. Prima ha detto ad Alfredi che non importava, lo pensava davvero, sarebbe partito tranquillo; ma dopo averla vista alla finestra ha capito che no, non può andarsene senza salutarla.

In cima alle scale riprende a correre. Arriva a un passo dalla stanza della Lisandri con il fiatone, per l’ansia più che per la corsa. Non guarda subito dentro, teme di non trovare nessuno. Fa’ che ci sia, fa’ che ci sia…

C’è. La vede attraverso le stecche della tapparella che è abbassata, ma non chiusa. È di spalle, le braccia conserte, rivolta alla finestra. Come prima. Come se non si fosse mai mossa. Invece poco fa si è mossa eccome. E adesso non c’è niente da guardare, là fuori, perché lui è qui e i Braccialetti non possono partire finché non sarà tornato.

Lo sta aspettando. Leo non saprebbe dire come gli giunga questo pensiero, ma appena se lo trova in mente sa che è vero. È una sensazione di pelle, fortissima, inequivocabile. Così forte che, appena riprende fiato, abbassa la maniglia della porta ed entra. Senza bussare e senza parlare.

Lei resta immobile. Non si volta, non fa nessun gesto. Come se nemmeno se ne fosse accorta. Eppure Leo è perfettamente convinto non solo che abbia sentito, ma anche che sappia benissimo che è lui. Glielo conferma un suo lieve sollevarsi delle spalle, dal quale si intuisce un profondo respiro.

«Non si bussa più?»

Quanto si detesta, Maria Pia Lisandri, per quel tono secco, quasi tagliente. Non lo ha mai avuto così, neanche prima, quando era una persona diversa. Ma, come e più di allora, in questo momento la freddezza e il distacco sono l’unica difesa che ha. Non può opprimere con il suo dolore un ragazzo che ne ha già abbastanza del proprio, e deve rispettarne la decisione: però, o si trincera dietro una durezza che non le appartiene, o rischia di crollare. Sarebbe meglio che lui, ferito, se ne andasse, che si arrabbiasse con lei e la considerasse insensibile: sarebbe più semplice. Ma sa bene che non lo farà. E, come sapeva che sarebbe venuto fin da quando ha incontrato i suoi occhi giù nel parcheggio, sa anche che non potrà voltargli le spalle per sempre. Ed è quello che teme di più.

Quell’accoglienza sorprende Leo, ma per non più di un secondo: la maschera della Lisandri è già caduta una volta, l’ha vista cadere lui stesso definitivamente, e non può più ingannarlo. Un lieve sorriso gli distende le labbra. Non si dovrebbe rispondere a una domanda con un’altra domanda, ma lui non ha mai badato molto alle formalità. Quando parla, il tono è leggero.

«Se avessi bussato, non mi avrebbe fatto entrare?»
«Non hai bussato, quindi il problema non si pone.»

Una frase che è un campionario di indifferenza. Che fatica sostenere questa recita. La Lisandri aspetta una risposta che non arriva; e, lei che vorrebbe parlare il meno possibile, si accorge di non riuscire a sopportare il silenzio.

«Perché sei qui?»

Ecco, la domanda più cretina del secolo. Se non fosse occupata a travestire da collera la sofferenza lacerante che ha dentro, potrebbe persino mettersi a ridere. E invece trema, perché non avere il controllo di ciò che dice significa essere completamente disarmata. Non che non lo sapesse, ma sentirselo addosso così è mille volte peggio.

«Volevo salutarla. Dovevo salutarla.»

Leo ha parlato più piano, calcando appena sul cambio di verbo. Così come poco fa, anche senza vederlo, gli ha sentito il sorriso nella voce, ora la Lisandri si accorge che è tornato serio. Il cuore le si fa più stretto di quanto già non sia. E, per reazione, parla con ancora maggiore asprezza.

«Era meglio di no.»
«Lo so.»
«E, se lo sai, perché sei venuto?»
«Perché era meglio per lei, forse, ma non per me.»
«Quindi hai pensato solo a te stesso.»
«Esattamente.»
«Sei un egoista.»
«So anche questo.»

