Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Blablia87    20/05/2017    7 recensioni
“Everything you know about fear, about love, about connection, about identity is about to change. You are no longer just you.”
(Tutto ciò che sai a proposito della paura, dell'amore, della connessione, dell'identità sta per cambiare. Tu non sei più solo tu.)
[sense8!AU - Non è necessario conoscere o aver visto la serie, per la lettura]
[Johnlock][Accenni Mystrade]
[Mini long in tre parti]
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note iniziali: come avrete capito dagli avvertimenti riportati nell’introduzione, questa storia si svolgerà all’interno di un AU mutuato dalla serie “sense8”, che amo in modo quasi viscerale.
Alcune scene, dialoghi e personaggi sono presi direttamente dall’opera ideata dalle Sorelle Wachowski (molto dalla prima stagione, pochissimo dalla seconda), pur essendo stati - in parte o in toto – riadattati e plasmati per poter convivere con il “mondo” di Sherlock.
Non esistono spoiler “in senso stretto” su sense8 perché, a parte il prologo, praticamente ogni cosa prenderà una piega a sé rispetto agli avvenimenti raccontati nella serie.
Inizialmente questa mini long, come già successo per “The Answer”, sarebbe dovuta essere una OS. Arrivata alla fine, però, ho contato ben 49 pagine di Word. Ho quindi deciso di dividere la pubblicazione in tre parti, con cadenza settimanale.
 
La seconda parte sarà quindi pubblicata sabato 27 p.v., e l’ultima il 3 giugno.
 
Grazie, fin da ora, a chiunque deciderà di salpare con me per questo nuovo, breve, piccolo viaggio. ^_^
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
a emerenziano
 
“Soyons reconnaissants aux personnes qui nous donnent du bonheur;
elles sont les charmants jardiniers par qui nos âmes sont fleuries.”
(Marcel Proust)
 
 
 
 
 
 
  Prologo  
 
 
 
Il vento, in piccole folate scomposte, accarezza l’edera abbarbicata su quanto resta della parete est di St. Dunstan, risuonando tra gli archi ormai vuoti delle finestre.
Avvolto dalle ombre della sera, un uomo – chino, le mani strette al ventre – si trascina a fatica tra le mura spezzate ed i ciuffi d’erba che crescono rigogliosi nelle fughe della pavimentazione sconnessa.
Dopo qualche secondo si lascia cadere con un gemito, stremato, nell’esatto punto dove –  nel 1941, lacerate da una bomba tedesca –  le centenarie pietre della chiesa si sono ripiegate sopra l’altare.
Inarca la schiena, socchiudendo gli occhi ad ogni spasmo rovente che gli attraversa le viscere.
Si morde le labbra con maggior forza dopo ogni brivido, imponendosi un silenzio che sa di non poter mantenere ancora a lungo.
 
«Sono qui.»
 
All’improvviso, un volto familiare gli appare accanto, e il calore di una mano gli sfiora la fronte madida di sudore. Il suo visitatore inaspettato ha l’espressione tesa, riesce a vederla nonostante l’oscurità. Può percepire la sua paura mescolarsi alla propria, piccole onde che si infrangono contro la sua gabbia toracica.
«Mycroft…?» sussurra, sentendo un’altra contrazione incendiargli il corpo.
«Sì» risponde l’altro, sforzandosi di mantenere un tono di voce fermo.
«Fa male…» geme l’uomo, aggrappandosi con una mano al braccio del visitatore, chino su di lui.
«Lo so.» Mycroft continua ad accarezzargli il viso, scostando con le dita le gocce di sudore che lo attraversano.
«Ho bisogno… devo…» cerca di dire l’uomo, combattendo l’istinto di ripiegarsi su se stesso.
«No… no. Non c’è più tempo.» Mycroft gli posa una mano sul ventre, con delicatezza, deglutendo un paio di volte per cercare di far passare l’aria attraverso la gola stretta dalla paura.
«Non… non sono pronto. Sono troppo debole» prova a spiegargli l’altro, mentre una lacrima si libera, coraggiosa, dalle sue ciglia.
«Nessuno è mai stato forte quanto te. Coraggioso quanto te» lo rassicura lui e, per la prima volta da quando si sono conosciuti, la sua voce si incrina.
«Non voglio che muoiano altre persone, Myc… Gli daranno la caccia, nati o meno.» L’uomo allontana con un gesto brusco la mano dell’altro, portandosi a sedere con estrema fatica. Un nuovo spasmo gli scava la pelle, attraversando i nervi e prosciugando il sangue. Serra le labbra e sente l’altro combattere a sua volta l’istinto di lasciare, semplicemente, andare tutto.
«Tu puoi dargli una speranza. Solo tu puoi farlo» sussurra Mycroft, e l’uomo sa che ha ragione. Che non può arrendersi.
Non ancora.
 
Un urlo acuto, e poi un ringhio sommesso, carico di sofferenza, tagliano l’aria.
Un gruppo di uccelli –  appollaiati su una delle finestre cieche del campanile –  si alza in volo, scurendo il cielo sopra di loro.
 
«Li… li vedo» singhiozza l’uomo dopo qualche secondo, aprendosi in un sorriso affaticato. Tra le ombre della chiesa, il profilo dei due uomini ai quali ha appena donato la vita compare fugace, sparendo in un istante.
«Ce l’hai fatta...» Mycroft alza lo sguardo, ma non riesce a vedere altro che le panchine vuote che la Città ha scelto di mettere attorno ai resti della navata centrale, cercando di donare nuovamente a quel luogo profanato un futuro ed un’utilità per la comunità.
«Proteggili, Myc. Proteggili» prega l’uomo, cercando le sue iridi azzurre. «C’è anche Sherlock…»
«Lo farò. Adesso però riposa. Sono qui» risponde Mycroft e, all’improvviso, sente la morsa del terrore dell’altro avvolgerlo, impedendogli di respirare.
 
«Anche lui…» geme l’uomo. Mycroft riporta una mano sulla sua fronte e si guarda attorno, nel tentativo vano di capire in quale punto della navata si sia materializzata la minaccia che sente incombere su entrambi.
 
«Stai partorendo… È doloroso. Lo percepisco.» La voce di un uomo, allegra, riecheggia tra le pareti spoglie e l’erba silenziosa.
«Qualunque cosa ti stia dicendo…» tenta Mycroft, portando il viso a pochi centimetri dall’orecchio dell’altro.
«È Mycroft?» La domanda rimbomba nuovamente nel vuoto della chiesa smembrata, e una figura esile in abiti eleganti si stacca dalle ombre per avvicinarsi con passi lenti all’uomo ancora a terra.
«Per favore…» mormora lui, sentendo le braccia iniziare a cedere.
«Digli…» continua l’individuo, non dando segno di averlo sentito. «Che sono ansioso di rivederlo.» Si avvicina, pigramente, un sorriso beffardo sul volto.
«Ti amo, Myc» sussurra l’uomo, con voce così bassa che l’altro riesce a vedere le parole prendere forma nella propria mente, ma non a sentirle.
«Greg…» risponde, ma sa già che niente di quanto dirà potrà convincerlo a desistere dal mettere in pratica il piano che ha già studiato nel dettaglio. Che hanno preparato, insieme.
«Va’… Non… non ce la faccio, se ci sei tu» quasi lo prega l’uomo, e si volta per poterlo guardare un’ultima volta.
«Io ci sarò sempre. Sempre. Ed anche tu, ci sarai sempre» gli risponde Mycroft, appoggiando la fronte contro la sua. Qualche secondo dopo l’uomo rimane solo, gli occhi ancora pieni dell’altro. Solo allora, girandosi verso la figura ancora in piedi a pochi passi da lui, estrae la pistola che tiene nella tasca interna del logoro cappotto che lo avvolge.
«Suvvia, mio caro… quante volte hai già minacciato di farlo? Sappiamo entrambi che non lo farai. Non puoi. Sei uno di noi. E verrai a casa, con me» lo deride il visitatore e, dalla piega assunta dalle sue labbra, sembra davvero non essere preoccupato.
«No.» L’uomo impugna l’arma con entrambe le mani, rivolgendo con le ultime forze rimaste la canna metallica verso di sé.
«Dammi la pistola» gli intima l’altro, mentre il sorriso che fino a poco prima gli illuminava il volto si trasforma in una maschera d’ira.
«NO!» urla l’uomo, spingendo a forza le parole oltre la barriera delle proprie labbra secche.
 
