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Autore: simocarre83    15/05/2017    1 recensioni
Questa raccolta di breve storielle è ambientata nei luoghi e con i personaggi dei racconti "Ricordi" pubblicati nella sezione Avventura. Sono però dei racconti a sé stanti, quindi potete leggerli come e quando volete. se poi vi incuriosiscono, sapete dove trovare gli altri. trattano di diversi argomenti, con diverse tipologie di racconto. Ed ecco perché li ho pubblicati in questa sezione. Buona lettura!
Genere: Comico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL GIORNO PIU’ DIFFICILE DI UNA VITA

L’unica cosa che riusciva a fare era guardare fisso sua sorella, che guardava fissa il pavimento.
Continuava a ripetersi una canzone, una delle canzoni preferite di sua mamma, che diceva:
“Niente paura,
niente paura,
niente paura
ci pensa la vita
mi han detto così”
La zia li aveva appena accompagnati a casa, ed era ritornata in ospedale per cercare di gestire le cose. E così erano rimasti da soli in quella casa.
La cosa che in quel momento gli sembrava strana era come la zia li avesse lasciati lì con la televisione accesa, dicendogli di non aprire agli sconosciuti. Aveva 13 anni, cavolo, quasi 14, e quella lì si permetteva di dirgli ancora stupidaggini simili.
Si alzò dalla sedia. Decise di andarsene in camera. Aprì la porta. Per la prima volta si accorse del cigolio che faceva. In realtà lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Se lo ricordava tutte le notti, quando magari si alzava per andare in bagno ed apriva quella porta. E tutte le notti se lo ricordava solo dopo averlo il cigolio, mai prima. Ad ogni modo, da sei mesi a quella notte, nessuno dormiva; quindi non disturbava nessuno.
Mosse la porta un paio di volte, per cercare di silenziare quel cigolio, ma senza risultati. Allora si ricordò di avere sonno. Entrò e chiuse la porta dietro di se. Si levò le scarpe, sportive, facendo leva con un piede per liberare l’altro. Lo faceva sempre e per un attimo si sentì in colpa perché sua mamma lo sgridava sempre per quello. Gliel’aveva detto un sacco di volte che in quel modo le scarpe si rovinavano. Si guardò intorno aspettandosi di vederla sbucare fuori da un momento all’altro con il suo sguardo corrucciato ma sempre sorridente.
In quel momento un brivido partì dal collo ed arrivò alla parte bassa della schiena. Si sarebbe dovuto ricordare qualcosa, pensò, ma non era il caso di pensarci in quel momento.
Si sdraiò su quel letto, che aveva da un paio di anni. E gli venne in mente un'altra cosa. Si ricordò di quando sua sorella era più piccola e giocava con le bambole. Si ricordò di quelle bambole che da sdraiate avevano gli occhi chiusi, e in piedi un contrappeso gli apriva gli occhi.
Ecco, nel suo caso era esattamente il contrario. Da seduto avrebbe probabilmente chiuso gli occhi addormentandosi in dieci secondi. Ora che era sdraiato, invece, gli occhi erano sbarrati, aperti, fermi, immobili a guardare il soffitto sopra di sé.
Decise di rialzarsi. Erano le quattro del pomeriggio ed era sveglio da 14 ore. Erano le due del mattino quando suo padre l’aveva svegliato dicendo che dovevano correre via immediatamente. Quindi era normale avere sonno. Più anormale era che gli passasse immediatamente sdraiato.
Si alzò e si avvicinò alla sua scrivania. Mosse leggermente il mouse, solo per attivare lo schermo. E quello fu l’errore. Perché, una volta riattivato, comparve l’immagine di sfondo.
Era l’ultimo giorno delle scuole elementari e lui, sua mamma e sua sorella, erano stati fotografati sul balcone della sua camera. Erano appena tornati a casa da scuola, e sua mamma gli aveva detto che quello doveva essere un giorno speciale, un momento del quale ricordarsi. E avevano deciso di fare la foto.
Il sorriso di sua mamma era lo stesso di sempre. Tutte le volte che guardava quella foto sorrideva, quel sorriso ritratto lo metteva sempre di buon umore. Anche negli ultimi sei mesi, qualche volta, anche se doveva usare quel tempo che aveva a disposizione per studiare, si fermava a guardare quella foto. E sorrideva. Immaginava di essere un passante che osservava, dal livello della strada, quello che stava succedendo e si divertiva a vederli da lontano.
Quel sorriso in quel momento non gli faceva alcun effetto. Chiuse gli occhi. Vide comparire dal buio quello stesso volto, questa volta con gli occhi chiuse e le labbra immobili, inanimate. Si spaventò e riaprì gli occhi. Fu in quel momento che capì.
