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Autore: lillabulleryu    10/05/2017    3 recensioni
Lance McKlain ha un sogno: diventare un famoso attore di teatro! Una possibilità interessante sembra presentarglisi, ma dovrà collaborare con Keith Kogane, pianista hipster patito di jazz e caffè...
(Come molti potranno perspicacemente notare, la fanfic è ispiramente liberata al quasi omonimo film La La Land. Quello che si sono sbagliati a darci l’Oscar come miglior film, per intenderci. Che ne ha comunque vinti un casino, era candidato per almeno quattordici.
Non contiene: tip tap, citazioni di musical d’epoca, Frédéric Chopin, attrici che diventano famose e parlano francese per fare più le fighe, glutine
Contiene: snobismo, parolacce, frutta a guscio, jazz, tai chi, cose inventate, cose non inventate, glutine
Potrebbe contenere tracce di Franz Liszt e nicotina.)
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Gunderson Pidge/Holt Katie, Kogane Keith, McClain Lance, Takashi Shirogane, Un po' tutti
Note: AU, Lime, Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Il tempo era il solito inesorabile stronzo.
Hunk avrebbe dovuto dargli il cambio al lavoro da almeno venti minuti. Ma a lui importava? Era rilevante che lui avesse un appuntamento tra mezz’ora dall’altra parte della città? Che il suddetto appuntamento fosse un provino da cui dipendeva la sua carriera di attore?
Ma per favore. Naturalmente no. Quelli erano problemi dei mortali, mica del tempo. Se la vedano loro con l’incazzatura, la bile, la fretta, l’ansia da prestazione, eccetera.
E non era l’unico a strafregarsene. Lance guardò lo schermo del cellulare per l’ennesima volta. Nulla. Hunk si era preso una pausa dal piano dell’esistenza. Non aveva mai provato tanto odio ingiustificato per il suo telefono.
A forza di controllare sulla schermata di conversazione non aveva più bisogno di rileggere il testo dell’ultimo messaggio ricevuto. Lo riconosceva a colpo d’occhio dalla forma delle righe e degli spazi: c’è traffico arrivo aspetta. Niente maiuscole, niente virgole.
Già si immaginava la lapide con incise le sue ultime, eroiche parole. E di fianco la sua in coordinato: Lance McClain. C’era traffico, Hunk arrivava, lui ha aspettato.
L’unico dettaglio che cambiò sul monitor fu il minuto.
Torse l’asciugamano come un immaginario collo di Hunk; la mezz’ora a disposizione per raggiungere lo studio si assottigliava e lui doveva ancora farsi una doccia. Ingoiò gli improperi che saltellavano roventi in gola come popcorn; poco mancò che gli scappasse un porcone quando un cliente cercò di attirare la sua attenzione. Per miracolo, riuscì a fare appello al residuo di professionalità ancora incrostato sul fondo della pentola cerebrale.
- Mi dica.
Un ragazzo dagli occhi scurissimi lo fissava gravemente da dietro una folta frangetta nera. Non sorrise, non si schiarì la voce.
- Prima di ordinare, avevo chiesto se sapevate fare un caffè italiano.  – lo informò, serio.
Se quella era la modalità casual per parlare di caffè, quando era ai funerali cosa faceva?
Lance ricordava sia domanda che ordinazione. Non ci aveva dato particolare peso. Quando la gente ti chiede cose per almeno otto ore al giorno, ti abitui a sentirne di tutti i tipi. Perché questo gli stava facendo il reminder gratuito di poco fa? Aggrottò le sopracciglia.   
- Non te l’ho portato?
- Era una schifezza.
Il lapidario verdetto fece stringere gli occhi del ragazzo in un’espressione di disprezzo.
- Era acqua che sapeva di bruciato. Ho guardato, mentre lo facevi. Non hai messo abbastanza caffè nella macchinetta. E poi l’espresso italiano non va servito in una tazza così grande.
Lance non voleva credere che stesse accadendo quello che stava accadendo. Ma quel fiume di parole urticante e quella faccia da schiaffi, sì, erano proprio diretti a lui
- Perché scrivete “espresso italiano” se non siete capaci di prepararlo?
Era ufficiale.
Gli era capitata la chicca.
