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Autore: Black Swallowtail    15/05/2017    0 recensioni
Nonostante Azure Kuri sia tornata alla normalità, vincolata ad Aidan Reiss dal loro patto, decide di seguirlo nel suo mondo distorto e brulicante, che si nasconde appena al di sotto della superficie della razionalità umana.
I mostri orribili e gli spiriti gentili non smettono mai di vorticare attorno all'uomo, perché, dopotutto, questa è la loro natura, ed è per tale motivo che esistono uomini come Aidan.
E non sempre si tratta di spiriti che vogliono aiutare il prossimo.
Una maledizione ricade inevitabilmente su chi si costruisce attorno un'identità ripugnante e disgusta perfino se stesso — una maledizione che avvelena l'animo e divora la carne.
La rende pietra.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scary Monsters and Nice Spirits'
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V

Our game of masks.

 

La data che compare sullo schermo pallidamente illuminato del cellulare sembra quasi sbeffeggiarmi, mentre, seduta contro la finestra, la fronte poggiata contro il vetro gelido, lascio che i miei pensieri vaghino a briglia sciolta, per evitare di concentrarmi sulla ben più spaventosa realtà, fuggire da essa, chiudere gli occhi nella speranza che questo problema sparisca, che il suo peso venga sollevato dalle mie spalle.

Ma non importa quanto io tenti di distogliere la mia attenzione, quanto provi ad affogarmi nel sonno, mi ritrovo sola, raggomitolata tra le coperte, ad osservare il buio assoluto, preda delle mie preoccupazioni e delle mie paure, senza poter sfuggire. Sono alla mercé di me stessa, e non basta che le coperte mi stringano per trovare conforto e rifugio. C'è stato un tempo in cui mi sarebbe bastato correre tra le braccia del sonno per trovare sollievo, quando ancora questo letto era un rifugio dal mondo esterno e dalla sua insensibilità, dal suo divorante grigiore che mi ha afferrato, avviluppandomi nei suoi tentacoli viscosi, risucchiando via la mia identità e le mie emozioni.

Ora, invece, è un lusso che non posso più permettermi. Neppure una fugace sensazione di tranquillità mi è concessa. L'inerzia, il semplice rimanere sdraiata, con gli occhi chiusi e il respiro pesante, è un invito ai pensieri più cupi e alle preoccupazioni a venire a tormentarmi, a divorarmi . Per questo, in punta di piedi, tenendo la coperta ben stretta attorno al corpo, ho provato a cercare un disperato aiuto in quel cielo a cui tante volte mi sono rivolta. Nei momenti di maggiore tensione, in cui ogni cosa sembrava crollare, o quando non riuscivo più a sentire nemmeno una scintilla di sentimento rifulgere in me, mi sono sempre lasciata inghiottire dall'infinita distesa di stelle che trapuntano l'aria notturna.

Forse perché mi rendo conto di quanto piccoli siano i miei problemi, di fronte a quella immensità, o forse perché, più semplicemente, quella incredibile vastità non cambia mai, come un punto fisso immobile, familiare, a cui aggrapparmi, ma riesco in qualche modo a provare un po' di sollievo, accoccolandomi contro la finestra. I pensieri sfuggono tra le mie dita e, per qualche minuto, posso concedermi il lusso di non riflettere, di non tormentarmi, e rimanere assorta nel vago, profondo nulla fatto di luci bianche. È quella sorta di conforto che ognuno trova in qualcosa di apparentemente poca importanza, di scontato – e cosa c'è di più scontato del cielo, che sta sopra le nostre teste, qualunque cosa accada?

Eppure, questa volta i miei pensieri sono troppo feroci per trovare sollievo, per scappare da me e lasciarmi sola, completamente sola, anche solo per un istante. E la colpa è di quella data beffarda, quella sentenza di morte che pende sulla testa di Jeiv Kondras, la responsabilità che pesa sulle nostre spalle. Per qualche motivo, è come se solo ora, di fronte al tempo che fugge inesorabilmente da noi, capissi quanto sia davvero grave la situazione, di cosa ci sia davvero in gioco – una vita che dipende da noi, dalle nostre capacità. Non possiamo permetterci di fallire, significherebbe lasciare morire una persona, di cui noi siamo gli unici alleati.

Mi ritrovo a pensare a Aidan e quante persone nella stessa situazione, in bilico tra la vita e la morte, siano venute a chiedergli disperatamente aiuto. Quante volte avrà sentito questa responsabilità soffocarlo? Quante notti insonni avrà passato riflettendo sulla sua incapacità, sulla sua piccolezza? Quante volte avrà osservato il cielo in cerca di risposte, senza trovarne?

Quante volte avrà chiesto aiuto a qualcuno?

Mi sono chiesta innumerevoli volte quanti mostri, quali spiriti, Aidan abbia affrontato, quante persone gli debbano la vita, quante volte abbia rischiato la sua. Dev'essere stata davvero dura, per lui, vivere ogni giorno con un nuovo peso da sopportare, camminare su una strada irta di difficoltà, senza mai guardarsi attorno – sempre in solitudine, sempre senza mai parlare con qualcuno di qualunque cosa si agiti dentro di lui. È normale, dopotutto, per chi è fuggito dalla realtà, per rifugiarsi in questo mondo invisibile all'occhio di chi non crede, essere chiuso in se stesso. Eppure, credo che Aidan sia ancora più solo di chiunque altro, non come se non potesse mostrare ciò che pensa o ciò che prova, ma piuttosto come se non lo volesse.

Perfino ora, ridotti come siamo con le spalle al muro, ad un solo giorno dalla linea tracciata approssimativamente prima che la maledizione si compia del tutto, non ha voluto nemmeno per un secondo parlare dei suoi dubbi o delle sue paure. Per quanto tenti di nasconderlo, a volte è come se riuscissi ad intravedere qualcosa, nei suoi comportamenti, nei suoi silenzi, nelle sue reazioni improvvise; un lato di sé che è nascosto da pesanti tendaggi, come da una tela di un teatro, dietro alla quale si esibisce un rabbioso spettacolo di cui riesco a catturare solo qualche battuta, qualche vago movimento, senza riuscire a comprenderlo del tutto. Il nostro è un gioco di maschere, di dissimulazioni, dove ognuno si nasconde dietro parole e gesti, dove ci si parla solo a metà, senza riuscire a dire tutto quel che si vorrebbe. Vorrei trovare la forza di dirgli tutto, di parlargli della mia preoccupazione, del mio terrore, della mia insicurezza; della mia incapacità di aiutarlo, nonostante il mio desiderio di farlo.