Capì il brivido.
Capì l’insonnia.
Capì l’allucinazione.
Solo in quel momento realizzò. Realizzò che LEI non c’era più.
Realizzò che nessuno l’avrebbe più svegliato la mattina per urlargli dietro di muoversi, altrimenti avrebbe fatto tardi a scuola.
Nessuno l’avrebbe più accolto a pranzo alle due chiedendogli come era andata la giornata.
Nessuno l’avrebbe chiamato alle 5 del pomeriggio per fare merenda, poco prima di accompagnarlo in piscina.
Nessuno l’avrebbe mai più rincorso per tutta la casa urlandogli dietro di riordinare la sua camera.
Nessuno gli avrebbe più cucinato la pizza, o almeno nessuno avrebbe potuto più farlo come solo lei sapeva farla.
Lei non l’avrebbe più consolato per quello che gli succedeva a scuola.
Lei non sarebbe più andata a vedere le sue gare di nuoto.
Lei non sarebbe più entrata ogni tre ore in camera sua a misurargli la febbre quando ce l’aveva.
Tutto quel peso gli cadde addosso in quell’istante.
I sei mesi, la sua malattia, le notti ad accudirla, le giornate assonnate a scuola, tutte quelle cose gli si presentarono, tutte insieme, addosso, in quel momento. E quel peso non lo sopportò. Cadde a terra, piangendo disperatamente.
Aveva perso la cosa che più di ogni altra lo faceva stare al mondo. Nulla, più nulla valeva la pena di vivere.
Lì e allora aveva realizzato di aver perso sua mamma. E che nulla, da quel momento in poi, l’avrebbe riportata indietro.
Quello, contrariamente a pochi secondi prima, lo fece riempire di sentimenti contrastanti: debolezza e rabbia, dolore e insensibilità.
Era quella la morte? L’assenza di vita, la fine di tutto? Due persone, una che muore e l’altra che soffre? Ma questo gli faceva paura. Paura e rabbia allo stesso tempo. Rabbia perché stava accadendo a lui e paura anche della sua stessa rabbia.
Quello significava crescere? Pensava che crescere significasse diventare più alto, più forte, doversi radere. Pensava che avrebbe dimostrato di essere cresciuto il giorno della maturità, o quello in cui avrebbe fatto a botte per difendere uno più debole, o la prima vera esperienza con una ragazza. QUELLO significava crescere. Non accorgersi che, aldilà delle relazioni famigliari, oltre a quei pochi amici che aveva, adesso era SOLO. Quello non significava crescere, voleva dire semplicemente rimpiangere di non essere al posto di sua mamma. E questo pensiero lo spaventò ancora di più. E gli fece ancora più rabbia.
Si arrabbiò perché capì che quello che gli era successo quel giorno era crudele, era brutto, era triste ma, più di ogni altra cosa, era ingiusto.
E l’ingiustizia non riusciva proprio ad accettarla. Scattò in piedi in preda ad una crisi di rabbia. Disfò libreria, scrivania, letto, tutto. Per poi ricadere nuovamente su un materasso sfatto. Ancora piangendo.
Sentiva per la prima volta un nemico, più grande, più forte e più potente di lui, avercela con lui. E capì che lui non poteva farci niente.
Rimase in quella condizione per quasi ventiquattro ore. Senza mangiare, senza lavarsi, si alzò dal letto solo quando suo padre lo venne a chiamare perché voleva che uscisse. Ma si alzò per andare a chiudere a chiave la porta. Uscì da quella camera nelle rare occasioni in cui la casa era vuota per andare in bagno.
Il giorno seguente uscì dalla camera mentre suo padre era in cucina a preparare da mangiare. Si andò a lavare e si vestì senza dire niente a nessuno. Quel pomeriggio doveva andare a un funerale. Appena lo vide suo padre corse ad abbracciarlo. Lui glielo permise senza opporsi ma senza ricambiare l’abbraccio. Non parlò con nessuno, né in casa, né in chiesa. Tornato dalla chiesa si richiuse in camera fino al giorno seguente.
E quella notte, immerso in un buio che, stranamente per i suoi quasi 14 anni, gli faceva sempre più paura, mentre cercava in tutti i modi di indurire il proprio cuore, bloccandolo con finte certezze e deboli ambizioni, solo una cosa gli provocava ancora un brivido che partiva dal collo e arrivava fino alla base della schiena. Una frase gli rimbombava nel cervello, e Roberto avrebbe voluto urlarla a tutto l’universo:
“Non è giusto”.

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Buongiorno e benvenuti a questa nuova storia. è forse il racconto, di quelli pubblicati in questa raccolta, più difficile da scrivere. quindi la vostra opinione sarà ancora più apprezzata e considerata. grazie ancora!
  
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