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Autore: design_r    24/05/2017    0 recensioni
[Jason Bourne]
[Jason Bourne]Cosa resta di te?
Quando tutto ciò che ami ti è stato portato via.
Quando ti hanno consumato l'anima.
Quando anche la possibilità della vendetta non ti attira, e tu sei lì, divorata dal dolore da poter reagire.
Cosa resta di te, se non ricordi spazzati via dal tempo che lacera le tue ferite?
Genere: Azione, Drammatico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta
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Vedo il suo viso, sento la sua voce e poi il nulla.

Mi sveglio di soprassalto, fatico a respirare.
Prendo totalmente conoscenza e mi rendo conto di essere ancora qua, intrappolata.
La stanza in cui mi trovo è bianchissima, tanto da accecarmi, le pareti di questo colore lucente.
Non ci sono finestre e di certo i neon ad intermittenza sul soffitto non aiutano.
La stanza non è molto ampia, un metro e mezzo per tre, forse.
A rendere più “rassicurante” il tutto c’è uno specchio posto su metà della parete alla mia destra e una porta d’acciaio con chiusura esterna che sormonta la parete frontale.
Ad occhio la porta sarà spessa circa mezzo metro, forse di più, per quante volte ci sono sbattuta.
Si gela.
Sono seduta sul pavimento, grondante di sangue.
Mi accovaccio il più possibile su me stessa, cercando di mantenere stabile il calore corporeo, per quanto possibile.
Forse sto tremando, non ne sono certa.
La vista mi si appanna e la testa mi scoppia.
Ho la schiena coperta da cicatrici, alcune riaperte per via delle frustate.
Non sento più le gambe e il braccio destro credo sia rotto.

D’altronde me lo merito.
E’ colpa mia se mi hanno ridotta così.
Mi sono illusa.
Ero convinta di poter essere più forte del mondo.
Ero convinta che tutto questo potesse cambiare.
Analizzando la situazione, però almeno qualcosa sta cambiando, mi sto disilludendo.

Un  fischio assordante si diffonde all’interno della stanza, non capisco da dove provenga, o cosa lo propaghi.
Quando il fischio cessa, si diffonde la voce rauca di un uomo: “Allora bellezza, sai già quello che succederà tra dieci minuti”.
La voce maschile si interrompe.
L’uomo tossisce, poi si schiarisce la voce.
Ascoltandolo immagino sia uno di quei tirapiedi senza carattere, magari non voleva collaborare a tutto questo, magari non sapeva come sarebbe finita.
Si sente un altro fischio: ”Quindi vorrei alleggerire un po’ la cosa, ti faccio ascoltare un po’ di buona musica”.
Comincio a ridere “vorrei alleggerire un po’ la cosa”, ma chi vuole prendere in giro?
Non lo fa per me, ma per se stesso.
E’ consapevole di ciò che sta per accadere e vuole solo togliermi dalla coscienza.
Cerca una scusa dentro di se per ciò in cui è complice.
Passano pochi secondi e a far da sfondo al mio delirio si sente una melodia molto piacevole.
Una voce si espande e riempie tutta la stanza.
E’una voce soave, delicata, ma allo stesso tempo forte e determinata.
Solo dopo mi rendo conto che conosco quella voce, quella melodia, quella canzone.
Era la canzone preferita di mio fratello, lo calmava.
Porto istintivamente la mano sinistra al ciondolo che porto al collo.
E’ un semplice pezzo di ferro a forma triangolare, ma racchiude molto di più.
Ricordo ancora quando mio fratello lo trovò.
Quel giorno per me cambiò ogni cosa.
Ricordo i suoi movimenti attorno a quest’oggetto, il suo sguardo.
E, cosa più importante, ricordo le sue parole: “Sembra solo uno stupido triangolo” aveva detto.
Mi aveva poi guardato e, dopo un lieve sorriso aveva continuato: “Ma se guardi bene non è solo questo, è una struttura forte e per quanto possa essere messa alla prova non si spezza” .
Io avevo risposto  sorridendo a mia volta, ma lui aveva percepito la mia insicurezza.
Così mi chiese: “Sai perché non può spezzarsi?”
A quel punto scossi la testa e lui mi rispose con una tranquillità che all’epoca mi sembrò irreale.
Disse: “Perché non è solo un pezzo di ferro, sono tre pezzi che si supportano a vicenda, vedi?”.
Ricordo che aveva passato le dita su ognuno degli spigoli del triangolo, contandoli lentamente e ricominciando.
Quelle parole per me rappresentavano un modo per andare avanti.
Erano una forma potente di riscatto.

Una volta non avrei mai creduto che potesse finire così.
Una volta non lo avrei mai permesso.
Adesso, invece, lo accetto.
 
Accetto di essere uccisa per crimini che non ho commesso.
Accetto di sparire  in un posto desolato senza che la verità si possa diffondere.
Accetto di abbandonare tutto ciò in cui credo.
Lo accetto.
E non perché non posso farcela, ma perché l’ho già fatto e non voglio farlo più.
Non da sola, non a questo prezzo.
Lo accetto perché non sono più disposta a combattere.

Quindi si, tra dieci minuti morirò e non resterà più niente di me.
Ma non importa.
Ho fatto quello che dovevo e ora è il momento di fermarsi.
Ho bisogno di fermarmi a ricordare.
A ricordare tutti i momenti stupendi che ho vissuto.
Perché ne ho bisogno?
Perché voglio farla finita.
Adesso voglio solo chiudere gli occhi e ricordare le persone che ho amato.