Se lui ha aiutato me, se lui mi ha teso la mano, nel momento in cui ormai ero rassegnata al nulla, all'abbandono, ad una vita senza sapore e senza sentimento, perché io non riesco a fare altrettanto? Mi sento terribilmente debole. Terribilmente inutile. Schiacciata da eventi che vanno oltre le mie capacità, come se fossi finita nel mezzo di una tempesta, e la corrente violenta mi trascinasse senza che io possa fare nulla. Ho paura di fallire, e che tutto vada in rovina; ho paura di quello che Aidan potrebbe dirmi riguardo ad Ayane, ma non riesco a sopportare l'idea di non sapere; ma sopratutto, ho paura che il mondo mi divori ancora, che tutto si spezzi e vada in frantumi. Ho paura di rimanere di nuovo completamente sola.

Ho capito come Jeiv Kondras non indossi che una maschera e che, chiunque ci sia lì sotto, è probabilmente completamente diverso dalla persona che appare all'esterno, quell'esempio di perfezione, una figura costruita ad arte, che tuttavia trema e si incrina, in alcuni momenti, rivelando frammenti al di sotto di essa, piccole espressioni, parole tremolanti, di chi è veramente. Ed è stata proprio la sua maschera ad attirare su di lui una maledizione mortale, un maleficio talmente distorto e vendicativo, sadico nella sua lenta, inarrestabile punizione. Il tempo che ci rimane è poco, eppure non siamo ancora riusciti a capire chi possa aver mosso questa maledizione contro di lui.

Quindi, per scappare da questi pensieri soffocanti, mi rifugio lontano da me stessa. Non riesco a trovare conforto, forse perché non sono più capace di allontanare i pensieri o di dominare nel modo adatto i moti del mio animo, dopo tutto questo tempo; mi ritrovo semplicemente con le ginocchia raccolte al petto e la coperta stretta attorno alla vita ad osservare le poche luci della città, esattamente come durante la notte in cui ho affrontato il Gatto, in cui ho accettato me stessa e il terrore del mondo all'esterno. Ci sono volte in cui, per quanto lo si desideri, non si riesce a dimenticare ogni cosa e provare un po' di pace. E la fioca luce del cellulare che stringo nella mia mano, quel riflesso languido che si riflette biancastro sul mio volto, me lo ricorda. Non abbiamo tempo per scappare.

Perciò, non mi resta che stringere i denti e fare quel che posso, per aiutare Aidan a sostenere questo peso, a trovare una soluzione, ancora una volta. Combatterà fino alla fine, senza chiedere mai, nemmeno per un secondo, il mio supporto. Io credo davvero al filo rosso che ci lega, sono convinta che esista e che tutto quello che ci è accaduto, che ci ha fatto incontrare, in qualche modo, non sia solo una coincidenza, il prodotto del caso; dopotutto, in un mondo di maledizioni, di mostri, spiriti e occultismo, perché non dovrebbe esistere qualcosa di così banale come il destino, come un legame invisibile, ma inscindibile, tra due persone?

Per tutto questo tempo, il mio polpastrello ha esitato a premere l'icona della cornetta verde accanto al numero, sotto al nome registrato nella rubrica, come congelato, incapace di arrivare allo schermo, sfiorandone appena la superficie. Ho esitato a lungo, chiedendomi se fosse il caso di comporre quel numero, cosa dirgli, se riuscissi a chiamarlo; magari, in questo momento è immerso in una ricerca incessante di una soluzione e la mia chiamata lo disturberebbe solamente.

Da quel che riesco a ricordare, sono sempre stata sola. Non è qualcosa che ho scelto io, ma è accaduto per caso; ed ora, che finalmente mi trovo accanto a qualcuno, è come se una parte di me esitasse. Con la sagoma della città di cui si intravedono solo sparute luci, locali ancora aperti, nonostante l'ora, o vecchi lampioni stanchi e rotti, ancora le parole di Evie Halliwell risuonano nella mia testa come una lontana eco.

“Non puoi resistere al richiamo dell'occulto, non è vero?”

Lascio che il telefono scivoli via dalla mia mano, che cada con un leggero tonfo lontano dalle dita. Ho forse creduto di poterlo capire, per un momento, ma ancora non ne sono in grado. È ancora così distante, da me, che lo spazio tra noi sembra incolmabile. Camminiamo l'uno accanto all'altra, ma è come se non ci toccassimo, se ci attraversassimo. Ognuno di noi ha paura—

Ha paura di togliere la sua maschera e aprire il suo cuore all'altro. Ha paura di mostrarsi del tutto per quel che è. Anche se lui è riuscito a capirmi, è riuscito ad aiutarmi, a starmi vicino, io non ne sono in grado. Io non riesco a vedere attraverso la pesante tela che nasconde il conflitto dentro di lui.

Io non sono di certo Ayane. Un nome, senza volto, senza storia, che appare tuttavia come un fantasma che lo segue ancora.

Quando tutto questo sarà finito...

Il suo nome, il suo numero, mi appaiono sfocati, come coperti da un velo che offuschi la mia vista. Sento il calore di qualcosa che scivola silenzioso lungo le mie guance e non c'è bisogno di toccare il viso, per capire che le lacrime lo stiano rigando.

Apro la finestra, spingendo le ante verso l'esterno, lascio che l'aria notturna entri nella stanza, sfiorandomi il viso con le sue dita, mandandomi brividi di freddo lungo il corpo, attraverso la coperta, il pigiama, increspando la mia pelle. Nonostante questo, sporgendomi sul davanzale con tutte le mie forze, mi spingo in avanti, verso l'esterno, la mano tesa verso il cielo irraggiungibile, cerco di afferrare un filo invisibile che si allunga dal mio dito verso l'ignoto, ovunque sia lui. Ovunque, in questa città di buio, luci sporche e tremolanti, di silenzio, di spiriti, di mostri, di solitudine, ovunque egli sia, spero mi senta.

Spero riesca ad udire mentre lo chiamo, silenziosamente, con tutto il fiato dei miei polmoni.

Afferro il telefono, stringendolo con tutta la mia forza, guardando il suo numero. Il suo nome. E, con una esitazione che ancora mi scivola lentamente attraverso, sparendo nella notte per qualche istante, riesco a scrivere, velocemente, un messaggio, accompagnata dal rumore dei tasti, un breve risuonare ogni volta che le mie dita sfiorano la tastiera sullo schermo.

È un messaggio breve, l'unico che sono riuscita a mandargli, forse privo di significato, per lui. Forse si tratta più di un capriccio, di una speranza infantile, di un desiderio espresso al cielo notturno che per tanto tempo è stato il mio rifugio. So che in questo mondo sovrannaturale, nascosto agli occhi di tutti, che è divenuto il nostro luogo sicuro, dove scappare dalle grinfie della realtà insensibile, rabbiosa, tagliente, gelida, i desideri possono divenire realtà; io, più di tutti, dovrei sapere quanto sia possibile che un grido senza parole possa essere percepito da qualcuno, se lo si vuole abbastanza.