«Fermatelo!» grida la figura a due militari comparsi alle sue spalle, ma le parole scompaiono, inghiottite dal boato di uno sparo.
 
Un altro stormo di uccelli, terrorizzati, si alza in volo sopra le mura spoglie di St. Dunstan. Poco dopo –  quando tornano a posarsi sui rami spogli degli alberi che circondano quel che resta della navata centrale –  sotto di loro rimane solo un uomo abbandonato sul selciato, tra le mani una pistola ancora calda.
 
 
 
  1.  
 
 
 
«Sherlock… aiutami.»
 
Nel salotto del numero 221b di Baker Street, a qualche miglio di distanza da St. Dunstan, un uomo si blocca a pochi passi dalla propria poltrona, un violino appoggiato alla spalla sinistra ed un archetto di legno chiaro stretto tra le dita della mano destra.
 
«Per favore…»
 
Si guarda attorno, cercando tra le luci cangianti che il camino acceso sparge nella stanza la fonte della voce che sente vibrare nella propria testa. Socchiude gli occhi, concentrato, voltandosi da una parte e dall’altra con movimenti lenti.
«Signora Hudson?» chiama, anche se non è affatto convinto che possa essere la padrona di casa, al piano di sotto. «Signora Hudson?» tenta di nuovo, portandosi velocemente sul pianerottolo di fronte al proprio appartamento e affacciandosi sulle scale che conducono all’ingresso.
 
«Aiutami.»
 
Si volta di scatto, certo di aver sentito le parole provenire dall’interno del salotto. Per un attimo, scorge l’ombra di un uomo con un pesante cappotto addosso ferma al centro della stanza, che si tende verso di lui. Il violino e l’archetto ancora stretti tra le mani, rientra nella camera in modo precipitoso, il respiro veloce e superficiale ad aiutare i sensi a reagire con la giusta rapidità.
Resta immobile qualche secondo, le gambe divaricate e la vestaglia da notte che si muove appena nella parte inferiore, vicino ai suoi piedi scalzi.
Il salotto è vuoto, e il fuoco che scoppietta nel caminetto è adesso l’unico suono che riesca a sentire, oltre a quello del proprio cuore che vibra con forza nelle orecchie.
Si chiude le labbra tra i denti, girandosi appena in direzione del piccolo tavolino da caffè posto davanti al divano.
Una siringa, appoggiata su di un piccolo panno bordeaux, brilla sotto la luce rossastra delle fiamme.
Abbassa lo sguardo e, per un attimo, appare inquieto. Un’espressione fugace, quasi impercettibile.
Scuotendo la testa, riporta il violino in posizione.
Chiude gli occhi, e comincia a suonare.
 
 
 
Dall’altro capo della città, il dottor John Watson si blocca con lo stetoscopio appoggiato al petto dell’ultimo paziente della serata. Alza la testa, confuso, e si libera le orecchie dalle olivette con un gesto brusco.
«Dottore?» lo chiama l’uomo sul lettino, preoccupato dall’espressione che vede prendere forma sul viso del medico. «Dottore, tutto bene? Ha… ha sentito qualcosa che non va?» ritenta, mentre John si rigira tra le dita la testina dello strumento, con aria assorta.
«No…» risponde lui, distratto. «No» ripete dopo poco, quasi scuotendosi da un torpore nel quale non si è reso conto di essere caduto.
«Ha… ha per caso sentito anche lei della musica?» butta lì, con finta noncuranza, tornando ad appoggiare la membrana sul petto dell’altro.
«Musica? Può sentire anche la musica, con quel coso?» domanda lui, stupito.
«No... Certo che no. Mi era solo sembrato…» John aggrotta la fronte, incapace di trovare le parole adatte a descrivere il modo nel quale ha percepito distintamente, pochi attimi prima, il suono triste di un violino. «Non importa» conclude, muovendo appena la testa.
«Forse dovrebbe riposare…» gli suggerisce l’uomo, e John annuisce appena, continuando a spostare lo strumento da una parte all’altra.
«Sì… credo sia il caso che vada a casa. Ho un terribile mal di testa…» sussurra, più rivolto a se stesso che al paziente.
Dopo qualche minuto torna in posizione eretta, sistemandosi lo stetoscopio attorno al collo.
«Allora… da quanto ho potuto sentire, direi che si tratta solo di una brutta tosse… Adesso le prescrivo qualcosa» rassicura l’uomo, facendogli cenno di rivestirsi.
«Dovrebbe prendere qualcosa anche lei, sa? Ha gli occhi lucidi» risponde lui, iniziando a richiudere i bottoni della camicia.
«Ho solo bisogno di dormire…» John si avvicina a passi lenti alla propria scrivania, sporgendosi per recuperare il ricettario.
Di fianco al blocchetto perlaceo, una siringa aperta è adagiata su un fazzoletto bordeaux.
John si ferma con la mano sospesa sopra il blocchetto, sgranando gli occhi.
Non l’ha mai vista prima e, a giudicare dallo stato dell’ago, qualcuno deve averla usata di recente: una piccola goccia di sangue ancora fresco macchia la punta di metallo.
«Ma che diavolo…» sussurra, aggrottando le sopracciglia.
«Sarah!» chiama ad alta voce, continuando a tenere gli occhi sulla siringa. «Sarah!»
L’uomo sul lettino, preoccupato, si lascia scivolare a terra con sguardo confuso.
«Eccomi!» la segretaria, sul viso un’espressione vagamente turbata, si affaccia nella stanza rimanendo sulla soglia.
«È entrato qualcuno qui, nell’ultima mezzora?» domanda John, aiutandosi a stabilire una tempistica valida attraverso il sangue che vede sull’ago.
«No…» risponde la donna, inclinando la testa da un lato.
«No?» le chiede ancora lui, voltandosi verso la porta e sorprendendosi nel trovarla così distante. «E allora come è finita questa… –   inizia, riportando gli occhi alla scrivania –   questa… qui…?» termina, con un sussurro spezzato. La siringa è scomparsa. Al suo posto,ora, c’è solo un dépliant stropicciato, di quelli lasciati dagli informatori che vengono spesso a fargli visita.
«”Questa”?» La segretaria muove un passo incerto verso l’interno della stanza, frastornata.
«Nulla… Nulla, Sarah.» John prende il blocchetto, cercando di ignorare la sensazione di nausea che gli sta risalendo a fiotti dalla gola. Si allontana dalla scrivania, sorridendo bonariamente alla donna. «Sono solo stanco» le spiega, sperando che possa essere sufficiente. Che basti anche all’uomo che, ancora interdetto, si è spostato di qualche passo verso la porta.
«Ho un’emicrania lancinante. Meglio che vada a casa» tenta di giustificarsi nuovamente, con tono pacato. «Ecco, prenda queste e vedrà che si sentirà subito meglio.» Tende la ricetta verso il paziente, aspettando che la riponga in una delle tasche dei pantaloni prima di salutarlo con una stretta di mano. L’uomo - superando Sarah per dirigersi nel corridoio - le lancia un’occhiata preoccupata, alla quale la donna si limita a rispondere con un sorriso.
«Ti serve qualcosa?» sillaba poi a bassa voce, voltandosi verso John.
«Starò bene» la rassicura lui, aiutandosi con un movimento del capo ad apparire convincente.
Sarah aspetta ancora qualche secondo, immobile sulla soglia. Poi, in silenzio, esce chiudendosi la porta alle spalle.
Non appena rimasto solo nella stanza, John si trascina lento verso il divano logoro di fianco alla scrivania. Sente la testa girare, e lo stomaco contrarsi. Se non fosse del tutto assurdo, attribuirebbe quanto sta provando alla più comune delle fasi discendenti di un’assunzione massiccia di stupefacenti.
Si lascia cadere con un tonfo tra i cuscini sbiaditi, prendendosi la testa tra le mani.
 
