La mia donna
L’amore è solo una debolezza:
Sherlock Holmes non aveva mai pensato altro in proposito. Pensato appunto, perché pensare era l’unica cosa che fosse in grado
di fare. Se solo avesse lasciato andare la ragione per un momento, se solo si
fosse aperto uno spiraglio di vuoto nell’interminabile catena delle sue
deduzioni, allora avrebbe avuto l’opportunità anche di provare, assaporare, sentire. E l’esperienza diretta sulla
sua propria pelle magari gli avrebbe fatto cambiare idea.
Ma di tentativi non ne aveva mai
fatti perché a mancargli erano state le tentazioni. Non si era mai sentito
attratto da una donna – o da un uomo – da quando aveva memoria e non si sarebbe
vergognato ad ammettere candidamente di non aver mai avuto una relazione, se
qualcuno si fosse disturbato a chiederglielo direttamente. Forse era perché
sapeva che nessuno sano di mente – e purtroppo ce ne erano troppe di persone
noiose in giro – avrebbe mai potuto davvero apprezzarlo, o forse perché era già
troppo innamorato di se stesso, del suo lavoro e del suo grande cervello per
pensare a qualcun altro… O forse, molto più
banalmente, semplicemente non aveva interesse perché non ne vedeva l’utilità.
L’amore gli appariva come qualcosa di
sciocco, pericoloso, illogico. In una parola sola: dannoso. E così tutto ciò
che poteva essere minimamente ricondotto all’amore era filtrato direttamente
all’origine, veniva scartato a priori.
Poi un giorno era arrivata lei, la donna. Era arrivata all’improvviso,
così all’improvviso che non aveva avuto il tempo di azionare il suo solito
meccanismo di scarto. Lo aveva distratto con il suo bel fisico e il suo carisma
e poi lo aveva conquistato con le sue stesse armi, la logica e l’intelligenza.
Forse non se ne era accorta neanche lei di quanto il cuore di ghiaccio gli
fosse tremato nel petto la sera in cui lei aveva provato a sedurlo, e si
sarebbe sciolto, sì lui avrebbe ceduto, se la signora Hudson non li avesse
interrotti. Lei era bellissima, furba, speciale e lui, per quanto facesse di
tutto per dimenticarlo, era solamente un uomo fatto di carne e sangue. Irene
Adler era stata l’eccezione che alla fine aveva confermato la regola: l’amore è
debolezza.
Sherlock sapeva che non ci sarebbe
mai stata un’altra donna nella sua vita come Irene, e aveva ragione. Molly Hooper non era così speciale; aveva una bellezza e
un’intelligenza nella media, era impacciata, timida e decisamente troppo
prevedibile. Leggere le sue abitudini e le sue emozioni era per lui un gioco da
ragazzi, ma c’era una cosa che lo incuriosiva: l’affetto e la dedizione che lei
provava per lui. Era innamorata di lui da sempre e, nonostante i suoi vari
fidanzati, non aveva mai smesso di amarlo; giorno dopo giorno, anno dopo anno,
gli era sempre rimasta accanto con lo stesso sentimento dipinto sul volto,
senza rancore e senza vergogna. Poteva davvero un mero processo chimico durare
così a lungo? Ovviamente no, ma allora Sherlock non poteva cogliere la
differenza che corre tra attrazione e amore. Molly con la sua dolcezza lo
incuriosiva e la curiosità diventava pian piano attenzione. Niente di lei
veniva più scartato nella sua memoria e così gli era entrata dentro fino ad
occupare un’intera stanza del suo Palazzo Mentale. Non era arrivata
all’improvviso, no, lei si era insinuata lentamente e ci era restata.
“Senti, Sherlock…
Si è fatto tardi e puoi passare a controllare il cadavere anche domani mattina,
non è che va da qualche parte del resto… Io non abito
lontano e, ecco, potresti venire a mangiare qualcosa da me, che ne dici?”
Così aveva detto Molly una sera,
all’obitorio, in uno dei suoi soliti goffi e vani tentativi di chiedergli di
uscire. Sherlock aveva atteso quasi un minuto – 47 calcolati secondi – prima di
staccare lo sguardo dalla carotide recisa dell’uomo steso davanti a lui. Ormai
la dottoressa si stava già rassegnando all’essere ignorata, quando la testa del
detective si era sollevata, di scatto, mostrando un sorriso tipico dei suoi
momenti di euforia.