Il Rompipalle della giornata.
- Senti un po’, frangetta, - cominciò, appoggiando entrambe le mani al bancone con un sospiro scocciato, - Se ci tieni particolarmente al caffè performativo, le opzioni che ti consiglio sono due: o ti fai assumere da un bar e rendi onore alla nobile professione, oppure te lo prepari a casa e non frangi le palle!
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto, accigliandosi più di quanto già non fosse.
- Quindi non solo non sai fare il caffè, ma non sei neanche capace di parlare coi clienti.
La pazienza di Lance aveva ormai la durezza del guscio di un uovo.
- Quindi non solo vuoi rompere i coglioni, vuoi anche che io ti auguri di non uscire più dalla Magica Landa del Cesso!
Il cliente increspò le labbra in una smorfia sarcastica: - Dovrei sentirmi insultato?
- No, dovresti levarti di torno!
Lance indicò la porta stizzito. Al diavolo la diplomazia, è sprecata per gente così!
- E sentiamo, chi ti dà il diritto di darmi ordini?
- Il diritto di non perdere del tempo con le tue cazzate!
- Non mi sembravi particolarmente affaccendato, visto che stavi guardando il telefono. – sentenziò il ragazzo freddamente.
Era troppo: qualcosa scattò con violenza sanguigna in Lance. Sbatté rumorosamente i palmi sul bancone e spinse in avanti, arrivando così vicino al volto dell’altro che quasi le loro fronti si toccavano. L’assoluta indifferenza in quegli occhi era altra benzina che veniva gettata sui suoi nervi in fiamme.
- Hai bisogno di aiuto per trovare l’uscita?! – ringhiò.
- Lance!!! Ma che stai facendo, sei impazzito?!
Non si seppe mai con quale replica sarebbe stato provocato: Hunk si precipitò trafelato al bancone e lo strattonò indietro, impedendogli probabilmente di tramortire il cliente con una testata o prenderlo per il collo.
La furia di Lance poté rivolgersi e sfogarsi contro il nuovo arrivato; per motivi diversi, era un sollievo per entrambi. E per tutti quanti gli ospiti del locale, che, a giudicare dai loro volti sgomenti o incuriositi, sembravano aspettarsi l’inizio della rissa da un momento all’altro.
- Che sto facendo IO?! – eruppe con voce stridula. – Ma lo sai che ore sono?! Dove cavolo eri finito?! Sei in ritardo!!!
- Parla più piano… - gli ricordò Hunk, facendogli cenno di tacere.
Si guardava intorno, angosciato dalla reazione di qualche cliente o, peggio, del loro capo. Fortunatamente per loro, quest’ultimo non c’era. Confortato che non fosse in vista, accennò un timido sorriso conciliatorio.
– So che sei arrabbiato, davvero, però ho buone notizie per—
- Non me ne frega niente! – lo interruppe bruscamente Lance. Si era già sfilato il grembiule e poco ci mancò che lo schiaffeggiasse con quello. - Non rispondevi più, non ho il tempo di farmi una doccia e mi sono ritrovato con questo—questo…! Ehi!!! Dov’è andato?!
Il Rompipalle con la frangetta di poco prima si era dileguato. Ed era uscito senza pagare.
 
***
 
Dandyville sembrava un soprannome. Eppure la città si chiamava proprio così. Il suo vanto più grande era un teatro che risaliva al Settecento, e ancora oggi era sede di una prestigiosa Accademia.
Lance McClain sognava sin da piccolo di fare l’attore. Gli avevano raccontato che il suo bisnonno era andato a studiare proprio lì, a Dandyville, e poi aveva girato il mondo con la sua compagnia. E così avrebbe fatto anche lui.
Si era trasferito, aveva studiato all’Accademia, l’aveva accettabilmente conclusa da studente-lavoratore e poi aveva iniziato a fare un provino dopo l’altro. Erano sette anni che poteva vedere la sua famiglia e il suo mare a mala pena una volta all’anno, quattro che lavorava nel bar italiano Segafredo, due e mezzo che viveva in un piccolo appartamento sperduto nella periferia. Divideva l’affitto con Hunk, suo amico fraterno dai tempi delle superiori, perito elettrotecnico e provetto tecnico delle luci, e Jeremy, studente ormai laureando in giurisprudenza. 