«Mi scoppia la testa…» sussurra, chiudendo gli occhi. Prende un respiro profondo e, per un istante, l’odore di legna che arde gli riempie i polmoni. Lo sente nel naso, in bocca, nella gola.
Tossisce, spalancando gli occhi in un luogo che non ha mai visto prima.
È sempre su un divano ma, adesso, di fronte a lui c’è un piccolo tavolino da caffè ricolmo di oggetti.
 
«Mi scoppia la testa…» sente dire ad una voce alla propria sinistra. D’istinto, si volta in direzione della fonte di quelle parole, trovandosi a pochi centimetri da una massa caotica e disordinata di capelli neri, stretta tra le dita di un uomo piegato in avanti, seduto di fianco a lui.
 
 
 
  2.  
 
 
 
«Mi scoppia la testa…» Sherlock allontana le mani dalle tempie e socchiude gli occhi. Un odore che non riesce a riconoscere gli riempie le narici. Sembra dopobarba, di quelli che è solito attribuire – durante le indagini nelle quali aiuta la polizia – a uomini dal temperamento mite che permettono alle proprie compagne di decidere quale profumo ricercato, e di loro gradimento, debbano indossare.
Aggrotta la fronte, confuso, girandosi verso destra.
Per qualche secondo, senza un motivo preciso, il ritrovarsi a pochi centimetri da un perfetto estraneo non sembra turbarlo. Anzi, una parte del suo cervello registra il pensiero che la presenza di quell’uomo in camice bianco –  che lo osserva con le labbra socchiuse e gli occhi sgranati – nel proprio salotto sia, in verità, la cosa più naturale che gli sia mai capitata. Naturale come il battito del cuore che spinge il sangue nelle arterie, o il fatto stesso di respirare.
Come il primo vagito.
Poi, il raziocinio – che da sempre ha elevato a perno centrale della propria esistenza – riprende il controllo, fornendogli una spiegazione razionale a quanto sta vedendo.
«Sei un’allucinazione» afferma, inclinando appena la testa da un lato. «Forse dovrei abbassare il quantitativo di...»
«Morfina?» lo interrompe John, spostando gli occhi sulla siringa poggiata sopra il tavolino di fronte a loro. «Non causa allucinazioni, la morfina» aggiunge, mordendosi le labbra subito dopo. La morfina non darà allucinazioni, ma è quasi sicuro di starne vivendo una proprio in quel momento. E intraprendere una discussione medica all’interno di un delirio dovuto a chissà quali fattori scatenanti non gli sembra un’idea sensata.
«Sto avendo un ictus…» aggiunge poco dopo, annuendo con forza. «Sto avendo un ictus e morirò a breve» conclude, certo di aver compreso l’origine clinica di quanto sta vivendo.
 
«Non vedo perché dovresti morire.» Sherlock, ancora seduto accanto a lui, si alza con un movimento rapido.
«Non saprei… Forse perché si può morire, per un ictus?» risponde John, sollevando lo sguardo su l’altro per cercare di capire dove stia andando. «Ma che diavolo…» esala, sorpreso, vedendolo passeggiare con espressione attenta e curiosa all’interno del proprio studio.
«Sei in ospedale… Non si muore di ictus, se si è già in ospedale» commenta Sherlock, chinandosi per leggere la targhetta metallica appoggiata al centro della scrivania. «Dottor John H. Watson» sillaba, spostando poi la testa verso John, ancora seduto sul divano. «Lavori qui?» domanda, tornando in posizione eretta e riprendendo a camminare.
«Lo sai, che lavoro qui. Sei un’allucinazione. Sei nella mia testa.» John si lascia andare ad un respiro profondo, portandosi le mani al viso.
«Se stessi avendo un ictus, adesso non potresti praticamente più muoverti.» Sherlock si ferma davanti al muro di fianco alla porta d’ingresso, spostando gli occhi su le varie pergamene incorniciate.
«Sei un medico militare» afferma dopo qualche secondo, ancora immobile davanti alla parete.
«Lo sono stato.» John si alza, iniziando a muoversi avanti e indietro, usando come guida le fughe delle mattonelle chiare che rivestono il pavimento.
«Vedi? Non è un ictus» commenta con tono ovvio Sherlock, senza voltarsi.
«Se non sto avendo un ictus, la tua presenza qui è ancora più preoccupante. Te ne rendi conto, vero?»
 