Non è così folle, quindi, credere che il nostro legame, il nostro filo, ci stringa e ci vincoli.

Quindi, non posso fare a meno di chiedermi...

“Riesci a sentirmi, anche da qui?”

Riesci a sentirmi, attraverso quelle mura che ti sei alzato attorno?

Riesci a sentirmi, anche se la mia voce è così fievole, da non uscire dalle mie labbra?

Riesci a sentirmi, nonostante non riesca a dire quel che penso, quel che sento?

—Sarebbe così stupido sperare in qualcosa del genere, in mezzo a tutta questa disperazione?

Raggomitola nel letto, tremando ancora per il freddo, anche se quei pensieri velenosi che mi divorano e mi logorano sono ancora qui, non mi resta che soffocare le mie lacrime nel cuscino. La gola mi fa male, e i brividi attraversano ancora la mia pelle, le mie guance sono ancora umide.

Ci rimane solo un giorno. Ventiquattro ore mi dividono dalla verità, dal palcoscenico di Aidan, dalla sua maschera, dai suoi pensieri vorticosi.

Il destino, se davvero esiste, è stato davvero beffardo, con noi.

Uniti da un filo, ma incapaci di vederlo.

Entrambi danneggiati, entrambi difettosi, entrambi fuggiti.

Riusciremo mai a ripararci?

Mi chiedo se riuscirò mai a fare in modo che sia lui a poggiarsi su di me, e che non sia solo io a sorreggermi sulla sua spalla. Con quest'ultimo pensiero che scivola lontano da me, e le ultime lacrime che si asciugano, con un'immagine sfocata di una ragazza che non riesco a vedere, che non riesco a riconoscere, ma che sembra oscurarmi con la sua figura, osservo la prima alba sorgere sulla città ed il nuovo, ultimo giorno iniziare.

Se fosse una domenica come le altre, Aidan non mi aspetterebbe di fronte al cancello come durante le mattinate dei giorni di scuola, ma oggi dobbiamo sfruttare tutto il tempo rimasto a nostra disposizione. Non possiamo permetterci di sprecare nemmeno un secondo, non ora che la maledizione sta inesorabilmente divorando Jeiv dall'interno, calcificandolo lentamente. Ieri, sulla strada del ritorno, ci siamo fermati presso casa sua, per controllare la situazione che si è rivelata tutt'altro che buona. Contro ogni ottimistica speranza, ma esattamente secondo le fatalistiche previsioni dell'esperto dell'occulto, il suo corpo si è irrigidito al punto da impedirgli di muoversi. Le braccia sono inerti, lungo i fianchi, ed anche le gambe se ne stanno immobilizzate, come fossero strette da dei lacci invisibili.

Ogni suo sforzo, ha prodotto solo un'enorme fatica che lo ha lasciato spossato e un movimento minimo, di qualche millimetro, a testimoniare che la pietrificazione si è estesa e radicata, ma non completamente. Manca poco perché arrivi al suo cuore e lo uccida. Questa volta, non si tratta di un gioco o di un passatempo, ma di salvare una vita. Kondras non è riuscito a parlare molto, ma mentre Aidan camminava per la stanza, toccando foto, fogli sparsi ed altri effetti personali, forse nel tentativo di raccogliere indizi, io l'ho sentito mormorare qualcosa.

La sua voce era flebile, per cui mi sono dovuta avvicinare, per sentirlo; farfugliava di una ragazza, di qualcosa che le aveva detto, di un rapporto spezzato, quasi come se stesse delirando. Non sono riuscita a comprendere esattamente quel che affiorava dalle sue labbra, ma credo di aver afferrato il senso generale: un litigio con una persona che prima doveva essergli stata cara, a causa di un cambiamento. Forse è stata proprio questa frase a far scattare in me l'interruttore, a confermare un dubbio che ho avuto su di lui fin dal primo momento in cui abbiamo parlato faccia a faccia.

Ora sono sicura che Jeiv Kondras indossi una maschera, che giochi continuamente con gli altri, manipolando il suo modo di comportarsi, di parlare, di apparire, per mostrarsi agli occhi del mondo sotto una luce diversa. Una maschera indecifrabile, per chi non lo abbia conosciuto prima del suo cambiamento. Per questo, il litigio è scoppiato tra lui e la misteriosa ragazza che conosceva prima di divenire il popolare, eccellente studente modello; ma non è semplice nascondere quel che si è veramente. Quando ha parlato di Rui Miviel, l'ho intravisto, il suo vero volto – distorto dal disgusto per quella ragazza, per ciò che lei rappresenta.

Forse, in qualche modo, lei gli ricorda il suo passato, il suo modo di essere che tenta di nascondere, perfino a se stesso, nel tentativo di convincersi di essere davvero diventato lo studente modello che tutti credono.

Ripongo lo spazzolino da denti, lasciando che l'acqua gelida invada la mia bocca, prima di sputare la schiuma del dentifricio nel lavandino. Asciugandomi le labbra con il dorso della mano, osservo la stanca, provata immagine riflessa della ragazza minuta che sta in piedi lì davanti. La mia immagine. La personalità è qualcosa di terribilmente difficile da modificare e, in un certo senso, per quanto ci si provi, per quanto lo si desideri, qualcosa in noi non cambia mai. Sarebbe innaturale, d'altronde, riuscire a cambiare così radicalmente noi stessi, quel che siamo. Se modificassi il mio comportamento a tal punto, se indossassi una maschera con tanta convinzione, senza mai rimuoverla... alla fine, riuscirei davvero a riconoscere me stessa? Sarei ancora io, o solo una distorta immagine della vera Kuri?

Sono ancora assorta in queste riflessioni, quando il campanello infrange il filo dei miei pensieri, riportandomi bruscamente alla cruda, tragica realtà, con tutto il suo peso e la responsabilità che abbiamo preso su di noi. Dandomi un colpetto su entrambe le guance, in un impeto di determinazione che, gradualmente, attecchisce in me, prometto a me stessa di non crollare. Di essere abbastanza forte da permettere ad Aidan di sorreggersi su di me e di togliersi la maschera che nasconde il suo vero volto. Ci vorrà del tempo, ma—è qualcosa che sono sicura di voler fare.

In piedi sull'uscio del portone, assorbito completamente dallo schermo del suo cellulare, al punto da non notare immediatamente la porta aperta e la mia figura che lo sta squadrando, Aidan tamburella nervosamente l'indice contro lo schermo, scorrendo ogni qualche secondo qualche lista a me ignota. Devo schiarirmi la voce due o tre volte, prima che decida di riporre il telefono nella tasca e mi saluti rapidamente con un cenno del capo, sgusciando sotto al mio braccio teso a bloccare il suo passaggio.

