Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Lady_Marmalade    09/06/2009    2 recensioni
“Guarda in alto: cosa vedi?”
“Vedo delle travi malandate e un contro-soffitto che rischia sempre di cedere, tanto è malmesso”
“Respira a fondo: cosa avverti?”
“L’odore della stoffa, del filo usurato, del sudore”
“Chiudi gli occhi: cosa senti?”
“Sento gli insulti del caporeparto, il trambusto delle macchine da cucire. Sento i nostri sospiri”
Primo classificato al contest "Child Exploitation" tratto dalle Olimpiadi di CoS e Writers Arena
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Note: questa è la mia fic partecipante e prima classificata (grazie a tutti, mi avete commosso, e a Vengeance, che ha creato il fantastico bannerino in fondo alla storia) al concorso "Child Exploitation", tratto dal progetto Olimpiadi del CoS e del Writers Arena . Si tratta di una One-shot "Originale". I riferimenti geografici non sono precisi: benché la Pou Yuen esista e i dati su questa fabbrica li abbia trovati su un vecchio articolo del "Corriere della Sera" sulla sfruttamento minorile, non so se sia veramente vicina al Fiume delle Perle; nè credo che dalla Torre Eiffel si possa avvertire lo scorrere della Senna. Il quotidiano Nanfang esiste veramente, ed ha veramente pubblicato un servizio-scandalo sulle fabbriche-carcere cinesi. Non so se la Pou Yuen abbia davvero preso provvedimenti contro il lavoro minorile. La storia è scritta dal punto di vista di Chang, il bambino vittima dello sfruttamento. Questa shot non è stata betata. Buona lettura, spero vi piaccia^^. Commenti, critiche, recensioni et similia, sempre molto gradite e apprezzate.

 

Like a flowing river

 

 

 

“Guarda in alto: cosa vedi?”

“Vedo il cielo, e il tramonto, e le nuvole, mamma” rispondevo, beandomi del sole incandescente che dipingeva le nuvole di rosa.

“Respira a fondo: cosa avverti?”

“Le margherite, l’acqua, e il vento delle montagne” dicevo, inspirando l’odore che possono avere solo i campi in primavera.

“Chiudi gli occhi: cosa senti?”

“Sento gli uccelli e sento…sento il fiume che scorre, mamma” rispondevo, concentrandomi per captare i pochi suoni che rompevano un silenzio altrimenti perfetto.

Erano quasi sempre queste le risposte che davo alle domande di mia mamma, quando ero bambino e ancora mi sembrava di vivere in un mondo incantato.

Erano passati ormai cinque anni e da due non vedevo più la mia famiglia, se non in fotografia. Stavano bene, ma vivevano lontani. Io ero a Dongguan, in fabbrica: la Pou Yuen. Sarebbero diventati tre anni il prossimo mese, e dovetti cominciare a lavorare quando nacque il terzo fratellino. In questo modo, non solo andammo contro la regola che imponeva in media due bimbi a famiglia, ma inoltre ci trovammo con una bocca in più da sfamare quando i soldi già scarseggiavano.

“Guarda in alto: cosa vedi?”

“Vedo delle travi malandate e un contro-soffitto che rischia sempre di cedere, tanto è malmesso”

“Respira a fondo: cosa avverti?”

“L’odore della stoffa, del filo usurato, del sudore”

“Chiudi gli occhi: cosa senti?”

“Sento gli insulti del caporeparto, il trambusto delle macchine da cucire. Sento i nostri sospiri”

Avrei risposto così, se mia mamma mi avesse posto quelle stesse domande. Era stato da sempre un rituale nostro, una specie di scoperta del mondo che ci circondava. Un gioco di cui provavo, in quei giorni, una nostalgia infinita: solo lei e io, con il suono dolce del fiume che scorreva, e le sue mani che per l’ultima domanda mi chiudevano gli occhi, per proibirmi di barare.

Ma un’altra mano tornò a scuotermi dai ricordi.

“Dannatissimo Zheng! Lo vuoi capire o no che devi lavorare?” l’urlo di Yang Hanghong mi trapassò il timpano, la guancia che mi bruciava per lo schiaffo ricevuto.

“Niente pasto per te oggi, lavorerai anche nella pausa!”

Come se non succedesse già una volta ogni due giorni.