«Divertente…» commenta John solo un attimo dopo, accorgendosi di essere nuovamente nel salotto in penombra. Il fuoco si sta spengendo, e l’ambiente sta diventando più freddo. «È preoccupante anche la mia presenza qui» specifica.
«Condivido. E, ciononostante, non riesco a pensare ad un solo modo per poterti aiutare a sparire. Immagino che dovrai semplicemente attendere che l’effetto della morfina si attenui» considera Sherlock, con tono basso, recuperando il violino dalla propria poltrona e prendendo posto sulla seduta.
«La morfina non genera allucinazioni» ripete John, senza riuscire nemmeno a capire perché lo stia facendo.
«Gli ictus limitano le abilità fisiche, spesso quelle legate al linguaggio» ribatte l’altro, imbracciando il violino.
Sta per appoggiare l’archetto sulle corde, quando lo schermo del cellulare che ha abbandonato ore prima sul tavolino da caffè si illumina. Si voltano entrambi a guardarlo. John, in piedi a pochi passi dal divano, si sporge per leggere il nome sul display.
«Mycroft?» domanda Sherlock, con uno sbuffo.
«Mycroft» conferma il medico, aggrottando le sopracciglia poco dopo. «Che nome è, “Mycroft”?»
«Che nome è, “Hamish”?» ribatte l’altro, e John si volta a guardarlo con aria sorpresa.
«Come… ah, già. Sei nella mia testa» si ricorda quasi subito, tornando a fissare il cellulare.
«Tecnicamente, sei tu ad essere nella mia.» Sherlock porta nuovamente l’archetto sulle corde. «Tecnicamente, sbagliate entrambi. Perché non sei solo, dico bene?» Una voce, piatta, distaccata, riecheggia tra le pareti del salotto. Sherlock alza gli occhi al cielo, lasciandosi andare ad un profondo sospiro. Appoggia il violino al fianco della poltrona, e si alza.
«Che accidenti ci fai, qui? C’è un motivo, se non rispondo alle tue chiamate» soffia, e John, confuso, sposta gli occhi nel punto dove l’altro sta guardando con astio profondo.
«Con chi parli?» domanda, preoccupato che la sua allucinazione stia peggiorando.
«Secondo te con chi parlo? Con l’uomo in completo sartoriale in piedi al centro del mio salotto» ribatte Sherlock, ostile.
«Quale uomo?» ribatte il medico, non riuscendo a vedere nulla oltre alla porta d’ingresso e il pianerottolo in penombra che si apre dietro di essa.
«Non confondere ulteriormente il tuo ospite, fratellino. Non può vedermi» risponde l’uomo, guardandosi attorno con aria attenta. «È un lui? O una lei?» chiede, nella voce una vaga nota di curiosità.
«È un’allucinazione, Mycroft. E inizio a pensare che lo sia anche tu.» Sherlock si porta a passo svelto vicino a lui, allungando una mano in sua direzione.
«Perfetto, le mie allucinazioni hanno allucinazioni a loro volta…» commenta John, lasciandosi cadere sul divano.
«Sei tu ad essere un’allucinazione da morfina» ripete Sherlock, senza voltarsi, mentre muove le dita avanti e indietro sul cotone lavorato della giacca di Mycroft.
«La morfina non dà allucinazioni» ribattono lui e John, insieme.
Sherlock chiude gli occhi e prende un profondo respiro, cercando di tenere sotto controllo la collera che inizia a sentir montare, come un’onda, al centro del petto.
«Dobbiamo parlare.» Mycroft abbassa la voce e la sua espressione diviene, se possibile, ancora più seria. «È di vitale importanza, per tutti noi. Compresa la persona che era qui con te fino ad un attimo fa.»
Sherlock riapre gli occhi e inclina la testa da un lato, lanciando al fratello uno sguardo penetrante.
In silenzio, si volta verso il divano, trovandolo vuoto.
«Come…?» si lascia sfuggire, pentendosi quasi subito di aver mostrato un, seppur minimo, turbamento di fronte all’altro.
«All’inizio è tutto difficile. Instabile.» Mycroft si avvia, con passo lento, verso la poltrona in stoffa posta di fronte a quella del fratello.
«Siediti, abbiamo molto di cui parlare.»
 
«John? John!»
La voce giunge lontana e, per un attimo, il medico non è sicuro di sentirla davvero.
Socchiude gli occhi, cautamente, trovandosi di fronte alla propria scrivania. È ancora seduto sul divano, ed il mal di testa si è solo leggermente affievolito.
«Sarah?» la chiama, girandosi verso l’ingresso dello studio.
«Perdonami, se sono entrata così… ho provato a bussare, ma non rispondevi…» cerca di giustificarsi lei, immobile un passo oltre la soglia. «Sei chiuso qui dentro da un’ora… Iniziavo a preoccuparmi» aggiunge, incrociando le braccia sul petto nel tentativo di nascondere dietro di esse il proprio nervosismo.
John sposta gli occhi sull’orologio appeso poco sopra la porta. Quasi mezzanotte.
«Dio… Mary mi ucciderà» sussurra, alzandosi velocemente dal divano.
«Grazie per avermi… – si blocca, incapace di trovare un termine adatto a rendere l’idea. Avvertito? Scosso? –  svegliato» decide infine, afferrando il cappotto appeso di fianco alla porta e superando la donna, diretto all’uscita.
«John…?» lo richiama lei, voltandosi in direzione del corridoio ma rimanendo immobile.
Lui si ferma, girandosi. Sarah ha un’espressione strana sul viso, e John non riesce a capire se sia preoccupazione, o timore.
«C’era qualcuno, con te?» chiede la donna, e lui socchiude le labbra per la sorpresa.
«No… no. Perché lo chiedi?» indaga, deglutendo a fatica e chiudendo ad intervalli regolari i pugni, per poi tornare a rilassare le dita.
«Mi è parso di sentire…» comincia lei, bloccandosi subito dopo. Si morde le labbra, e sembra che un pensiero le stia appesantendo l’anima stessa. «Nulla. Non importa. Solo… sta attento, ok?» termina, sciogliendo le braccia e iniziando a muoversi verso il desk.
«Certo… ok» balbetta John, celando il turbamento dietro ad un rapido cenno del capo.
L’eco di un fuoco che riprende vigore gli attraversa le orecchie, ma cerca di ignorarlo. Si chiude il soprabito fino all’ultimo bottone, ed esce nel gelo della notte londinese.
 
 
 
  3.  
 
 
 
«E così le mie due nipotine scendono le scale, le mie piccoline… si arrampicano sul divano e si accoccolano tra le mie braccia.»
La voce metallica del televisore –  dal salotto –  giunge fino a John, in piedi nell’ingresso del suo piccolo appartamento a Fulham.
«Siamo molto legati, ma non si erano mai comportate così prima d'ora. Non ne avevamo idea, ma in quel preciso istante, mia sorella era al supermercato...» continua la voce di un uomo, rompendosi per l’emozione.
«Mary?» chiama John, con voce bassa ma udibile, in modo da non correre il rischio di svegliarla nel caso si fosse addormentata aspettandolo.
«Aveva cominciato a sanguinare copiosamente. Era un’emorragia interna, c’era sangue ovunque.
E avevano dovuto chiamare l'ambulanza, ma le mie nipotine lo sapevano. Chissà come, si sono accorte che non lei non stava bene.»
«Mary?» prova di nuovo, affacciandosi nella stanza e trovandola illuminata solo dalla luce cangiante dello schermo acceso.
«Si chiama "risonanza limbica". È una lingua più antica anche della nostra specie. Ha a che vedere con una sostanza chimica, la DMT. È una molecola semplice che si trova in tutti gli organismi viventi. Gli scienziati dicono sia parte integrante di una rete sinaptica eco-biologica» riprende una seconda voce, questa volta femminile. Il medico mette a fuoco, sul monitor, due persone sedute in uno studio televisivo dai colori sgargianti.
«Quelli che la assumono vedono la propria nascita, la propria morte e mondi ultraterreni. Parlano di una verità... di un legame... di trascendenza.»
«Trascendenza. Che idiozia» commenta una voce dietro di lui. Si volta di scatto, trovando Sherlock appoggiato allo stipite della porta che collega il salotto con l’ingresso. «La DMT, invece, è già più interessante. Spiegherebbe molte cose.»
«Che diavolo ci fai ancora…» esala il medico, ma una voce femminile, dall’altro lato della stanza, lo coglie di sorpresa.
«John! Sei tornato! Stavo per telefonare alla clinica!» Mary Morstan, capelli raccolti ed una tazza di the ben stretta tra le mani, compare attraverso il piccolo arco che dà sulla cucina.
«Scusami, mi sono addormentato…» le risponde John, cercando di apparire convincente.
Gira la testa verso l’ingresso, trovando il passaggio vuoto. Sollevato, copre rapidamente la distanza che lo separa dalla donna e le appoggia un bacio leggero sulle labbra. «È stata una giornata pesante.»
«Vieni, guarda con me un po’ di buona tivvù spazzatura» ride lei, accarezzandogli un braccio e prendendo posto sul divano, le gambe incrociate sopra la seduta.
«Sembra interessante…» scherza John, sedendosi di fianco a lei.
«Molto. Parlano di una fantomatica nuova specie di esseri umani. I “Sensorium”. Non
lo trovi meravigliosamente trash?» Mary si porta la tazza alle labbra, soffocando una risata.
John, con la coda dell’occhio, scorge di fianco alla finestra una sagoma che gli sembra familiare. Sta scuotendo la testa, e sembra inquieta.
«Sarah…?» si lascia scappare John, ma l’ombra è già sparita.
«Sarah?» ripete Mary, voltandosi con aria corrucciata verso di lui.
«Sarah… me ne ha parlato, mi pare» mente il medico, gli occhi ancora alla finestra.
«Forse dovreste scegliere gli impiegati con più attenzione…» scherza Mary, e si raggomitola sul suo petto.
«Sì…» si limita a commentare lui, spostando lo sguardo verso lo schermo. «Immagino di sì.»
 