“So che ormai sei abituato a questa casa, ma...” La mia protesta viene zittita da qualche vaga scusa, e dopotutto non abbiamo tempo per discutere scherzosamente, per cui non mi resta che chiudermi alle spalle la porta di casa e, con una preoccupazione che spero non traspaia troppo sul mio viso, sedermi sul divano, di fronte a lui. Mentre passo dietro di lui, riesco a gettare una rapida occhiata sopra alla sua spalla, rendendomi conto che il documento che ha attirato la sua morbosa attenzione, non è altro che l'annuario scolastico, ormai ridotto alle ultime pagine, segno che deve averlo consultato ben prima di arrivare questa mattina.

Osservandolo bene, non è difficile riconoscere il segno della mancanza di sonno sul suo volto, le occhiaie che iniziano a farsi sempre più evidenti, lo sguardo meno luminoso del solito, seppure infaticabile, nel leggere febbrilmente ogni riga, nell'esaminare ogni foto. Dagli indizi che abbiamo raccolto, per ora, sembra che l'anonimo burattinaio alle spalle di Rui, nonché il fautore della maledizione, non sia altro che uno studente della nostra accademia. A giudicare da alcune caratteristiche della lettera, potrebbe trattarsi di una donna, ma potrebbe anche essere un modo per trarre in inganno Miviel, un modo per sviare eventuali sospetti come noi. Siamo al punto di partenza, incapaci di riuscire a trovare una pista che riesca a farci intravedere la soluzione.

“Non hai dormito?” chiedo, senza riuscire a nascondere una punta di preoccupazione nella mia voce, mentre mi dirigo verso la cucina, dove il bollitore del tè ha iniziato ad emettere un acuto fischio, segno che l'acqua è abbastanza calda. Con la teiera bollente in mano, verso un po' del liquido dorato in due semplici tazze, senza decorazioni particolari, al di là di qualche triste, sbiadito fiore che un tempo rifulgeva di blu turchese o di sfumature arancioni, ma che ora si è ingrigito. Forse è per via dell'atmosfera pesante che si respira in quest'ultimo giorno, ma quando mi porto alla bocca la tazza, ritraendo rapidamente la labbra per evitare di ustionarmi, quelle poche gocce di tè che scorrono nella mia gola, mi sembrano insapori, quasi viscose, come se stessero per incastrarsi nel palato e soffocarmi.

Aidan, senza emettere un sospiro o senza mostrare alcuna rassegnazione se non digrignando appena i denti dietro alle labbra serrate, afferra la tazza che gli ho poggiato di fronte, giocherellando con il cucchiaino al suo interno, senza accennare a bere nemmeno un sorso.

“Nemmeno tu.” La sua voce suona stanca, provata quanto le ombre che si addensano attorno al suo viso; ma quelle nei suoi occhi, non sono dovute alla spossatezza. Sono altre ombre, troppo profonde e torbide perché io possa comprenderle. Abbastanza scure da fondersi con la sua iride.

Vorrei fargli molte domande. Ma tutta la mia flebile determinazione, tutte le mie riflessioni, ogni cosa viene divorato dalla paura e dall'ansia di sbagliare. Di infliggergli più dolore, di apparire insopportabile, o fastidiosa. Sono così patetica, da temere di poter essere sostituita, scacciata, fatta sparire. Ho paura di ferirlo di nuovo, chiedendogli quali pensieri, quali ricordi lo stiano tormentando ora. “Troppi pensieri...” sussurro di rimando, ma non so se sia una risposta, o semplicemente una constatazione. Il calore del tè sparisce nel momento in cui entra nella mia bocca. Mi sembra sia gelido, pungente come l'acqua del rubinetto, e che goccioli melmoso dentro di me, insapore, come cenere che riempia la mia bocca.

“Sono rimasto sveglio tutta la notte. Ho guardato tutto l'annuario, ma non so cosa cercare. Siamo in un vicolo cieco, senza alcuna via d'uscita.” Poggia la tazza sul tavolo, senza prenderne nemmeno un sorso, tornando con la mano al suo cellulare e, sbloccandolo con qualche rapido movimento, inizia a far scorrere nuovamente nomi e foto sotto il suo sguardo, senza cercare qualcuno o qualcosa, “Chiunque abbia manipolato Rui Miviel, e l'abbia costretta a incidere il nome della vittima, è rimasto anonimo. Perfino il talismano di carta sul quale è stato scritto il nome di Jeiv Kondras, è stato lasciato in una busta chiusa, accanto alla macchinetta, in un luogo abbastanza affollato e dove è facile confondersi.”

Ogni cosa è stata calcolata nei minimi dettagli. Nessun indizio tangibile è stato lasciato indietro, perché noi potessimo raccoglierlo. È ovvio che chiunque si sia dato così tanto da fare per mettere in piedi questo complicato teatro, abbia previsto che, in qualche modo, saremmo rimasti coinvolti. “Chiunque abbia preparato questa sciarada, aveva già previsto le nostre mosse...” mormoro a denti stretti. Aidan annuisce, sovrappensiero, la guancia poggiata contro le nocche, come se stesse riflettendo su qualcosa di estremamente complicato, il suo sguardo perso, al di là della mia spalla, verso qualcosa che non riesco a vedere, che solo lui riesce a comprendere.

I nostri occhi si incontrano, sfiorandosi appena, per un singolo istante, e quella tempesta di scivolose ombre che scuriscono il suo sguardo sembra quasi volermi divorare. Ho paura di sbagliare, ma allo stesso tempo, voglio poterlo aiutare. Come lui ha fatto con me.

“Hai detto... una sciarada?”

Un problema di difficile soluzione. Un gioco enigmistico, dove a partire da più elementi o da definizioni generiche, se ne traduce un altro, che li collega e li unisce. In breve, tutti gli elementi necessari a comporre un'unica, nuova parola. Un complesso, contorto meccanismo per arrovellare, confondere e mettere alla prova la mente e la capacità di ragionamento, la bravura nel collegare i dettagli per riportarli ad un'unica immagine.

“—Possibile?” si alza in piedi di scatto, la presa sul cellulare improvvisamente più violenta, la fronte si aggrotta in un'espressione quasi rabbiosa. Confusa, provo a chiedere cosa stia accadendo, cosa abbia capito, ma mi fa cenno di aspettare, mentre, rapidamente, compone un numero sulla tastiera delle chiamate; il suo dito, tuttavia, esita prima di premere il pulsante della chiamata, come se, fino all'ultimo istante, il dubbio lo stesse divorando. Come se, per qualche ragione, non volesse chiamare quel numero, non volesse dare ascolto a quell'improvvisa illuminazione che lo ha colpito.