“Capito o no, schifoso insetto?” insistè quell’individuo piccolo e borioso, dai capelli unti e dal naso adunco, che avrà avuto al massimo otto o nove anni più di me.

“Sì, signore”. Sì, signore. Disciplina militare, né più, né meno.

La sirena suonò: tutti si alzarono dal proprio tavolo in silenzio. In silenzio si avviarono verso l’uscita, e in silenzio proseguirono verso la mensa, dove avrebbero rischiato l’intossicazione alimentare per l’uso di bambù scaduto. In silenzio sarebbero tornati ai loro posti, dopo mezz’ora di fila per il pranzo e avrebbero ripreso silenziosamente a lavorare.

Lasciai vagare lo sguardo oltre le inferriate che stavano alle finestre: in lontananza si poteva vedere il Fiume delle Perle. Era un bel fiume, potente, libero, non come il fiumiciattolo che scorreva vicino alla mia vecchia casa. Avrei tanto voluto stare sulle sue rive un giorno. Avrei tanto voluto essere come lui: trovare il mio corso lontano da quel posto d’inferno, essere libero. Ma la mia vita, probabilmente, sarebbe trascorsa nella stessa maniera di tutte le altre esistenze prigioniere di quel luogo: un corso d’acqua stagnante, un rivolo fangoso che si sarebbe essiccato al primo periodo di siccità, destinato a spegnersi velocemente.

Sospirai: nessuno di noi amava quel posto, tutti avremmo voluto essere nelle nostre case. O almeno poter uscire per le strade di Dongguan, godendoci il sole che ci era precluso; poter giocare; poter vivere la nostra infanzia che scorreva lenta, scivolandoci tra le dita come l’acqua cristallina del

Fiume delle Perle. Ma ci toccava andare avanti in silenzio, stringere i denti pensando alle nostre famiglie, rispondere con una maschera di rispetto a quegli stronzi per cui lavoravamo. Sì, stronzi. Avevo tredici anni e non avrei dovuto dire le parolacce. Mamma si sarebbe arrabbiata da morire.

 

“Com’è andata la giornata?” era Liu Yiluan a farmi questa domanda. Aveva tredici anni, come me, e anche lui lavorava nella mia stessa fabbrica. Eravamo nello stesso dormitorio dal nostro arrivo alla Pou Yuen. Lui però era in un altro reparto: uno dei capannoni dell’impianto F, confezioni. In parole povere incollavano le suole delle scarpe che fabbricavamo. Aveva le mani deformate dal lavoro. La prima volta che lo vidi rimasi di sale: non riuscivo a distogliere il mio sguardo da quelle dita nodose e completamente storte. “Ehi, sono qua su” scherzò lui, indicando il suo viso. Borbottai imbarazzato, diventando sicuramente rosso come la sanguinea, quella rosa vermiglia cinese a cui, secondo mia mamma, assomigliavo tanto quando mi intimidivo.

Liu però non fece una piega alla mia reazione, e invece cominciò a scherzare, dicendo che le sue mani assomigliavano tanto alle radici di zenzero, e che se mai fosse riuscito a uscire dalla Pou Yuen, sarebbe andato a fare lo chef. “Con tutto lo zenzero che si usa nella nostra cucina, sarei uno dei cuochi più ricercati al mondo. Ho la materia prima proprio nelle mani!” rideva, scuotendomi davanti agli occhi le dita pallide, piegate in angoli innaturali.

“Al solito” risposi io, gli occhi che mi si chiudevano dalla stanchezza. “Tu?” domandai, per evitare che il sonno avesse definitivamente la meglio.

“Io tutto bene, ma è stata una giornata difficile per molti del mio reparto” mi confidò a mezza voce, per evitare di farsi sentire. Nonostante io mi lamentassi di Yang, come caporeparto non reggeva nemmeno lontanamente il confronto con quello di Liu. Questo essere mostruoso era il peggio che potesse capitare: un ex lavoratore, che si rifaceva sulle nuove leve di tutti i maltrattamenti subiti. Circolavano storie orrende sul suo conto: si diceva che avesse portato più di un dipendente alle soglie della pazzia, e che avesse abusato di un paio di lavoratrici. Inoltre voci di corridoio sostenevano che nella tasca interna dell’orrenda giacca marrone che portava, nascondesse un coltello. Mi veniva un brivido di terrore ogni volta che sentivo Liu parlare del suo caporeparto.

“Cos’è successo?” chiesi, ansioso.