Lo scambio di battute è talmente rapido che manca poco che si sovrastino a vicenda. L’impennata improvvisa di una conversazione ormai surreale. Leo adesso incalza, provoca, vuole che la sua dottoressa perda il controllo. Maledetto autocontrollo. Come se lui non lo conoscesse e non lo sentisse tutto, il dolore che sta dietro quel tono gelido. Non è arrabbiato né, tantomeno, si sta divertendo; ma non ha intenzione di andarsene finché lei gli darà le spalle. Vuole guardarla negli occhi, dirle… No, non sa che cosa le dirà: lo saprà quando sarà il momento. Però ne ha bisogno, ed è convinto che sia lo stesso per lei.

Ma prima occorre sgretolare il muro. Vacilla, ma non è ancora caduto.

«Vuole che me ne vada?»
«Dieci minuti fa te ne stavi già andando.»
«E lei era lì a guardarmi.»
«E la cosa ti ha turbato così tanto da venire fin qui a dirmelo?»
«Non sono venuto per questo. Lo sa.»
«Io non so niente. E se per caso sei qui a cercare approvazione per la colossale idiozia che hai deciso di fare, hai…»
«Basta. – Ora la voce di Leo è bassa, calma, ma inflessibile. – Basta con questa commedia. Non ci crede nessuno. Neanche lei.»

La Lisandri tace. È finita. Messa alle corde da un ragazzino. Ma di non avere speranza davanti a lui, lei lo sapeva già. Non puoi averne, quando ti senti madre più che se avessi partorito.

Resta immobile dove si trova, ma il suo sospiro, pur trattenuto, non sfugge alle orecchie di Leo.

«Lei non è arrabbiata con me – riprende lui, piano. – E può cercare quanto vuole di farmi imbestialire, di ferirmi, di farmi credere che improvvisamente non le importa più niente: non funziona. Per almeno tre motivi.»

Silenzio.

«Vuole sapere quali sono?»
«Sono tutt’orecchi.»

Un estremo tentativo di sarcasmo in cui riecheggia una struggente stanchezza.

«Primo. Stava alla finestra a guardarci partire. C’è rimasta finché non si è accorta che l’avevo vista. Io poi sono venuto di corsa… ma lei lo sa che corsa è la mia. Ho fatto persino le scale a piedi, ci ho messo una vita. Se non voleva vedermi, perché è rimasta qui? Sapeva che sarei venuto, lo ha capito, mi conosce. Se avesse voluto, nel tempo che ci ho impiegato a venire poteva andarsene ovunque, poteva tranquillamente non farsi trovare. E invece io arrivo e lei non si è mossa. Mi aspettava. Tanto è vero che quando sono entrato ha capito che ero io anche se sono stato zitto.»

Lei non risponde. Anche se volesse, ha la gola serrata.

«Secondo: quando prima sono venuto qui a firmare le dimissioni, ho chiesto di lei ad Alfredi. E lui non mi ha detto “non vuole salutarti”, mi ha detto “non ce la fa a salutarti”.»

Leo fa una pausa di qualche attimo. Non si aspetta una risposta, ma sa che, dopo quanto sta ancora per dire, il muro franerà del tutto. Sorride.

«Terzo… – e nella sua voce c’è la dolcezza di una sottile, quieta ilarità trattenuta – da qui si vede la sua faccia riflessa nel vetro.»

La Lisandri sussulta. Aveva chinato leggermente la testa, la rialza di scatto. Le braccia, che ha sempre tenuto conserte, le ricadono lungo i fianchi. Si rende conto che è vero: la finestra, che a quell’ora è per metà in ombra, rimanda fedelmente il suo viso; e, se ora riflette tutto il suo sbalordimento, sicuramente fino a un istante fa ha rispecchiato intera la sua sofferenza. Crolla il capo e scoppia a ridere di colpo, come poche altre volte le è capitato di fare. Non riesce a trattenersi. Ed è una risata che assomiglia tremendamente a un singhiozzo.