In piedi con la luce del mattino che illumina la sua sagoma, ma che evita di rischiarare il suo viso esitante, un ribollire di ira e conflitto, mi sento così lontana da lui. Ma, allo stesso tempo, mi rendo conto di essere la persona che gli sia più vicina.

So che non può essere molto, per te, Aidan. Forse non sono nulla di speciale – anzi, sono sicura di non esserlo mai stato per nessuno. Ma con te, per qualche motivo, sento che è diverso; sento la nostra promessa ancora vivida, dentro di te. E sento che, se non ti aiutassi questa volta, me ne pentirei. Ti lascerei completamente solo.

Per cui, anche se per poco, anche se solo per un istante—

Senza alzare gli occhi sul suo viso, combattendo contro gli impulsi di fuggire, di rimanere immobile come una statua, stringo appena il suo mignolo, intrecciandolo con il mio. Il dito a cui è legato il nostro filo. Non riesco a vedere la sua espressione.

—Lascia che io ti sia di aiuto.

La sua presa si fa improvvisamente più forte, più sicura e devo combattere con tutta me stessa per non trasalire. È possibile che, in qualche modo, io ti possa aiutare. Non so se ne sono in grado, non so se sono abbastanza speciale, abbastanza capace, da poterti supportare. Non mi resta che accettare la verità, riconoscere di essere troppo debole per riuscire ad osservare attraverso la tua maschera. Ma finché ti ricorderai di me, sono sicura che non mi romperò.

Per questo motivo... “Sono qui per sorreggerti un po'.”

Il telefono squilla, monotono, per alcuni secondi. Uno, due, tre suoni regolari, ad indicare la chiamata in corso, ma senza alcuna risposta. L'intero mondo attorno a noi mi sembra congelato, immobile, grigiastro. Quasi irreale. Sembra quasi divenuto più gelido. È tutto sospeso, in silenziosa attesa, proprio come lo siamo noi. Il tempo continua a scorrere, solo perché una lancetta batte, in lontananza, dall'altra parte della sala, che sembra distare milioni di chilometri, o solo un passo.

Dall'altra parte della linea, qualcuno risponde.

“Oh, ce l'hai fatta. Mi stavo preoccupando.”

Una voce femminile che sembra quasi il gocciolare dell'acqua sulla superficie di un lago, accompagnata da una tenue musica in sottofondo, una superba melodia che accompagna ogni parola, come le onde che si increspano e si allungano dalla goccia caduta.

Una voce tanto chiara, così tranquilla, come il risuonare cristallino di una nota nell'aria.

La canzone si spegne insieme alla sua domanda.

“Sei sorpreso?”

Questa volta, il tono è più tagliente, colmo di derisione, così diverso da quello precedente da farmi credere che una nuova persona ne abbia preso il posto. O che, semplicemente, si sia tolta la sua maschera, rivelando la sua vera, distorta natura.

La voce è di una persona che entrambi conosciamo bene. Dopotutto, quante volte l'ho sentita risuonare nella mia testa, ancora ed ancora?

“Mentirei se dicessi di non esserlo.” Aidan fatica a trovare le parole, “Sono terribilmente deluso.”

“E per quale motivo? Perché ti sei lasciato leggere così facilmente da me, al punto da prevedere ogni tua azione...” come tanti gentili aghi che scavano nella carne e pungono, dolcemente, solleticando con il loro dolore tanto piacevole, “...O perché sono stata fin troppo brava a disseminare gli indizi, e nonostante ciò, tu non sei riuscito a capirlo prima?”

“Potrei esserlo perché hai manipolato delle persone per i tuoi scopi distorti.”

Una risata di vetro e rose scivola dalle labbra dell'interlocutrice, una risposta più che sufficiente, che mi fa irrigidire le spalle, mi fa rabbrividire. La presa di Aidan si fa più forte, e vedo il suo viso corrucciarsi, quasi mutare in un'espressione di rabbia e disgusto, all'udire la risposta che la ragazza gli dà con il suo tono tranquillo, senza traccia di superiorità. Il tono di chi è sicuro delle proprie capacità e non ha bisogno di rimarcarlo. Il tono di chi è rimasto a guardare uno spettacolo teatrale approntato nei minimi dettagli con la soddisfazione di vederlo svolgersi proprio come lo ha scritto.

“Siamo troppo simili perché tu possa pensarlo. È quello che fai anche tu, o sbaglio?” Sospira, suonando un'unica, stanca nota, dalla quale inizia a far uscire una nuova melodia, di crescente intensità, come i rami che si allungano da una corteccia, sempre più complessa, sempre più intricata.

“Dopotutto, l'ho capito fin dall'inizio...” la posso quasi intravedere incurvare le labbra in quel sorriso privo di malizia, incorniciato da quei capelli così perfetti, come cenere che si sia posata sulla sua testa, portando con sé piccole, morenti braci, spente nei suoi occhi.

Nel lago dei suoi occhi.

“...Che avresti fatto qualsiasi cosa. Non per salvare qualcuno, ma solo per te stesso. Sapevo che non avresti mai resistito al richiamo dell'occulto.”

E con quelle parole, con quell'ultima nota, Evie Halliwell conclude la chiamata, lasciandoci inermi, di fronte a due tazze di tè gelide.

Due attori inconsapevoli in una distorta mascherata.

 

Per qualche ragione, Evie Halliwell ama i tramonti. Forse è per via della loro luce rossastra che accende il cielo e lo illumina di passione, la stessa che muove le sue dita sulla tastiera del pianoforte, in intricate ragnatele di note, così viscose da catturare non solo l'orecchio, ma anche la mente di chi ascolta; non è un caso, dopotutto, se il giorno in cui l'abbiamo vista suonare per la prima volta, l'aula di musica fosse invasa dall'arancio sbiadito dei primi attimi di stanchezza del sole, che si rifletteva in una miriade di riflessi ambrati e cremisi sui suoi capelli scompigliati. Forse è perché, in quel bagno di braci, la sua figura così tormentata, che si muove elegantemente sul pianoforte, riesce ad imprimersi ardentemente nei ricordi di tutti.

Fatto sta che, mentre attraversiamo le vie della città, della zona residenziale limitrofa all'edificio scolastico, ci troviamo ancora una volta al limitare del giorno, quando le strade non sono animate da altro rumore all'infuori dello scalpiccio dei nostri stessi passi; nemmeno una macchina ci sfreccia accanto, perdendosi in qualcuna delle stradine secondarie che si snodano tra i complessi di appartamenti o le villette a schiera, poste l'una accanto all'altra quasi come in una successione di fotocopie dall'aria artificiale.