Il portoncino di casa era a fianco di un bar che in due anni aveva già cambiato gestione per l’ennesima volta. Attualmente faceva anche Kebab. Era prevalentemente frequentato dalle comunità turche, pakistane e greche della zona.
Recava un’insegna talmente vecchia da non riuscirne più a leggere il nome.
Il proprietario originale non era più in città per potergli chiedere come si chiamasse, e tutti quelli che erano venuti dopo di lui non avevano avuto l’ardire di mettere un’insegna nuova. Si erano affezionati? Erano superstiziosi? Non avevano abbastanza soldi per farlo? Difficile dirlo. Ad ogni riavvio del locale si cambiava qualcosa, più o meno drasticamente, ma l’insegna sopravviveva.
Molti passanti o abitanti della zona, incuriositi, avevano tentato di decifrare quella tavola scrostata grigiobianca e le scritte che, nei periodi di gloria andata, dovevano essere di un bell’azzurro-mare. Come nelle macchie di Rorschach, tutti ci vedevano una parola diversa. La cerchia degli interessati si era accordata per un buffo compromesso: Clarokke.
Per Lance il Clarokke era una sorta di maggiordomo immaginario. Quando aveva bisogno di sfogarsi su qualcosa che era meglio tenersi per sé, poteva sempre contare sul suo appoggio: gli dava ragione senza contraddirlo. Per lui Clarokke stava per “Claro que si”. Ed era tutto quello che gli rispondeva, paziente: Claro. Claro que si.
Il provino è andato uno schifo, Clarokke, annunciò al suo interlocutore metaforico, cupamente. Claro.
Era arrivato talmente trafelato che gli tremavano le gambe. Grondante di sudore, rosso in volto e ansante, incominciò il monologo che gli era stato chiesto di preparare: Diario di un pazzo, Nikolaj Gogol’.  
Avrebbe potuto anche recitare l’oroscopo, tanto la commissione era interessata. Claro.
Un inferno così non lo aveva ancora provato, stava memoriando il pazzo di Nikolaj Gogol’, ed ecco che squilla un telefono. Claro. Come se fosse nel bel mezzo di una giornata qualunque nel suo ufficio, il proprietario risponde. Il pazzo continua, perché sa che non può fermarsi; un’altra, di fianco al signore al telefono, sospira e si stiracchia, poi scorre e picchietta pigramente il dito sul proprio cellulare. Entra una tipa in tailleur che richiama l’attenzione di Smithson, il presunto Smithson risponde e poi le chiede un caffè – ecco che si illumina quella della stiracchiata, mica può averlo anche lei?
E Grazie, gli fa il tipo ancora al telefono, interrompendo a metà la frase del pazzo, ti faremo sapere.
Che giornata di merda. Claro que si.
Si era abituato all’idea che potesse andare così, ma ancora non riusciva a trovarlo piacevole.
Raggiunse con le sue ultime forze la sua stanza; non ne aveva più nemmeno per togliersi la giacca. Lasciò cadere lo zaino per terra e crollò a faccia in giù così com’era sul materasso, come un albero abbattuto.
Timber timber, mormorò contro il cuscino, abbracciandolo stretto per meglio nasconderci la faccia. L’assenza di un odore di casa gli strinse la gola. Ripensò alle nuvole di panna nel cielo estivo, ai colori pastello nelle larghe strade assolate, al divano sfondato del salotto di casa e alla candela a forma di mela che sua sorella aveva messo sul tavolo e tutti scambiavano per vera.
Accidenti al mondo, al teatro, a Gogol’, ai pazzi e al caffè italiano! Vadano tutti in malora!
- Lance? Ci sei?
Al richiamo di Hunk rimase inerte come se non l’avesse sentito.
Ce l’aveva anche con lui. Se ci avesse pensato bene, avrebbe trovato un buon motivo per avercela con chiunque.
- Hai mangiato qualcosa?
Si sentiva in colpa. Lo capiva quella nota esitante che faceva tremare impercettibilmente le sue vocali. E faceva bene. Perché nella merda della giornata anche lui aveva messo il suo contributo in grammi. E poi, perché mangiare avrebbe dovuto servirgli? Non tutti pensano al cibo come un conforto universale!