“Sai Yao?”. Sì, avevo presente Yao. Un altro tredicenne, un altro campagnolo con troppi fratelli, esattamente come me. Venivamo addirittura da villaggi vicini.

“Sai che i suoi hanno dovuto portarlo qui perché avevano problemi economici”. Mi stava parlando di una storia fin troppo familiare.

“Ecco, il mio caporeparto ha cominciato a insultarlo perché non lavorava abbastanza velocemente.  «Hey, stronzetto, mettici un po’ d’energia nel lavoro che fai, per la miseria»”. Liu scimmiottava il suo capo alla perfezione: una voce profonda e roca, con un accento del Nord che sapeva di poca scolarizzazione, e di un infanzia passata lontana dalle persone che amava.

“Yao non ha reagito e ha provato a lavorare più velocemente, ma erano già due giorni che non mangiava quasi nulla. «Guarda che sto parlando con te. Oppure i tuoi hanno fatto nascere un figlio sordo?». Yao non ha risposto, ma ha cominciato ad arrossire e si è morso le labbra, sai quanto è orgoglioso”. Liu fece una pausa, scuotendo i capelli neri nel buio della stanza.

“Ma il caporeparto ha continuato, imperterrito «Oppure, i tuoi ti hanno lasciato qui perché non ti volevano?»”. Potevo immaginare la voce melliflua, la sottile cattiveria che venava il tono altrimenti soave. Potevo anche immaginare la reazione di Yao.

“Ovviamente Yao non ci ha visto più e gli è saltato addosso. Sai il caporeparto cos’ha fatto?”. Non lo volevo sapere.

“L’ha preso con una mano e tenendolo per il braccio l’ha scaraventato dall’altra parte del tavolo. Con una sola mano! Yao è svenuto sul colpo per la botta, e gli è andata bene che si è solo slogato il polso. Ti rendi conto che si poteva fratturare il braccio? E se ti fratturi un braccio vieni licenziato! E poi sai che ha fatto il caporeparto? Ha sorriso. Sorriso, capito?”

Avevo i brividi. Un misto di freddo e paura si era propagato dentro di me, mentre mi lasciavo andare a un sonno inquieto. Dormii male, sognando gente che mi urlava contro, sfottendomi e dicendomi che non avrei più potuto sentire il fiume che scorreva vicino a casa mia, né ammirare da lontano il Fiume che intravedevo dalla fabbrica, perché sarei stato schiavo per sempre della Pou Yuen. Una vocina maligna mi diceva che non avrei mai potuto essere libero, che sarei sempre stato sotto il controllo di qualcuno. Nel sonno sentii lo stomaco contrarsi per la rabbia e per il dolore.

 

Il mattino seguente, suonò la solita sirena. Sei e mezza, spaccate. Il mondo avrebbe potuto crollare, ma tutti noi a quell’ora dannata, avremmo dovuto scattare in piedi, pulirci le scarpe, lavarci la faccia e vestirci, nel tempo netto di dieci minuti. Mi stropicciai gli occhi, cercando di trovare un appiglio per non ricadere di botto nel mondo dei sogni.

“Chang, Chang, svegliati! Faremo tardi!”. Liu mi scuoteva forte, strattonandomi le coperte e trascinandomi praticamente fuori dal letto. “Andiamo, lo sai che a colazione non ci danno nulla e se arriviamo tardi il cibo fa schifo!”

“Mmh…sì, Liu, sono sveglio” mugulai, mentre mi spruzzavo il viso d’acqua gelida, trascinandomi insieme a lui verso la mensa. Presi la mia ciotola di riso, provando a ricordare che sapore avesse il cibo in realtà: qui era tutto insapore. Insapore, incolore, inodore…la Pou Yuen era un ambiente impersonale. Totalmente privo di vita, benché fossimo oltre 30.000 dipendenti. Un inferno mascherato da lavoro. Bella roba.

Ci sedemmo a un tavolo, aspettando che gli altoparlanti trasmettessero gli avvisi. In caso di ispezioni esterne infatti, dovevamo seguire una procedura diversa: pulire quell’ambiente che nascondeva sempre troppe macchie d’unto e troppi angoli sporchi, sfoderare un falso sorriso di rappresentanza, mostrarci felici di lavorare in quel colosso di schiavismo. “Buon viso a cattivo gioco” come diceva sempre mio padre. Qui purtroppo in gioco c’era il lavoro, da cui dipendeva tutto il resto.