 
«Quindi non saresti davvero qui.» Sherlock si muove impercettibilmente sulla poltrona, allargando le gambe e tamburellando nervosamente con le dita sui braccioli.
«Puoi venire a farmi visita, se lo desideri. Ma ti avverto: non è un bel posto, quello dove mi trovo.» Mycroft alza il mento, stirando le labbra in un sorriso triste.
«Continuo a ritenere la morfina la spiegazione più semplice e, quindi, l’unica possibile» ribatte il fratello inclinando la testa da un lato, con fare sostenuto.
«Una parte di te, invece, sa che questo è reale. Tutti capiamo quando le persone ci mentono. Tu, in special modo, hai fatto di questa particolare “sensibilità” un lavoro. Molti preferiscono semplicemente far finta di niente» continua l’altro, con tono piatto.
«Non è sensibilità, Mycroft. È capacità» ribatte Sherlock, secco.
«Tanti direbbero che non vi sia una grande differenza tra capacità, intuito, e sensibilità.» Mycroft chiude gli occhi per qualche secondo e, all’improvviso, appare profondamente stanco. Sherlock aggrotta le sopracciglia, sorpreso dal vedere il viso dell’altro tanto segnato. Stremato.
«Non ho molto tempo. Quindi ho bisogno che tu mi ascolti attentamente. Anche se non dovessi credere ad una sola delle parole che ti dirò, potrebbero comunque aiutarti, quando verrà a cercarti. A cercarvi
Sherlock deglutisce. Vorrebbe alzarsi, urlare a Mycroft di uscire da casa sua e di lasciarlo in pace. Invece resta seduto, immobile, preparandosi ad ascoltare qualcosa che, lo percepisce chiaramente, non riuscirà a comprendere del tutto. La cosa lo disturba, come lo infastidisce il dover dipendere dal fratello per avere delle informazioni che, in modo quasi atavico, avverte essere di vitale importanza.
«Perché dovrei credere a quello che mi dirai? Potresti essere solo un parto della mia immaginazione» obietta, ma resta in attesa, lo sguardo ben saldo sul viso dell’altro.
«Non devi credere, Sherlock. Già sai.» Mycroft socchiude gli occhi, ancorandoli a quelli del fratello, così simili ai suoi eppure tanto diversi, ancora morbidi, integri.
Capisce perché Greg abbia scelto lui. Eppure, non può che detestare il pensiero di aver messo il suo stesso sangue così in pericolo. Proprio lui, che ha passato una vita intera ad osservarlo da lontano, vigilando su ogni suo passo e tenendolo al sicuro sotto il lungo mantello della propria ombra protettrice.
«Non sei davvero qui, vero?» La domanda di Sherlock, quasi una presa d’atto della verità, non lo sorprende. È sempre stato particolarmente intuitivo. Perspicace. Un “dono”, come lo definiva con chiunque altro parlando di lui, senza mai farne menzione in sua presenza.
«No. Sono in isolamento» risponde Mycroft, abbozzando un sorriso stanco. «E temo che arriveranno a me molto presto.» Abbassa gli occhi e, per un attimo, può quasi sentire la pressione di un proiettile attraversargli la carne, facendosi largo nelle ossa del cranio. «Questo… lo chiamiamo "fare visita"» riprende, e sa che dovrà dire tutto, e in fretta, se vuole che Sherlock abbia almeno una possibilità di riuscita. «I membri di una cerchia lo fanno tra loro istintivamente. Al di fuori di un gruppo, si può far visita solo alle persone con le quali si è stabilito almeno un contatto visivo faccia a faccia.» Si ferma, cercando di capire se Sherlock stia riuscendo a seguirlo nel ragionamento. È certo che lo abbia compreso, a livello logico, ma ha bisogno che lo afferri in modo profondo, viscerale. «Chiunque fosse con te prima, quando sono arrivato… Ecco, lui fa parte della tua cerchia.»
«Quello che dici non ha alcun senso» replica il detective, scuotendo la testa.
«Sì, ne ha. E prima lo capirai, prima potrai imparare la differenza tra "visita", e "condivisione".» Il viso di Mycroft si contrae e, nonostante la penombra, Sherlock riesce a distinguere chiaramente il dolore che gli attraversa gli occhi. Vorrebbe domandargli cosa stia accadendo, ma avverte che non c’è più tempo. Lo legge nelle mani contratte del fratello, nel suo respiro che si è fatto più superficiale e veloce.
«Quello che sto facendo adesso, qui, con te, è una visita. La condivisione, invece, avviene esclusivamente all'interno del tuo gruppo» prosegue Mycroft, rinunciando al proprio usuale tono di voce distaccato. Deve interrompere quel contatto il prima possibile, lo sa. Deve rimanere solo ed isolarsi della rete, o non ci metteranno molto ad arrivare al fratello e, da lui, alla sua cerchia.
«Condivisione di cosa?» domanda Sherlock, ma crede di conoscere già la risposta.
«Conoscenze, lingue, capacità di ogni singolo componente del gruppo.» Mycroft si alza, a fatica. La testa pulsa così forte da non riuscire quasi a sentire i pensieri.
«Cos'è un gruppo?» gli chiede il fratello, alzandosi a sua volta.
«Quante persone ti hanno fatto visita, questa sera?»
«Una… uno. Un medico.»
«Bene. Allora, lui è il tuo gruppo» sussurra Mycroft, mentre un dolore sordo gli serra lo stomaco e spezza il respiro. Due. Sono stati solo in due, a nascere. I più forti, con molta probabilità.
«Cerca di fargli visita… Allenati… È importante…» dice, ma la sua voce giunge alle orecchie di Sherlock come lontana, disturbata.
«Mycroft?» lo chiama, muovendo un passo verso di lui.
«Mi dispiace» sussurra l’altro. Un secondo, il tempo di un battito di ciglia, ed il salotto è di nuovo vuoto. Nella luce fioca e tremula del camino, Sherlock corre fino al tavolino da caffè, afferrando il cellulare. Lo sblocca, portandoselo all’orecchio dopo aver composto il numero del fratello.
Riattacca dopo il sesto squillo, gettando con un ringhio collerico il telefono verso il divano.
Si passa una mano tra i capelli, sentendo la frustrazione risalire a fiotti lungo le vene.
Razionalmente, nulla di quanto ha visto, o sentito, gli appare reale.
Ma una piccola parte di sé, in un punto nascosto del suo Palazzo Mentale, sembra aver serenamente incamerato ed interiorizzato questa nuova visione del mondo. Come se l’idea di poter essere in contatto con qualcun altro, con John Watson, fosse naturale quanto il concetto stesso di esistenza.
È ancora immobile, concentrato sull’immagine del medico, quando rialzando lo sguardo si trova pochi passi dietro di lui.
Qualcuno, in un programma televisivo di dubbia affidabilità, sta discutendo di biologia associandola a discorsi dai tratti marcatamente New Age.
«Quelli che la assumono vedono la propria nascita, la propria morte e mondi ultraterreni. Parlano di una verità... di un legame... di trascendenza.»
«Trascendenza. Che idiozia» commenta Sherlock, di getto, appoggiandosi allo stipite della porta. «La DMT, invece, è già più interessante. Spiegherebbe molte cose» aggiunge, intravedendo una spiegazione logica e fisiologica dietro le parole del fratello.
«Che diavolo ci fai ancora…» esala John, girandosi verso di lui.
Sherlock sta per rispondere ma una voce femminile, dall’altro lato della stanza, lo distrae.
«John! Sei tornato! Stavo per telefonare alla clinica!»
Il detective chiude gli occhi per un secondo, stupito. Quando li riapre, è di nuovo a Baker Street.
È di nuovo solo.
E qualcosa – in mezzo al petto – duole e brucia, incendiando ogni respiro.
 