Ancora mi risulta difficile credere che Evie Halliwell ci abbia manipolato, abbia tirato le fila di questa intera vicenda, facendoci muovere secondo uno schema già predisposto; abbiamo recitato una parte che ha minuziosamente scritto per noi, passo per passo, senza rendercene conto, senza nemmeno intravedere la verità. Ammaliati dalla sua musica, l'abbiamo seguita accecati, senza mai, nemmeno per un istante, credere che potesse esserci lei dietro alla maledizione che sta divorando lentamente Jeiv. Eppure, dopo averci sospinto all'azione, ha sparso accuratamente degli indizi che ci permettessero, in qualche modo, di risalire a lei – e noi, ciechi, ce li siamo lasciati sfuggire.

La maschera che Evie ha indossato davanti a noi, così criptica, impossibile da decifrare, ci ha impedito di scorgere le sue vere intenzioni; ed allo stesso tempo, lei è stata capace di osservare attraverso di noi, di notare le crepe che attraversano i nostri visi, di comprenderci e di muovere le nostre azioni, proprio come ha fatto con Rui Miviel. Sapeva che quella ragazza debole, ferita avrebbe obbedito a chiunque le avesse offerto una spalla su cui piangere; sapeva che Aidan, attirato morbosamente dall'occulto, tormentato da un vecchio ricordo del passato avvolto nell'ombra, si sarebbe gettato a capofitto in questa situazione, come ha fatto per ogni altro problema che ha risolto; ha capito quanto io sia fragile, quanto il mio animo sia insicuro, ma anche avrei ragionato disperatamente su ogni sua parola, finché non fossi riuscita a far scoccare una scintilla, un'intuizione.

Tuttavia, la vera domanda che ora mi sta tormentando, è il motivo delle sue azioni. Non riesco a vedere l'insieme dell'enorme disegno di cui facciamo parte, non riesco a comprendere perché ci abbia chiesto di indagare sul maleficio che lei stessa ha preparato, né perché desideri così ardentemente far soffrire Jeiv Kondras, perché lo voglia vedere morto e sofferente, la sua volontà incrinata, la sua maschera in pezzi.

Prima di dirigerci verso l'edificio scolastico poco prima del tramonto, come ci ha indicato Evie con un messaggio, ci siamo recati a casa del tesoriere. La persona con cui ci siamo ritrovati a parlare, non era più nemmeno lontanamente simile allo studente modello che abbiamo conosciuto solo un paio di giorni fa. Immobilizzato e con il respiro pesante, è soltanto a mugugnare qualche frase incomprensibile, ma piena di un lancinante rimorso. La pietrificazione si è estesa per tutto il corpo ad una velocità decisamente superiore a quanto stimato inizialmente da Aidan.

Senza che nessuno di noi sia riuscito a pronunciare una parola, ce ne siamo andati il più velocemente possibile. Da quando la voce di Evie lo ha provocato, mostrandogli in quale modo si sia presa gioco di lui, di me, di tutte le persone che sono finite ammaliate dal suo profumo, dalle sue note, dalla sua tormentata, irraggiungibile personalità, qualcosa in lui si è spezzato, qualcosa che non riesco a comprendere. Ed ora che ci ritroviamo davanti ai cancelli della scuola, socchiusi, come ad attendere il nostro arrivo, ora che lo guardo mentre se ne sta immobile, indeciso sul da farsi, divorato e lacerato dai suoi tormenti e dai suoi fantasmi, mi sento più impotente che mai.

Le vicende sovrannaturali e distorte che ci hanno avvicinato e sospinto fino a questo punto, ci hanno lasciato feriti e dubbiosi, rabbiosi ed impauriti; in questo momento, non riesco a fare altro, se non avvicinarmi a lui e sfiorargli la spalla con la mia mano, piena di esitazione. Non riesco a fare altro, se non stringere con tutta la mia debolezza le nostre dita, intrecciando i nostri fili cremisi e sperare che possa, in qualche modo, sentirmi.

Sentirmi come ha fatto quando non avevo una bocca per parlare, né parole da offrire.

“Ha lasciato il cancello aperto, proprio come ci ha detto...” dico, mentre varchiamo l'ingresso e passiamo per il cortile esterno, le suole delle nostre scarpe che producono un basso scalpiccio quando colpiscono le mattonelle, l'unico rumore che rompe la quiete altrimenti assoluta. Trasmette una strana sensazione, vedere la scuola così deserta, assolutamente silenziosa, quasi come se le fosse stata strappata via la vita ad un corpo, lasciandone solo uno scheletro di acciaio e cemento che si staglia, incolore e squadrato contro il rossore sanguigno, il giallo dorato, il rosato sempre più vago e nebuloso, allungando la sua ombra su di noi.

“Dev'essere un privilegio dovuto ai suoi meriti musicali” risponde Aidan a mezza voce, spingendo l'ingresso principale che, docilmente, si apre con uno scatto, lasciandoci entrare all'interno senza opporre alcuna resistenza; proprio nel momento in cui la porta si chiude alle nostre spalle e ci ritroviamo in quel silenzio spettrale che ci ha accolto si dissolve, come quando si apre la tela del palcoscenico e la musica inizia a volteggiare nell'aria, allungando la sua mano invisibile.

“Dannatamente brava...”

Ripete quelle parole senza un segno di rabbia, senza nemmeno digrignare i denti o aggrottando le sopracciglia. Sento la sua presa, attorno alle mie dita, farsi un po' più forte, come a controllare che io sia ancora qui, alle sue spalle, mentre fa un profondo sospiro. I nostri occhi vengono guidati verso l'alto, verso l'aula dalla quale fluisce la melodia, come da una cascata invitante che si riversa sull'atrio, amplificando il tono, rendendolo, paradossalmente, più elegante, più armonico, quasi virtuosistico, a voler sfoggiare tutta la sua abilità. Attraverso il suo linguaggio prediletto, attraverso la musica che sgorga dalle sue dita, sta tirando giocosamente le nostre fila ancora una volta.

Senza mostrare alcuna esitazione, Aidan muove un passo in avanti, verso la scalinata. Solo la mia mano lo trattiene, lo accompagna mentre sale le scale. Più ci avviciniamo a quella porta, più mi sembra che la melodia si faccia contorta, convulsa. Sempre più passionale, sempre più soffocante, ad incitare ogni nuovo passo, mentre percorriamo il corridoio verso l'aula di musica, l'unica dalla porta aperta, l'unica dalla quale la canzone ci chiama.

Il corridoio non mi è mai sembrato così lungo. È come se il tempo e lo spazio fossero distorti, come se ogni passo sembrasse allontanarci, piuttosto che avvicinarci.

Non riesco a togliermi dalla testa tutte queste domande vorticanti che mi hanno tormentato, fin da quando la pianista non si è rivelata come proprio l'artefice della maledizione. Se proprio lei ha imparato il maleficio, se proprio lei si è immersa nell'occulto, vuol dire che è fuggita dalla realtà; vuol dire che il mondo è stato crudele anche con lei. Evie Halliwell stava forse davvero indossando una maschera, nel momento in cui ci ha parlato, quando ci ha soggiogato con le sue parole, ci ha attirati al centro del suo piano e ci ha assegnato la nostra distorta parte. Una persona come Evie Halliwell, una persona così tormentata, così subdola, così meschina, così corrotta – com'è possibile che abbia un lago tanto chiaro, tanto splendente negli occhi?