“Non ti sei lucidato le scarpe” mi mormorò Liu, notando una grossa macchia di vernice proprio sulla punta.

“Ma a chi vuoi che importi?” borbottai, mentre una voce atona cominciava a gracchiare dagli altoparlanti.

“Si avvisano i dipendenti del reparto cucito, che oggi il caporeparto è assente per malattia. Il caporeparto dell’impianto confezioni si è gentilmente offerto di curare contemporaneamente le due squadre di dipendenti. I suddetti sono perciò pregati di raggiungere tutti insieme il capannone F”.

La voce si spense, mentre la poltiglia di riso che avevo appena ingoiato, minacciava di rivedere la luce.

 

Dopo aver finito le nostre misere ciotole di riso, io e Liu ci incamminammo all’uscita della mensa, dove ad aspettarci, appoggiato al muro esterno, un sorriso maligno che andava da una

guancia scavata all’altra, stava lui. Io e gli altri minorenni del mio reparto ci guardammo di sfuggita, reprimendo a stento l’impulso di deglutire per farci coraggio: sarebbe stata una giornata d’inferno. Proseguimmo verso il capannone, sotto lo sguardo del caporeparto. Per il momento non aveva ancora detto una parola, limitandoci a fissarci: attento, calcolatore, sembrava aspettasse solo il momento buono per attaccarci, come un rapace che vola in cerchio, bramando che la preda faccia un solo, fatale passo falso.

Erano le undici passate, e avevamo timbrato il cartellino esattamente da quattro ore: le quattro ore più lunghe della mia vita. Ero terrorizzato a morte dal silenzio del caporeparto: girava tra i tavoli, controllando il lavoro di tutti. Mi sudavano le mani, e con la coda dell’occhio vidi Yao, la fasciatura intorno al polso, che lavorava con una smorfia di dolore sul volto infantile. A mezzogiorno, la sirena avvisò i nostri stomaci vuoti che il misero pranzo si avvicinava. Tirammo un sospiro di sollievo, mentre ci alzammo, preparandoci a raggiungere l’oasi sicura della mensa.

“Non ricordo di avervi autorizzato ad alzarvi” sorrise il caporeparto, in piedi davanti alla porta in modo da sbarrarci il passaggio. Un brusio si diffuse tra tutti i lavoratori, mentre ci scambiavamo sguardi attoniti: era normale che il caporeparto punisse un solo dipendente anche tutti i giorni, ma c’era una qualche regola non scritta che vietava di far saltare il pranzo a tutti i lavoratori. Inoltre, eravamo forse il gruppo più bisognoso di cibo: donne incinte, bambini, e ragazzi in via di sviluppo.

“Scusi, signore…” mormorò una donna, alzando timidamente la mano. Era una quarantenne con un pancione decisamente sfacciato, e non mi sarei stupito affatto se avesse partorito in quel preciso momento. Aveva lineamenti dolci, folti capelli neri e, nonostante tutto, aveva quell’aria di serenità che possono avere solo le donne in gravidanza. Mi ricordava tanto mia madre prima della nascita del mio primo fratellino. Tutti la guardavano attoniti, senza quasi fiatare: discutere con un superiore era fuori discussione, in qualsiasi caso e in qualsiasi momento. “Non si deve discutere, mai, per nessun motivo” era una delle prime lezioni che avevo imparato dagli altri lavoratori. Era una specie di imposizione, a cui tutti dovevamo sottostare. Discutere voleva dire avere la peggio, sempre. Era come se le acque del Fiume avessero cominciato a resistere alla corrente: le conseguenze sarebbero state gravissime.

“Sì?” sibilò lui, alzando il mento in segno di disprezzo, quasi a voler scacciare un insetto particolarmente molesto.

“Sono al nono mese di gravidanza, e mi chiedevo, se per caso, non potessi andare di corsa in mensa per poter almeno nutrire il bambino. Il medico della fabbrica mi ha detto che non va bene non mangiare in gravidanza…”

“Il medico è notoriamente un idiota, signora. Quindi per favore la smetta di farmi perdere tempo e torni al lavoro. E anche voi altri fareste meglio a prendere di nuovo posto ai vostri tavoli, se non volete che capiti qualche disgraziato incidente sul luogo di lavoro” rispose schietto, soffocando a stento un ringhio di ammonimento.