“Ottimo. Cucino io però” aveva detto
sorprendendola e sorprendendo di più se stesso.
Era stata una bella cena, avevano
mangiato bene – Sherlock era il migliore anche nel campo culinario ovviamente
-, avevano chiacchierato e scherzato, si erano divertiti. A parte il contenuto
dei loro discorsi, era sembrato quasi una serata normale e tranquilla. Era
sembrato quasi un appuntamento. E
un’ora e poco più dopo, ciò che rimaneva erano solo piatti e bicchieri da
lavare e loro due seduti sul divano per proseguire un discorso che sembrava
curiosamente non accennare a finire.
A un certo punto lei fece una specie
di battuta, piuttosto scontata per la verità, ma lui in maniera del tutto non
scontata scoppiò a ridere, sorprendendola e sorprendendosi per la seconda volta
nel giro di un paio d’ore. Rise anche lei, i loro occhi si incrociarono più a
lungo del previsto, e in quello sguardo qualcosa era irrevocabilmente scattato.
Fu Sherlock il primo a sentirlo, sì a sentirlo,
ma fu Molly la prima a decidere di cogliere il momento. Si avvicinò a lui
istintivamente fino a posare le sue labbra su quelle di lui. Tuttavia, prima di
dargli anche solo la possibilità di rispondere o di riprendersi dalla sorpresa,
si era già bruscamente allontanata.
“Oh mio Dio, Sherlock, perdonami. Non
avrei dovuto” disse farfugliando, senza osare guardarlo. Sembrava
autenticamente mortificata e dispiaciuta, e lui ormai riusciva a vedere anche
che era più per la paura di aver ferito lui che per riguardo dei propri stessi
sentimenti.
Fu lui ad avere quel riguardo invece,
e fu solo per questo motivo che, prima di rispondere ad una logica o per contro
prima di lasciarsi abbagliare dall’emozione, si alzò in fretta dal divano.
“Forse è meglio che io vada. Grazie
della serata” annunciò con voce squillante come se non fosse accaduto nulla e,
senza lanciarle neppure uno sguardo, si diresse a passo spedito verso la porta.
Tuttavia, improvvisamente, prima di
posare la mano sulla maniglia si fermò e restò così per un po’, immobile e in
silenzio. La sua mente non era annebbiata, anzi sembrava quasi che lavorasse in
modo più lucido. Adesso vedeva, vedeva chiaramente. Vedeva che quello che Molly
gli faceva provare poteva aiutarlo ad avere paradossalmente una stabilità
emotiva, che poteva farlo stare meglio, che insomma poteva essergli utile e
anzi adesso gli era indispensabile. Stavolta non avrebbe ceduto per una pura
reazione fisico-chimica, no avrebbe ceduto con tutta la sua mente attiva,
avrebbe scelto razionalmente e lucidamente di cedere.
L’amore non era una debolezza, non
sempre perlomeno, poteva anche essere una forza.
Finalmente si voltò e senza dire una
sola parola del suo ragionamento, tornò rapidamente accanto al divano e attirò
Molly a sé, baciandola con un trasporto che non aveva mai pensato di possedere
in sé. Solo per esigenza di aria, interruppe il contatto e la lasciò andare,
tenendo sempre però il viso di lei tra le sue mani.
“Tu sei la mia donna, Molly” mormorò semplicemente, fissandola dritta negli
occhi, prima di baciarla ancora.
E Molly non seppe mai il peso, il
valore e la riflessione di una vita che c’era dietro quelle parole.
NDA:
Dopo un’assenza lunghissima (stavolta
motivata non dalla pirgrizia dalla
stesura di un romanzo originale), credevo che non sarei tornata a scrivere fanfictions… Ma Sherlock è stata decisamente l’eccezione.
Dopo aver visto “A scandal in Belgravia”
non ho potuto fare a meno di buttare giù questa one-shot
– e ahimè sembra che scrivere fanfictions sia l’unica
cosa che riesca a calmare la mia ansia pre-esami, quindi probabilmente mi
vedrete di nuovo molto presto.
Spero che questa piccola storia possa
essere piaciuta a qualcuno, ogni commento è ben accetto!
LadyPalma