L'aula di musica è esattamente come l'abbiamo lasciata, immutata perfino nella disposizione degli strumenti, inutilizzati, ricoperti di polvere. Nemmeno la poltrona dove Aidan si era seduto è stata spostata, come se nemmeno un attimo sia passato da quando ce ne siamo andati da qui. Nemmeno la snella figura che muove elegantemente le dita sul pianoforte sembra essersi mai mossa, come se avesse continuato a suonare ininterrottamente, oscillando leggermente la testa a seguire le note che si alzano e spirano in aria, gli occhi persi ad osservare qualcosa di invisibile, che il mio sguardo non riesce a vedere. Aidan mi fa cenno di non interromperla, di rimanere sulla soglia della stanza, a osservare la coda di cavallo che si agita seguendo i movimenti della musicista, lasciandosi dietro un fioco bagliore, come scintille, come note che brucino quando richiamate dalla pressione della tastiera.

Evie Halliwell è esattamente la mia antitesi – qualcuno che ha il suo posto, che la gente ricorda, il cui nome persiste nelle loro menti. E mentre la guardo sistemarsi i capelli leggermente scompigliati, carezzandone le ciocche e premurandosi di raccoglierli in una coda di cavallo alta, quando osservo la sua figura snella fiocamente delineata dalla luce della lampada da studio che illumina il suo spartito, capisco anche il motivo per il quale si scolpisce nel cuore di molti. Una persona straordinaria, di una bellezza unica, quasi tormentata.

Solo ora mi rendo conto di quanto la invidi, di quanta potenza emetta la sua figura. È come se si stesse consumando e morendo, avvolta nel bozzolo della sua musica, mentre guarda dall'esterno un mondo che trova ripugnante e scialbo. Un mondo che, ai suoi occhi, non è altro che una mascherata insensata, che provoca repulsione. Evie Halliwell non porta nessuna maschera—Perché lei è in grado di riconoscerle tutte. Ad una persona come lei, non serve fingere, per trascinare ed incantare, per mostrarsi ed affermarsi sul mondo. Per questo, è stata in grado di ingannare Aidan: perché Evie Halliwell non si cura degli altri, ma si preoccupa di conoscerli, ad una sola occhiata.

Le note finali della canzone muoiono, e lei le accompagna con un ultimo movimento della testa, che la lascia immobile, congelata in quel singolo momento, lontana dal mondo per un solo istante.

Ed è Aidan a farla tornare alla realtà battendo appena le mani, senza troppo entusiasmo, avvicinandosi alla snella, eterea figura. Voltandosi verso di lui, le gambe accavallate e le labbra incurvate in un sorriso talmente sincero da ferire, china scherzosamente la testa, come farebbe di fronte ad un grande pubblico, sussurrando ringraziamenti ed elargendo frammenti delle sue occhiate, attraverso quei capelli scompigliati. Ogni volta, il torbido inchiostro di Aidan, si specchia con il cristallino di Evie.

Ogni volta, lei sorride, e lui applaude.

Lentamente, l'applaudire di Aidan si spegne, lasciando la stanza nel silenzio. Una leggera brezza primaverile, ancora gelida, nonostante la stagione, solleva dei petali estirpati dai fiori di chissà quale aiuola, facendo oscillare le sottili tende semitrasparenti, che ondeggiano ritmicamente a quel soffio, proprio mentre Evie, allungata la mano verso lo spartito, rimasto chiuso fino a quel momento, lo inizia a sfogliare languidamente. Una ad una, scorre le note con il polpastrello, seguendone il posizionamento sul pentagramma, amorevolmente e con una familiarità tiepida, come se stesse accarezzando qualcosa di delicato, di estremamente caro.

“Ti è piaciuta?” mormora, senza alzare gli occhi dalle sue amate note musicali, voltando una pagina con un fruscio sottile, quasi un sussurro, “Sonata al Chiaro di Luna. Proprio come quella notte.”

Aidan non reagisce a quelle parole. “Hai ragione. Proprio come quella notte...” Non trasalisce, non digrigna i denti, si limita a socchiudere gli occhi e ad annuire, poggiando la mano sulla propria spalla, come se volesse massaggiare una vecchia ferita, “Quell'applauso non era solo per la canzone. Ti sei informata bene. Hai preparato tutto a lungo, nei minimi dettagli.”

Evie poggia la guancia contro la mano, “Ti ringrazio. Ho preparato questa commedia nei più piccoli particolari.”

“Ci hai lasciato indietro abbastanza indizi per ricondurci a te. Li hai sparsi con tanta attenzione, sicura che li avremmo trovati, che mi sento sconfitto per non essermene accorto prima.” Unisce le punte delle dita di fronte ai suoi occhi, le labbra che scandiscono ogni parola, ogni singolo frammento che, unito agli altri, ha formato la figura di Evie Halliwell. Qualcuno che vuole vendicarsi su Jeiv Kondras da molto tempo, abbastanza da preparare il rituale per la maledizione. Qualcuno che frequenta la nostra scuola. Qualcuno in grado di manipolare gli altri. Qualcuno che conosce l'occulto, che sapeva bene che Aidan non l'avrebbe aiutato a procurarsi del veleno di Basilisco; ma che, al contrario, avrebbe aiutato Jeiv Kondras. Qualcuno che lascia un vago odore di tulipano ovunque vada.

“Tuttavia, c'è qualcosa che non sono riuscito a capire. Ci ho riflettuto, senza riuscire ad arrivare ad una risposta.” Di fronte a me, come se il tempo fosse rallentato di colpo, Aidan abbassa leggermente la testa, come ad ammettere la sua sconfitta, “Perché tutto questo? Perché ci hai indirizzato sulle tue stesse tracce, ci hai messo nella condizione di poterti scoprire?”

La pianista non risponde immediatamente, ma si concede un secondo per incurvare le labbra nell'ombra di un sorriso, poco più che una leggera risata che scivola attraverso la bocca socchiusa. Poggia lo spartito al suo posto, con estrema delicatezza, senza distogliere lo sguardo da noi, con un'espressione che non tradisce alcuna soddisfazione. D'altra parte, a lei non è mai importata l'opinione altrui; distaccata dal mondo, in grado di comprendere le persone e ciò che nascondono, per lei non ha alcun valore vincere o perdere – perché l'esito era stato scritto fin dall'inizio.