 
 
  4.  
 
 
 
John appoggia con attenzione la tazza, piena di the, sul tavolo della cucina. Una goccia –  in bilico sul bordo –  ondeggia qualche secondo prima di cadere verso l’esterno, precipitando in direzione del piattino.
Il rumore del fuoco che scoppietta nel camino –  che lo ha accompagnato per le ultime quattro ore –  è scomparso e, sorprendentemente, il silenzio che ha preso il suo posto gli ha lasciato un vuoto al centro del petto. Gli sembra quasi di essere stato staccato bruscamente da un “cordone ancestrale”, un filo atavico che legava il suo corpo a quello di qualcun altro, mescolando il loro sangue.
«È sempre così, finché non impari a gestirlo.» Una voce, alle sue spalle, lo coglie di sorpresa. Nel girarsi, il medico colpisce malamente la tazza, facendola finire a terra.
Sente il the, caldo, arrivare fino ai propri piedi scalzi, impregnando il parquet sul quale poggia le dita.
In piedi a pochi passi da lui, le braccia al petto e lo sguardo colpevole, Sarah osserva quel che resta della ceramica infranta.
«Perdonami…» balbetta. «Non dovrei farti visita in questo modo» aggiunge, spostandosi con passi lenti verso John. Lui, stordito, la segue con gli occhi, fin quando non la vede prendere posto sulla sedia accanto alla sua.
«Sarah… Che…» deglutisce, in cerca di ossigeno. «Cosa fai qui? Come sei entrata?» riesce a dire alla fine, dopo qualche tentativo.
«Non sono entrata, John. Sono qui perché tu, sei qui.»
La donna allunga una mano verso il medico che, d’istinto, si ritrae.
Non appena appoggiatosi allo schienale, però, si rende conto di non essere più seduto su una delle sedie di legno grezzo della propria cucina. Quella su cui si trova adesso ha lo schienale di pelle trattata, morbida, e il tavolino di fronte a lui è divenuto il ripiano lucido dell’isola di una cucina moderna.
«Che diavolo…» geme, guardandosi attorno. Sarah, un sorriso teso in bilico sulle labbra, è ancora seduta accanto a lui, ma la luce dell’ambiente – più calda e soffusa – la fa apparire meno spettrale.
«Lo so che adesso non riesci a capire…» incomincia lei, abbassando gli occhi per un secondo. «Ma so che puoi intuire.»  
«Intuire?» domanda lui, sentendo i propri muscoli rilassarsi, nonostante sappia perfettamente che – nello stato di tensione psicologica ed emotiva nel quale si trova – dovrebbero fare l’esatto opposto: tendersi. Indurirsi. Prepararsi alla fuga.
«Se ti domandassi qual è il primo nome… Il primo nome che ti viene in mente, se spingi la memoria il più possibile indietro nel tempo… Sapresti rispondermi?» Sarah inclina la testa da un lato, accompagnando la domanda con un sorriso incerto, ma rassicurante.
«Vuoi dirmi cosa sta succedendo?» risponde John, avvicinandosi a lei e abbassando la voce fino a farla divenire un sussurro. «Sto impazzendo?»
«No… tutt’altro» dice lei, rapida. «Sta solo diventando pienamente te stesso. Stai evolvendo
«Evolvendo…» ripete lui a mezza bocca, e – si rende conto con stupore – la spiegazione non gli sembra poi così strana.
«Ho bisogno del nome, John. O non saprò se posso fidarmi o meno» lo incalza Sarah, negli occhi una fugace ombra di angoscia.
«Il nome… Ok. Vediamo.» John serra gli occhi, così forte da sentire dolore.
Uno stralcio di conversazione, tra due persone che non conosce, gli giunge come un’eco lontana.
 
«Ti amo
«Greg…»
 