Mentre parlava, Leo ha fatto un passo avanti, poi un altro. E lei, quando finalmente si volta, non ha che da aprire le braccia.

È un abbraccio totalmente diverso da quello di due sere prima. Sembra trascorso moltissimo tempo. Di quello che era il culmine di un groviglio di notizie devastanti, di scelte istintive, di emozioni tumultuose, è rimasta solo la profondità dei sentimenti. C’è la commozione, intensissima, ma non più l’onda dell’emotività. È un gesto che ha in sé qualcosa di definitivo, che parla di una decisione consapevolmente presa e di un’accettazione sofferta, ma ormai risoluta. Sembra che Leo in questo abbraccio riposi, che ne stia traendo tutta la forza che dovrà servirgli per quello che verrà; ed è come se la Lisandri si riempisse della sua presenza, per averlo con sé anche quando non ci sarà.

Non accennano a separarsi. L’unico movimento è quello della mano di lei, che carezza lievemente e ininterrottamente la testa calva di lui. Il silenzio è colmo di tutte le parole che non riescono a dirsi: tanto che, quando a un certo punto Leo parla davvero – ed è solo un sussurro – sembra un discorso interrotto.

«Lo capisce, vero, che io non ce la faccio più… che non ho più le forze?»

Lei se la fa davvero, questa domanda, e la risposta le giunge quasi con stupore: sì, lo capisce. Fino a poco fa credeva che capire significasse necessariamente anche approvare: e invece no, se ne rende conto adesso che ha tra le braccia questo ragazzo, questo figlio che bisogna per forza lasciar andare, perché ora ha il diritto di scegliere e decidere da solo. È giusto così, anche se lacera l’anima. E lei lo sa che Leo ha sempre combattuto, e che prima o poi anche i migliori combattenti conoscono la stanchezza. Approvare non può, non potrà mai, ma non è questo che le viene chiesto. Leo le sta chiedendo solo di svestire per un momento il camice bianco: ed è difficile, fa malissimo, come togliere una garza incollata a una ferita, perché per troppo tempo ha quasi smesso di farlo. Ma, da quando ci sono i Braccialetti, lei non è più quella che era.

Annuisce semplicemente, perché non è sicura di poter controllare la voce, ma sa che a lui basterà. È il “sì” del distacco: il dolore acuto di questa certezza le piomba addosso sotto forma di un tremito improvviso che, per una frazione di secondo, la attraversa con violenza. Leo se ne accorge e, con un gesto istintivo e tenerissimo, la stringe più forte. E, mentre le sue braccia cingono le spalle di lei, capisce anche che cosa gli resta da dirle.

«Anche se me ne vado… lei non mi abbandona, giusto?»

Una supplica. Un bisbiglio che ha più forza di un grido. E la Lisandri, per rispondere – perché stavolta non può non parlare – deve letteralmente soffocare un singhiozzo.

«No. – Vorrebbe aggiungere “ti aspetto”, ma sa che non sarebbe giusto. – Io sono qui.»

Lo sente rilassarsi, premere il viso contro la sua spalla, emettere un lungo sospiro. Poi è di nuovo silenzio, dentro un abbraccio che dura ormai da parecchi minuti e non sembra volersi interrompere.

È lei, alla fine, a decidere per prima di terminarlo. È così che deve essere. Lo fa non appena è sicura di riuscire a esercitare un sufficiente controllo sulle proprie emozioni. Si scosta da lui quel tanto che basta a guardarlo negli occhi, e in realtà è il primo momento in cui riesce veramente a farlo da quando è entrato. Gli prende il viso tra le mani, in un’ultima carezza. Vede che due lacrime, di cui probabilmente nemmeno lui si è accorto, gli si sono fermate appena sotto le palpebre, e, con la stessa tenerezza disinvolta che userebbe se fosse una mamma e lui un bimbo di pochi anni, le asciuga con il pollice.