Ma credo di aver capito il motivo che l'abbia spinta a ricorrere alla maledizione. Un motivo talmente umano, che Aidan non deve aver preso in considerazione, avendola spogliata di ogni cosa, per innalzarla su un piedistallo, tanto sopra di lui.

Si tratta di una ragione così banale, ma allo stesso così violenta, così comprensibile, che mi sento una sciocca per non averci pensato prima. Per quanto sia così lontana, da me, è un'emozione talmente corrosiva a cui nemmeno lei è riuscita a resistere.

“—L'hai fatto per vendetta?” sussurro, mordendomi appena il labbro inferiore. Con la coda nell'occhio, intravedo le labbra di Evie Halliwell serrarsi di colpo, senza tuttavia perdere il sorriso indecifrabile che le distorce il viso, rendendolo criptico, in quella sua espressione quasi malinconica, “Ti sei voluta vendicare di Jeiv, perché si è allontanato da te?”

“Non si è trattato di vendetta.” Scuote la testa, con decisione, come a scacciare quel pensiero dalla sua testa, come a respingere la mia velenosa accusa, “No, non è stato assolutamente per quello. Puoi anche non credermi, ma...” I suoi occhi sfuggono i nostri visi, abbassandosi ad osservare il pavimento, mentre, dalla sua bocca, la voce si riduce a poco più che un flebile sussurro, “...Non ho mai avuto intenzione di ucciderlo. La maledizione non era altro che un modo per fargli capire, per mostrargli cosa stesse diventando. Te ne sarai accorto, Aidan,” tocca appena la piccola strisciolina di carta che pende dall'elastico per i capelli, il semplice legaccio che li tiene nella sua coda di cavallo, l'acconciatura delle sue canzoni, delle sue suonate, del suo pianoforte, “Ma si tratta di una maledizione che progredisce solo rispondendo ad una determinata azione. Ogni volta che Jeiv si è mostrato diverso da ciò che è veramente, ogni volta che ha mentito, il veleno ha agito più in fretta. Prima ancora che lui stesso se ne rendesse conto, era degenerato oltre il punto di non ritorno. Ma avevo bisogno che fosse credibile – se mi fossi rivelata, se avessi strappato il biglietto senza fargli percepire un vero pericolo, non avrebbe mai capito. Aveva bisogno di sentirsi davvero minacciato. Per questo, dovevate inseguire una figura misteriosa, qualcuno che avesse preparato una maledizione appositamente per colpirlo.”

Aidan stringe i pugni, “Quindi, si sta uccidendo da solo... Ogni volta che, di fronte a noi, ha mantenuto la sua maschera, non ha fatto che peggiorare la sua situazione.”

“Non potevo sopportarlo. Non potevo sopportare che quell'idiota si fosse ridotto in quel modo. Continuava a non capire, continuava a volere gli sguardi degli altri. Non sopportava di essere uno tra i tanti, non sopportava di essere invisibile.”

Il suo tono di voce inizia gradualmente a cambiare, ad incrinarsi, a farsi più disperato, più concitato. Non avrei mai creduto che, al di sotto di quella maschera, potesse esserci qualcosa di tanto fragile. Non avrei mai creduto di vedere Evie Halliwell portarsi le mani al viso, nasconderlo dal resto del mondo, mentre dalla sua bocca le parole fluiscono come un torrente, mentre qualcosa, in lei, inizia a spaccarsi.

“Quell'idiota, non mi ha mai ascoltato. Ho tentato in ogni modo di convincerlo, di mostrargli cosa stesse facendo. Come se stesse cambiando, si se stesse soffocando, solo per essere apprezzato, invidiato, osservato dalle altre persone. Ogni giorno, ogni giorno l'ho osservato marcire sempre di più e distorcersi, fino a divenire un'altra persona.”

Le sue esili spalle tremano. La sua voce inizia ad affievolirsi.

“Quel ragazzo a cui sono stata a fianco per anni è scomparso. Alla fine, ogni contatto tra di noi si è reciso. E nonostante tutto, fino all'ultimo, ho continuato a dirgli di non indossare quella maschera. Io lo conoscevo... Sapevo che avrebbe finito per odiare se stesso. So bene che non riesce nemmeno a guardarsi allo specchio, perché ripudia se stesso, perché ha paura di ricordare com'era prima. Com'è ancora.”

Quando si toglie le mani dal viso, i suoi occhi sono umidi di lacrime che scorrono, lentamente, lungo le guance. Due solitarie gocce, in cui si riflette la luce del tramonto.

In questo momento, circondata dalla luce del tramonto, con gli occhi pieni di lacrime, senza più alcuna maschera a coprirla, Evie Halliwell non è nulla più che una pallida figura disperata e tormentata, divorata dal rimorso, impaurita dal mondo. Così fragile da potersi rompere al tocco. Così effimera, da sparire insieme alle sue note, con lo spegnersi del sole rossastro.

“—Se solo fossi riuscita a fargli capire... che io l'ho sempre guardato. Che io sono sempre stata al suo fianco. Ed invece, sono rimasta distante.” Con un unico, fluido gesto, libera i suoi capelli dall'elastico, lasciandoli ricadere liberi sulle spalle. Tra le dita, il pezzo di carta sul quale posso intravedere un nome – Jeiviel Kondras. “Come sempre, sono rimasta lontana, fino alla fine. Finché non è stato troppo tardi.”

La pianista tende la mano, offrendoci quella minuscola strisciolina strappata da un quaderno, nel quale è contenuto il destino di Jeiv, la sua maledizione, “Prendetelo. È quello che volevo, fin dall'inizio.”

Aidan le si avvicina, senza esitazione, sollevando delicatamente il biglietto. Non posso vedere la sua espressione, mentre guarda Evie Halliwell negli occhi, mentre, l'uno davanti all'altra, senza che nessuno indossi alcuna maschera, si scambiano, per la prima volta, una vera occhiata. Il nero inchiostro, nel lago cristallino.

Di fronte a lei, con un unico, lento movimento, Aidan strappa il pezzo di carta e, senza che nessuno aggiunga una parola, abbandoniamo l'aula di musica. Sull'uscio, tuttavia, Aidan si ferma per un istante, le mani affondante nelle tasche, il viso nascosto da un'ombra che non riesco a scrutare.

“Non smettere di suonare, per favore.”

Mentre ci allontaniamo dal corridoio, mi sembra di sentire un disperato singhiozzare.

Alla fine di questo spettacolo, Evie Halliwell aveva scritto già che si sarebbe spezzata. Che avrebbe affrontato quel suo senso di colpa.

Forse, per tutto questo tempo, la sua musica ha sostituito le sue parole.

Dopotutto, quella sua maschera così perfetta, così distante, non poteva essere vista da nessuno.

Per questo—

Mi chiedo se le maschere che indossiamo corrispondano al buio che sentiamo.

 

 

   
 
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