«Greg…?» ripete, incerto.
«Greg! Lo sapevo!» Sarah si alza in piedi, di scatto, e John spalanca gli occhi in risposta a quel movimento repentino. Sono di nuovo nella sua cucina, ed il the è stato quasi del tutto assorbito dal legno del pavimento.
«Chi è Greg?» chiede il medico, e non riesce a capire se l’agitazione che muove i passi dell’altra sia una frenesia buona o un’inquietudine incontenibile.
«Tuo padre. Vostro padre» risponde lei e, per un attimo, un pensiero sembra inchiodarla al suolo. Si blocca, girandosi nuovamente verso di lui. «Quanti siete? Quante… persone hai visto, fare quello che ho fatto io? Comparire in posti dov’eri?»
John socchiude le labbra, sorpreso.
«Quanti, John…!» lo incalza lei, e la tensione nella sua voce ha il potere di scuotere il medico dai propri pensieri.
«Una… una sola. Un uomo» risponde.
«Solo due…» riflette lei, portandosi le dita alle labbra e cominciando a torcerle, sovrappensiero.
«Solo due, cosa?» prova il medico, cercando di combattere la sensazione di agitazione che si sta facendo largo nei suoi respiri.
«Solo due come ultima cerchia a protezione di tutti noi da Whispers…»
«Whispers?» John sente le viscere contrarsi. A Baker Street, Sherlock – addormentato sulla poltrona – viene scosso da un brivido violento. Si sveglia di soprassalto, nelle orecchie il suono lontano di un vociare confuso.
«Lo chiamiamo Whispers, perché è come un bisbiglio continuo nella testa.» Sarah riprende a muoversi, scossa. «Verrà a cercarti. Ma tu non devi guardarlo negli occhi. Mai.»
«Io non capisco…» sussurra John, e la disperazione che gli rompe la voce sembra placare la smania che agita i passi della donna.
Si ferma e, rapida, torna a sedersi accanto a lui.
«Greg lavorava con Whispers» inizia, con voce bassa e parole veloci. «Facevano… Facevano nascere dei gruppi. Greg, li faceva nascere. Ma non aveva capito cosa volesse Whispers davvero. Lui usava i nuovi nati per trovare gli altri. Dava la caccia a quelli come noi.»
«Quelli come noi? Cosa… cosa saremmo, noi
«Una nuova specie. Un’altra specie, se questa definizione può aiutarti a capire.» Sarah sorride, un sorriso amaro, triste. «Un anello nato nella tappa evolutiva tra i Floresiensis e i Sapiens. Un anello fatto sparire, nascosto.»
«Perché qualcuno dovrebbe far sparire una specie intera?» John aggrotta le sopracciglia. Qualcosa però, in una parte recondita della sua mente, gli ha già fornito una risposta valida, per quanto crudele.
«Perché i Sapiens distruggono tutto ciò che percepiscano come una minaccia. E questo lo avevano capito già i nostri antenati, venticinquemila anni fa» conferma Sarah, quasi fosse riuscita a leggere tra le ombre negli occhi dell’altro i timori che gli affollano la mente.
«Whispers… è un Sapiens?» chiede John e la donna, per una frazione di secondo, appare sollevata. Sta capendo, e imparando, più in fretta di quanto avesse immaginato. Sperato.
«Sì. Ma vorrebbe essere come noi.»
«Noi…» ripete John, distrattamente. «Ancora non riesco a capire…»
 «Mio padre, poco dopo la mia nascita, mi disse una cosa che ho sempre portato con me. Forse è ciò che mi ha tenuto in vita fino ad ora.» La donna chiude gli occhi, cercando le definizioni più adatte a rendere concretamente, a parole, quello che all’epoca era stato solo un insegnamento sentimentale, viscerale, rilasciato attraverso uno flusso silenzioso di emozioni.
«Mi disse che ciò che ci rende quello che siamo è molto meno importante di ciò che rende loro quello che sono. Alla fine non conta chi è nato prima, o chi si creda l’unica specie padrona di ogni cosa. Conta solo che una minuscola mutazione cromosomica, più di ventimila anni fa, sia bastata a spezzare il loro legame con la natura. Con gli altri. L'isolamento gli ha permesso di concentrarsi sulla cosa che riesce loro meglio rispetto a qualsiasi altra specie mai esistita. Uccidere. È facile uccidere, se non senti niente.»
«Gli uomini non sono tutti così…» protesta John, mentre ripensa a quanti commilitoni, quanti amici avevano messo la loro stessa a vita a repentaglio, nel tentativo di proteggere quella altrui.
«No… ma i più crudeli tra loro lo sono. E Whispers è l’incarnazione stessa del male.» Il volto di Sarah si contrae e, per qualche secondo, John è convinto che stia per morire di dolore. La sofferenza che le legge tra i lineamenti irrigiditi lo spaventa, perché la conosce bene. L’ha vista mille volte, su facce diverse, in luoghi lontani. È la disperazione dell’agonia che precede la morte, quell’attimo di puro terrore che fa spalancare gli occhi prima di svuotarli della loro luce.
«Quanti… quanti eravate?» le domanda, e sa di dover usare il passato, per chiederle della sua cerchia. Lo sente, perché ha compreso che ogni lacrima che ora le bagna il volto non è che il ricordo di una vita spezzata.
«Otto. Siamo sopravvissuti in due…» geme Sarah, e scuote la testa, come se il movimento l’aiutasse a dimenticare. «Presto scoprirai che le sensazioni che provi… le emozioni… non sono più solo tue. Persino nella morte, non sarai solo. Proteggi te stesso, John. E proteggi l’uomo che ti ha fatto visita, ad ogni costo.»
Alle loro spalle si accende una luce leggera, proveniente dal salotto. Il medico non si volta, ma sa che fra qualche secondo Mary comparirà sulla soglia, preoccupata di non averlo trovato vicino a sé, al risveglio.
«Devo andare.» Sarah gli sfiora con una mano il braccio, un tocco leggero, veloce, ma che John riesce a sentire sulla pelle con la stessa intensità con la quale percepisce il pavimento freddo sotto i propri piedi.
Annuisce, e porta una mano sopra quella della donna. «Grazie» sillaba, in silenzio, e l’altra abbozza un sorriso teso prima di sparire.
John guarda la propria mano svuotarsi, ricadendo sul suo stesso braccio. Per qualche secondo non riesce a pensare ad altro che al tepore. Il lieve calore della mano di Sarah ancora immobile al centro della sua, una sensazione che – più di ogni altra – lo forza a credere che fosse davvero lì, con lui, fino ad un attimo prima.
«John…?» Mary si affaccia in cucina, le braccia strette al petto a chiudere la vestaglia di cotone leggero.
«Mary» risponde lui, e sente la propria voce tremare.
«Va tutto bene?» chiede lei, avvicinandosi con passo incerto. Si ferma dopo poco, avvertendo un liquido freddo bagnarle i piedi. Abbassa la testa, scoprendo i resti della tazza infranta.
«Ho colpito il tavolo per sbaglio» l’anticipa John, e si sente un traditore.
«Non importa, ti do una mano a sistemare» ribatte lei, chinandosi per afferrare i pezzi di ceramica.
«No… no.» John la ferma, scendendo dalla sedia e abbassandosi a sua volta. «Torna a letto. Arrivo subito, promesso.»
Lei si ferma, guardandolo con aria corrucciata.
«Davvero, ci metto un secondo. Io ho fatto il danno, io lo sistemo» insiste lui, sorridendole.
«Ok…» cede Mary dopo un attimo, rialzandosi. «Se hai problemi a prendere sonno possiamo vedere un po’ di televisione» propone, ma il medico scuote la testa con forza.
«Salgo tra poco. Davvero» le dice, iniziando a radunare i pezzi.
Lei annuisce, in silenzio. Lentamente si avvia verso il salotto, voltandosi a guardarlo una volta arrivata alla porta.
Lui rialza la testa, e le sorride di nuovo. «Arrivo» ripete, e Mary sembra convincersi. Esce, spengendo la luce del salotto qualche secondo dopo.
John rimane a fissare la porta, mordendosi un labbro. Poi riprende ad avvicinare i cocci, per poterli raccogliere. Uno, particolarmente aguzzo, gli ferisce il palmo della mano sinistra, entrando sotto pelle. Dolorante, soffoca un gemito di frustrazione, guardando il sangue cominciare ad uscire dalla piccola ferita.
 