«Va’ – sorride. – I tuoi amici ti aspettano. E non piangere. Promettimi… – ed esita un istante, per riuscire a mantenere un tono normale – che sorriderai sempre.»

Leo ricambia il sorriso, annuisce.

«Mi tolga una curiosità – mormora, mentre le sue mani stringono ancora le spalle di lei. – Ma i medici… non piangono proprio mai?»

Vede distintamente i suoi occhi riempirsi di colpo di lacrime: come riesca a trattenerle è un mistero.

«Un medico non può piangere. – La voce è ferma, ma è un soffio. – Non deve piangere. Almeno finché è davanti ai pazienti… e ha il camice indosso.»

Leo la guarda per qualche attimo, fa cenno di sì, poi fa un passo indietro.

«Vado – soggiunge quietamente. – I Braccialetti giù si chiederanno dove sono finito. – Fa per voltarsi, ma ci ripensa. – La lascio sola. Così, se vuole… può togliersi il camice.»

Le ultime parole le ha dette sorridendo, con dolcezza; e lei distoglie lo sguardo, perché non ce la fa più.

«Grazie. Di tutto.»
«Non dirlo, Leo…» Stavolta la voce le trema davvero.
«Lo dico, invece – replica lui, serio – perché è vero.»

Tende una mano, lei la stringe. La stretta di chi vuole dare e ricevere forza. Si lasciano così, essendosi detti, in fondo, pochissime parole. Ma erano tutte quelle che servivano.

Rimasta sola, Maria Pia Lisandri resta per un paio di minuti a guardare la porta da cui Leo è uscito. Il pianto che prende alla gola ha lasciato il posto a una commozione composta, dolorosa ma serena. Si avvicina alla finestra e, quando lo vede spuntare nel parcheggio e dirigersi spedito verso il pulmino rosso presso cui lo aspettano i suoi amici, capisce che Leo ha avuto ragione anche stavolta. Non rivederlo avrebbe forse attutito il dolore nell’immediato, ma sarebbe stato molto peggio dopo.

Attraverso la finestra chiusa le giungono lontane le voci dei Braccialetti che accolgono festosi il ritorno del loro leader.

«Oh, ragazzi, ma non l’avete ancora caricata ‘sta canoa?»
«Cavolo, Leo, era ora! Ma dov’eri finito?»
«Dai, su, che abbiamo da fare un casino di strada…»
«Vabbè, ragazzi, ho capito che se manco io qui non si combina niente…»

Scherzano, battibeccano, ridono. Cris è scesa, gli cinge il collo con le braccia, lo bacia; lui la solleva da terra e gira su se stesso. Non sembra neanche malato in questo momento, la protesi nemmeno si vede, persino la testa rasata potrebbe essere naturale. Se solo…

Sente di nuovo le lacrime pizzicarle gli occhi. No, basta. Se ha fatto promettere a Leo che sorriderà sempre, bisogna che ci provi anche lei. Glielo deve.

Sente la porta aprirsi, si volta… e il sorriso arriva spontaneo. Andrea. Ma come fa a sapere sempre qual è il momento giusto per comparire?

Il dottor Alfredi si avvicina alla finestra e, senza parlare, rimane con lei a guardare i ragazzi che stanno partendo. E lei non sa che ha notato perfettamente i suoi occhi lucidi, e tantomeno che era lì fuori dall’ufficio fin da quando è arrivato Leo, e che ha visto tutto. Sa solo che, mentre guarda i Braccialetti che legano finalmente la canoa sul pulmino, sente un enorme peso scivolarle via dalle spalle. Leo è felice e questo le basta. Le deve bastare. Tanto che si volta verso il collega con una breve risata, che lui ricambia.

«Non è incredibile? Doveva partire solo e triste… e invece hai visto come ridono?»



Grazie a chi leggerà e vorrà eventualmente lasciare un pensiero.
   
 
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