- Non è andata bene, vero?
Un cuscino fu lanciato a tutta forza con uno scatto fulmineo e brutale.
Hunk era sulla soglia della porta e se lo prese dritto in piena faccia, senza avere il tempo materiale di scansarsi.
- Ma che cavolo!!! – si lamentò lui, portandosi le mani al naso dolorante per il colpo. - Mi dispiace!!! Ho trovato coda in tangenziale, lo sai che è un macello a quell’ora!!!
- E per che caspio non sei partito prima?! – sbraitò Lance, scagliando stizzosamente un altro cuscino. - Ma soprattutto – PERCHÉ HO DOVUTO PAGARE IO IL CAFFÈ A QUELLO STUPIDO COGLIONE?!?!
- Te l’ho chiesto come favore!!! – si difese Hunk, questa volta avendo abbastanza prontezza da evitare il lancio. - Avevo speso tutto per fare il pieno!!!
- Quel maledetto espresso io non glielo offro, hai capito?! PER PRINCIPIO!
- D’accordo, ma se Mechetti scopre che abbiamo fatto uscire un tizio senza pagare…
- MECHETTI PUÒ ANDARE IN CIMA ALLA FORCA, SAI QUANTO ME NE FREGA?! – sbottò Lance con un gesto aggressivo della mano. - QUEL DOLLARO E SETTANTACINQUE CE LO METTI TU!
Hunk giunse le mani in preghiera nel massimo slancio di umiltà che poteva mostrare.
- Va bene, giuro che domani te lo restituisco!
Di fronte a tale accondiscendenza, Lance sembrò sgonfiarsi. Prendersela con Hunk lo faceva soltanto sentire un cane idrofobo.  E anche un po’ un verme. Non si meritava una scenata così poco dignitosa.
Rimase in ginocchio sul letto per qualche istante ancora, poi si lasciò ricadere sul letto con un sospiro.
La rete accolse il suo peso cigolando rumorosamente e lo fece oscillare su e giù.
- Io la odio, la gente. – borbottò Lance con lo sguardo torvo fisso sulle ginocchia.
Hunk si fece più vicino.
- Non è vero. – lo blandì.
Potrebbe anche non essere vero, pensò Lance, aggrottando le sopracciglia, ma adesso non voglio darti ragione.
Quei luoghi non erano riusciti a trasformarsi in un nuovo nido. Ovunque era rimasto straniero. Conoscere le strade, entrare negli edifici, studiare, lavorare, parlare: ecco, rivedeva gli ultimi anni dall’alto ed erano una lunga, nauseante pantomima.
Il ricordo del mare lo lacerava fino a fargli desiderare di piangere.
- Mollo tutto, Hunk.
- Lance…
- No, sul serio. Non sto andando da nessuna parte, così.
Quella frase aveva un sapore acre in gola. Non passava giorno in cui non lo pungolasse per venire fuori e per disseminare germi di dubbio ovunque. Era sempre più insistente, sempre più morbosa. Non voleva crederci, eppure stava iniziando a convincersene. La stanchezza riusciva a penetrare fin nelle fibre del suo animo. Reagire diventava un compito sempre più greve.
- Ehi ehi, frena! – l’amico interruppe il flusso sofferente di quei pensieri. Gli appoggiò una mano sulla spalla e lo invitò a sollevare il volto. - Ho una notizia che potrebbe farti cambiare idea… e magari farmi perdonare!
Il sopracciglio di Lance si sollevò con l’eloquenza di mille scetticismi.
- Anche a me oggi al colloquio non è andata una favola, - cominciò Hunk, ignorando quell’espressione, - Ma ho incontrato Shiro.
- Shiro?! – ripeté Lance, incredulo; - Che ci faceva a un colloquio di selezione per il tecnico delle luci del Teatro Miranda?! Non era tornato in Svezia?!
- È tornato da un paio di mesi. Sta cercando gente nuova da inserire nel cast del suo prossimo spettacolo. Vuole partecipare al Mainard!
Lance strabuzzò gli occhi: due notizie assurde si allineavano una dopo l’altra quali palline su un pallottoliere.