“Ma…” provò la donna. Il calcio arrivò senza nessun preavviso, dritto alla bocca dello stomaco della povera lavoratrice. Gli occhi del caporeparto brillavano di una felicità perversa, mentre la signora si accasciava al suolo, in preda ai singhiozzi che volevano soffocare le urla. Le lacrime brillavano sul viso pallido, mentre goccioline di sudore freddo le imperlavano la fronte.

Un moto di rabbia cominciò a salirmi dentro, impetuoso come se il flusso del rancore che avevo covato dentro per tanto tempo, spezzasse tutti gli argini delle ridicole imposizioni di quel carcere mascherato da fabbrica. Nessuno poteva permettersi gesti del genere, nessuno poteva privare qualcun altro della felicità. Nessuno poteva permettere al fiume di rimanere intrappolato.

“Ma… un cazzo” sibilò lui, tornando ad appoggiarsi allo stipite della porta.

Brutto cane schifoso.

“Un cazzo? Lo sa benissimo che il medico di questa fabbrica è il più bastardo di tutti voi, e che se ha detto a questa povera donna che deve mangiare, lo deve fare”. Non seppi mai da dove vennero fuori quelle parole, non seppi mai cosa mi prese mentre stringevo i pugni e sputavo fuori tutta la rabbia, tutte le ingiustizie che avevo passato in quasi tre anni d’inferno. Da una parte ero semplicemente terrorizzato, consapevole che uscire vivo da quella situazione sarebbe stato impossibile; dall’altra provavo quasi una sorta di piacere perverso nel vedere l’orribile viso del caporeparto deformarsi di stupore e ira.

“Cosa?” soffiò lui, ormai di un bruttissimo color mattone.

“Ha sentito benissimo, signore” sorrisi io. Una vocina, da qualche parte della mia testa, urlava ancora, con un po’ di buon senso “Basta, stai zitto!”. Ma ormai, esattamente come un fiume trattenuto per troppo tempo, straripavo, trascinando con me tutto ciò che mi circondava.

“Va bene. Lo vedi quell’altro cretino che ha tentato di rispondermi?” fece lui, avvicinandosi e facendomi girare il mento quel tanto che bastava per poter vedere Yao: il viso abbassato sulle suole delle scarpe che stava cucendo, la fasciatura bianca che risaltava sulla pelle. Era l’unico a non essersi alzato al suono della sirena, l’unico che rimaneva immobile anche ora, continuando a lavorare: aveva rinunciato a combattere. “Il volo che ho fatto fare a lui sarà nulla paragonato a quello che potrei fare a te, brutto stronzetto borioso. Non sei altro che l’ennesimo figlio di puttana, con i genitori troppo poveri perfino per permettersi di offrirti una vita decente. O forse, dimmi, quella puttana di tua madre ha avuto qualche bambino di troppo e ti tocca lavorare anche per lui?”.

Sapevo che non dovevo reagire, sapevo che i miei mi avrebbero detto di lasciar correre e pensare al futuro, sapevo che stavo per fare lo sbaglio più grande di tutti.

“Forse è quello che ha fatto anche sua madre, signore?”. La domanda eccheggiò per tutto il capannone. Seguì un silenzio perfetto, come la pace dopo la tempesta, l’acqua che torna al suo stato naturale dopo essere straripata dal fiume.

Poi, successero tante cose contemporaneamente. Vidi il caporeparto stringere i denti, la mano destra che serrava qualcosa sotto la giacca del completo marrone. Vidi lo sguardo inorridito di Yao, che sapeva già cosa stava per accadere. Vidi la donna, ancora accasciata a terra, sollevare gli occhi scuri. Vidi Liu lanciarsi verso di me, mentre un lampo argenteo brillava nell’aria pesante e viziata dell’edificio. Vidi il Fiume delle Perle scorrere lontano, fuori dalla finestra, libero come non mai, prima che tutto scomparisse nel buio.

 

“Guarda in alto: cosa vedi?”

“Vedo un cielo in cui volano gli aerei, vedo una coltre azzurra che promette libertà, vedo il sole che mi illumina la pelle”

“Respira a fondo: cosa avverti?”

“Qualche profumo costoso, l’odore delle brioche appena sfornate, la fragranza del mezzogiorno parigino”

“Chiudi gli occhi: cosa senti?”