Sherlock, a qualche miglio di distanza, sente qualcosa attraversargli la mano sinistra. Abbassa in fretta il violino, fissandosi il palmo, intonso, con aria stupita. Il tempo di chiudere gli occhi per ritrovare la concentrazione, ed il salotto diviene una cucina dai mobili chiari in legno trattato. John, ancora inginocchiato di fianco al tavolo, osserva con attenzione la ferita che si allarga sulla parte interna della propria mano sinistra, e sembra più stanco e affaticato di qualche ora prima. Sherlock si morde un labbro, in silenzio, concentrandosi su come i movimenti compiuti dall’altro intorno alla lesione sembrino ripercuotersi direttamente sul proprio corpo. Sente tirare, bruciare, e vorrebbe quasi chinarsi di fronte a lui per dirgli di fermarsi. Che non è necessario punirsi per una bugia che era obbligato a raccontare.
«Sei un medico, per l’amore del cielo. Fa’ qualcosa, invece di continuare a slabbrare i bordi!» dice invece, e può percepire il cuore di John aumentare i battiti. Lo avverte dentro la propria gabbia toracica, quasi si trovasse a pochi centimetri dal proprio.
«Non prendo ordini da un’allucinazione. Soprattutto da una della quale non so neanche il nome» ribatte il medico, più per colpire l’altro nell’orgoglio che per reale convincimento che si tratti ancora di una fantasia, un parto della propria mente.
Sherlock sbatte un paio di volte le palpebre, con fare oltraggiato. «Non sono un’allucinazione, e lo sai. Lo so, che lo sai» sbotta, allungando l’archetto verso l’altro. «Ad ogni modo, il nome è Sherlock Holmes.»
«Che razza di nome è, Sherlock?» domanda John, e già sa quale sarà la risposta che otterrà.
«Che razza di nome è, Hamish?» risponde l’altro quasi subito, ed il medico si apre in un sorriso divertito.
«È il mio secondo nome…» Alza le spalle, con noncuranza, finendo di radunare i cocci.
«Anche Sherlock è il mio secondo nome. Ne ho tre, nel caso ti possa interessare.» Sherlock imbraccia il violino con un movimento largo e plateale, dandogli le spalle.
«Lo… so. Credo» ribatte John, raccogliendo quanto resta della tazza e avvicinandosi al cestino della spazzatura, di fianco al mobile del lavello. «Che problemi hai con il nome William?» chiede, mentre l’appellativo compare a chiare lettere nella sua mente.
«È banale» borbotta l’altro, cominciando a suonare.
«Già… la banalità, il grande male del nostro secolo!» Il medico afferra uno straccio pulito, tornando vicino al tavolo. Prima di chinarsi per asciugare quanto resta del the, lancia un’occhiata alla schiena dell’altro, dritta e tesa sotto il cotone leggero della vestaglia.
«Sei bravo, a suonare…» sussurra, appoggiandosi alla seduta della sedia con una mano, per aiutarsi.
«E tu sei un bravo medico. Di quelli a cui interessa davvero della vita delle persone» risponde Sherlock, senza voltarsi.
«Sì… credo di sì.» John, finito il proprio lavoro di asciugatura, torna in posizione eretta. Si passa una mano sulla fronte e, per un attimo, sembra bloccarsi. Sta pensando, e i pensieri sono come ombre nere che si addensano tra loro. Sherlock può sentire la fatica del ragionamento dell’altro, la percepisce nella testa, attaccata alla propria mente come un fardello.
«Sherlock…» Il suono del suo nome, pronunciato dalla voce del medico, lo costringe a fermarsi. Smette di suonare e, lentamente, si gira verso di lui.
«Ho avuto una visita, questa sera…» comincia John, e sembra terribilmente spossato. «Oltre alla tua» precisa, allargando le mani.
«Anche io ne ho avuta una» ribatte Sherlock, serio.
«Mycroft?» chiede il medico, e l’altro alza appena il mento, sorpreso. Annuisce, rimanendo in silenzio.
«Ti ha parlato, per caso, di un certo Whispers? La mia visita ne era molto spaventata.» John si porta le braccia al petto, incrociandole. Indietreggia di un passo, appoggiandosi al tavolino.
«No. Ma ha detto che era importante che imparassi a farti visita. Che capissi in fretta come funziona questa… cosa.» Allarga le braccia, il violino ancora ben stretto nella mano sinistra, e intorno a loro il salotto di Baker Street sembra per un attimo più freddo.
«Vuole che capiamo come spostarci?» chiede John, adesso appoggiato al tavolo di legno al centro della stanza, tra le due grandi finestre che dominano l’ambiente.
«Non credo che sia una cosa che “si fa”. Credo sia più qualcosa che “accade”. Dobbiamo capire solo come farlo accadere.» Sherlock appoggia lo strumento alla poltrona, e si siede accavallando le gambe. «Ma questo Whispers… potrebbe essere la minaccia alla quale accennava Mycroft. Quella dalla quale cercava di nascondersi» riflette, portandosi le labbra tra i denti. «Cosa ti ha detto, esattamente, il tuo visitatore?»
La luce del salotto è di nuovo accesa, e loro sono nuovamente in cucina.
John lancia un’occhiata rapida a Sherlock, ancora seduto sulla poltrona che però, ora, si trova a pochi passi di fornelli.
«Devo andare.» Il medico gli passa accanto, veloce, ma Sherlock gli blocca un polso, impedendogli di proseguire.
John si ferma, girandosi a guardarlo con aria sorpresa.
«Che fai? Lasciami!» sussurra, chinandosi appena verso l’altro.
«Perché lo fai?» gli domanda Sherlock, l’azzurro delle iridi liquido e cangiante.
«Faccio cosa?» ribatte il medico, abbassando ancora di più la voce.
«Continui a mentire a te stesso. Ogni mattina, e ogni sera» risponde l’altro e, per un attimo, sembra quasi amareggiato.
«Io non mento a me stesso! E ora lasciami!» gli intima John, dando uno strattone più forte.
Mary –  di nuovo in piedi nello specchio della porta –  lo trova così, un braccio alzato e la schiena curva, come se stesse parlando ad un bambino.
«John…?» prova, con voce incerta.
«Eccomi» risponde lui, lasciando un ultimo sguardo nel punto dove Sherlock è appena scomparso. «Andiamo a dormire» aggiunge, portandosi velocemente vicino a lei. «Prometto di non alzarmi più.»
 
Sherlock, a Baker Street, si guarda attorno.
È di nuovo solo e, per la prima volta in tutta la vita, si sente vulnerabile. Esposto.
Indifeso.
Ha bisogno di risposte, subito. Chiude gli occhi e si concentra, cercando di mettere a fuoco la figura del fratello, seduto nella poltrona di fronte alla sua.
«Mycroft?» prova, a mezza voce. «Ho bisogno di parlarti.»
Passa qualche minuto. Nel salotto, l’unico rumore udibile è quello della legna che arde nel camino.
Poi, quando sta per arrendersi, una voce malferma lo raggiunge. Appare lontana, all’inizio, ma diviene sempre più forte ad ogni parola.
«Bene…» gli sussurra, e sembra soddisfatta. «Hai impiegato decisamente meno tempo di me, a capire come funzioni. Non spaventarti per quello che vedrai aprendo gli occhi, fratello caro. Purtroppo, al momento non posso fare altro.»
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Poche, pochissime serie televisive mi hanno conquistata, e fatta perdutamente innamorare, fin dalla prima scena. Una è Sherlock, com’era forse facilmente intuibile. XD
Poi è stato il turno di Hannibal.
Alla fine, quando ero convinta che non avrei mai potuto appassionarmi così tanto a qualcosa, è arrivata sense8.
Chi l’ha vista, potrà capirmi. Una serie coraggiosa, libera, commovente, a tratti crudele.
Se siete in dubbio sul cominciarla o meno, fatelo senza ulteriori indugi.
Ho pensato a lungo a come poter far convivere questi due universi, così lontani tra loro, in modo da poter racchiudere in una sola storia due dei miei affetti televisivi più grandi.
Dopo aver iniziato a scrivere, mi sono scontrata quasi subito con la difficoltà di rendere “a parole” il fascino della condivisione che così meravigliosamente, a livello visivo, sense8 riesce a raccontare attraverso i più disparati e suggestivi cambi di scena.
Dopo aver scritto quasi 50 pagine, non sono comunque sicura di esserci riuscita.
Ma se fossi riuscita a trasmettere anche solo una piccola, microscopica parte di quello stupore, potrei dirmi davvero, davvero felice.
 
Grazie di cuore, come sempre, a chiunque abbia letto fin qui.
 
L’appuntamento è per sabato 27. ^_^
 
A presto,
B. 
   
 
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