- Quel Mainard?!
Il Mainard era un famosissimo festival teatrale di Dandyville. Si teneva da ormai quarantacinque anni, d’inverno. Potevano partecipare compagnie emergenti da ogni paese, purché portassero un’esibizione di tipo sperimentale e il copione fosse originale. Oltre all’onore della targa che si poteva ricevere in premio, c’erano anche in palio i finanziamenti per portare lo spettacolo in tour e farlo conoscere anche in teatri di fama nazionale. Vincere il Mainard era il sogno di tutti i giovani registi e attori. La sola idea di parteciparvi aveva già fatto palpitare il cuore di Lance come innanzi a una proposta di matrimonio.
- Proprio così. Ha chiesto a me per le luci. E caso vuole che cerchi un ragazzo di bella presenza che sappia ballare e cantare…
- Sul serio?! Mi trovi di bella presenza?!
Hunk si strinse nelle spalle con una smorfia, senza approfondire oltre il discorso.
- Quando gli ho parlato di te, si è ricordato di quando avevi fatto Mi Chico Latino con la compagnia di Lothor.
Fortunatamente era seduto. Sentì distintamente il guizzo nervoso del proprio sopracciglio.
- Shiro… ha visto quello spettacolo…?
Non faceva parte della lista delle esperienze di cui andava più fiero. Sapere che anche una sola persona in tutto il monto potesse testimoniare che si era prestato per quella cosa, gli faceva provare il desiderio di trasferirsi nel deserto del Gobi.
- Fregatene, gli sei piaciuto! – esclamò Hunk, colpendolo energicamente sul braccio per riscuoterlo dall’autismo della vergogna, - Ha detto che vuole vederci entrambi domani dopo il lavoro al Circolo Braun!
- Non—non ha per caso—non è che ha visto quando facevo Orazio di Amleto tre anni fa?! – balbettò Lance, smarrito, - O almeno uno degli spettacoli della rassegna di Dürenmatt dell’anno scorso?!
- Che ne so, mica sono stato lì a fargli la radiocronaca della tua carriera!
Lance si prese la testa tra le mani e si accasciò su un lato con un gemito.
- Come cavolo faccio a presentarmi davanti a Shiro, adesso?!
- Stai scherzando?! È stato lui a darti un appuntamento!!!
- Certo, per te è facile a dirsi!!! – sbottò Lance acidamente, senza riuscire a sollevarsi. – Tanto è a me che lui pensa come Chico Latino!!! Maledetto Lothor, non avrei mai dovuto accettare di farmi coinvolgere!!!
Hunk sospirò, alzando gli occhi al cielo.
- Lo so che sei stressato per la situazione precaria. È difficile per tutti.
A Lance non sfuggì la mestizia e la stanchezza amara che tradiva la sua voce. Si rimise a sedere e sfiorò il braccio dell’amico in un silenzioso cenno di conforto; lui gli sorrise.
- Forse questa è l’occasione buona, no? Ed è per Shiro. Se non è in gamba lui.
Il mare era ancora lontano. Ma sentì il nonno più vicino, e il suo sogno emanava un tepore pari a quello del sole e delle stelle. Valeva la pena di aspettare ancora un po’.
- Cominciamo andando domani al circolo Braun, no?
Il sorriso di Hunk si allargò e fece un’O unendo pollice ed indice.
- Clarokke!



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CHIACCHIERE FUCKOLTATIVE

Se state leggendo, molte grazie!
Ancora ignoro dove porterà questa storia; La La Lance è nata per scherzo, come piccola sfida. Avevo bisogno di riscattarmi da una storia che mi ha indisposto non poco, specialmente per l'ipocrisia e il tip-tap a caso.
Non che pensi di poter fare di meglio, ma almeno avrò il piacere di immaginarmi Keith al piano. *pausa purrr*

Un sentito ringraziamento a Yuki Delleran, perché se non fosse stato per lei:
a) avrei mollato Voltron dopo mezz'ora dell'episodio 1;
b) questa storia non sarebbe mai stata scritta!
Poi, come sempre, a Wren, perché la sua pazienza è un infinito wormwhole in cui mi sticka sempre con amore!
   
 
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