“Sento le chiacchiere animate, sento la vita che scorre intorno a me, sento mille voci e mille suoni”

Sono sulla Torre Eiffel, appoggiato alla ringhiera di uno dei ristornati all’ultimo piano. Sto aspettando che un cameriere venga a prendere la mia ordinazione, in modo che Liu possa cominciare a cucinare. Ormai vive in pianta stabile a Parigi, è fidanzato con una deliziosa ragazza francese, con folti capelli castani e un adorabile nasino all’insù. Liu ora ha delle dita perfette, sistemate da un bravo chirurgo, anche se sostiene scherzosamente che le sue vecchie radici di zenzero gli mancano un po’. Da quando siamo venuti la prima volta, non ha più voluto mettere piede in Cina. Io invece faccio il pendolare Parigi-Pechino-Dongguan.

La Pou Yuen ormai è totalmente diversa, grazie all’associazione umanitaria con sede principale in Francia, che ha salvato la vita a me, a Liu, e a tutti gli ex-dipendenti. Senza di loro, probabilmente sarei morto per quella coltellata tra le costole. Fortunatamente quel giorno un giornalista, Yuan Liang del quotidiano Nanfang, era riuscito a infiltrarsi nella fabbrica, confondendosi tra gli altri lavoratori, per un servizio-scandalo commissionato dalla NCEA, la No Child Exploitation Association. Erano mesi che cercavano di entrare nella fabbrica, e il caso volle che capitasse proprio nel capannone F, quello più facile in cui infiltrarsi, a causa della confusione creata dal mescolamento dei vari dipendenti.

Per fortuna, senza farsi vedere, era riuscito a chiamare i soccorsi appena aveva visto il caporeparto tirar fuori il coltello, e in questo modo la mia ferita, e le botte superficiali a Liu che aveva provato a mettersi in mezzo tra me e quel pazzo, furono prese in tempo, e dopo qualche periodo in terapia intensiva riuscii a cavarmela senza nessun danno permanente.

Alla mia uscita dall’ospedale, tutti noi dipendenti fummo intervistati a lungo, e ripagati con i soldi che avevano ottenuto dalle denunce fatte ai danni dei cosiddetti datori di lavoro, poi presentati nel lungo articolo pubblicato sul Nanfang come sporchi schiavisti. Ho saputo che l’ex-caporeparto che rappresentava il terrore di tutti i suoi dipendenti è chiuso in una delle celle di massima sicurezza del carcere pechinese.

Ci fu poi offerto di collaborare con la NCEA, come testimoni di tutti i lavoratori sfruttati, soprattutto nel settore dell’infanzia. Accettammo in tre: io, Liu e Yao.

Da allora promuoviamo l’associazione in varie parti del mondo, portando come prova le nostre storie, e quelle di tutti gli ex-lavoratori della Pou Yuen. Sappiamo che il nostro lavoro è ancora lungo, e che da qualche parte del mondo i bambini continueranno sempre a essere sfruttati, restando vittime di un’infanzia rubata. Sappiamo che per fabbricare un paio di scarpe un bambino riceve 90 centesimi di euro, mentre qui ad ogni vetrina le si può trovare a 178 euro in media. Sappiamo che nelle fabbriche-carcere un mese di salario viene sempre trattenuto dall’azienda come arma di ricatto: se un lavoratore se ne va lo perde. Sappiamo che non riusciremo a fare molto, ma quel poco che facciamo cambierà nettamente la vita alle persone che riusciamo ad aiutare.

Ho rivisto la mia famiglia il mese scorso, e domani torno nel mio paese a trovarli prima di tornare a Pechino, dove collaboro con il distaccamento cinese della NCAE. Il più grande dei miei fratellini ha deciso di aiutarmi nel mio lavoro a Pechino, mentre quello più piccolo ha già detto che da grande vorrà vivere a Parigi come zio Liu. Mio papà è quello di sempre, e mia mamma è immensamente felice. Mi ha fatto promettere che la prossima volta che verrò in Francia mi accompagnerà: dalle cartoline si è innamorata della Torre Eiffel.

Sorrido, mentre il cameriere si avvicina, portandomi il menu. Chiudo gli occhi, lasciando che il sole mi baci le guance. In lontananza sento la Senna che scorre, un altro fiume che ha trovato il suo corso. Un po’ come me.

 

 

 

image

 

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Lady_Marmalade