Sollevo leggermente la testa, consapevole che mancano pochi minuti.
Ci siamo.
Osservo il ciondolo che tengo ancora ben stretto nel palmo.
Poi chiudo gli occhi e, rivivendo il più bel ricordo della mia vita, sfioro gli spigoli del triangolo con le dita.
Il contatto è quasi doloroso, così freddo e pungente che quasi mi fa trasalire, ma è una di quelle sensazioni che per quanto dolorose, si godono fino in fondo.
Fino all’ultimo respiro.
Così comincio a contare gli spigoli più e più volte soffermandomi sempre di più sulle sensazioni che il contatto mi suscita.

Uno, due, tre.
Uno, due, tre.
Uno, due, tre.

La porta si apre, ma io non presto attenzione, continuo invece a contare forse in preda al delirio o ad un raro momento di lucidità.
Non mi muovo, quasi non sento più il mio corpo, non lo percepisco.
L’unica cosa che vedo sono gli scarponi di chi è entrato, anfibi neri e robusti.
Sarà l’ultima cosa che vedrò, perché in questi venti secondi voglio solo chiudere gli occhi e sparire per sempre.
L’uomo si avvicina e mi sposta di peso, le sue mani sulle mie spalle.
Sento il pavimento freddo a contatto con la schiena.
Poi tutto si ferma, tutto ciò per cui in sono preparata scompare.

L’uomo allenta velocemente la presa, lasciandomi completamente libera.
Apro gli occhi e percepisco l’uomo portarsi le mani dietro la schiena per prendere la pistola.
Mi rendo conto di essere completamente sdraiata, la schiena contro le piastrelle bianchissime.
Cerco di rimettermi in piedi portando il peso del corpo sul braccio sinistro, mentre a dieci metri di distanza si sentono spari.
Non avendo la forza per sollevarmi sulle gambe, cerco si sedermi appoggiando la schiena alla parete.
Il mio corpo è così stremato che non avverto più dolore.
L’uomo avanza, la pistola dritta davanti a lui.
Davanti a noi un lungo corridoio protetto da una porta di compensato.
Sopra di me c’è un tubo che sporge, lo afferro e mi tiro su.
Adesso sono in piedi, ma non sono abbastanza in forze per correre contro la porta e scappare.
Mi serve un diversivo per riuscire a fuggire senza rimanere a terra strada facendo.
D’un tratto un proiettile trapassa la porta e perfora il cranio dell’uomo, che prima aveva la fine del corridoio sotto tiro.
Il mio battito cardiaco accelera, mentre il respiro si affanna sempre di più.
L’uomo si accascia a terra, le braccia stese, la pistola ad un metro da me.
Mi butto istintivamente per prenderla, ma porto il peso sulla gamba sinistra che, probabilmente rotta, non sopporta il peso e la lesione si estende.
L’osso perfora  la pelle.
Mi accascio a terra prendendo la pistola e impugnandola.
Il dolore lancinante mi annebbia la vista, gemo e striscio verso la porta tenendola sotto tiro.
La porta viene scardinata e sbatte a terra,un rumore assordante.
All’interno dell’intero edificio si diffonde un suono stridente, forse un allarme.
Non riesco a sopportarlo, così abbasso leggermente la testa.
Mi sento sanguinare le orecchie e il naso, un dolore atroce si diffonde in me.
Comincio a gridare, non riesco a sopportare il dolore.
La vista comincia ad annebbiarsi, quasi perdo la presa sulla pistola.
D’un tratto il suono cessa, sbatto le palpebre per cercare di riabituare la vista.
Sento dei passi che avanzano, rialzo la testa e punto la pistola verso la fine del corridoio, dove un uomo sta correndo verso di me.
Non riesco a distinguerlo, percepisco solo una macchia nera che si avvicina.
Dovrei sparare, ma non voglio sbagliare, potrei non prenderlo e a sua volta lui potrebbe spararmi. Potrebbe anche essere qui per motivi diversi da quelli che avevano le persone che vi lavoravano.
Non so neanche se la pistola è carica, dovrei controllare ma non ho più il controllo delle mani, a mala pena riesco a tenere salda la presa sulla pistola.
L’uomo si avvicina sempre di più e io inizio a pregare con tutta me stessa che mi spari.
Ho desiderato con tutta me stessa che qualcuno lo facesse, in questi ultimi giorni, ma chissà per quale assurdo motivo oggi potrebbe non succedere.
Adesso distinguo l’uomo, il suo corpo, il suo viso familiari.
Ma non può essere lui, non può.
L’ho visto morire.
Non riesco a respirare, è davanti a me e abbassa la pistola per farmi capire che non vuole spararmi.
Mi guarda e io guardo lui.
Lo punto ancora con la pistola, non riesco a respirare.
Se lui è vivo vuol dire che mi porterà via da questo posto, vuol dire che tutto quello che ho passato ricomincerà.
Non posso permetterlo, non posso più combattere.
Non posso e non voglio.
Oggi volevo solo morire, nient’altro.
Non mi sembra di aver chiesto molto.
Ma lui non mi permetterà di farlo, ho poco tempo.
Abbasso la pistola, poi la punto velocemente alla gola, il contatto freddo col metallo, le braccia che scoppiano per il dolore.
Sto per premere il grilletto, ma lui prende la pistola e mi spara alla mano.
Perdo la presa della pistola, che finisce a cinquanta centimetri da me.
Mi butto velocemente sulla pistola e lui su di me.
Mi blocca le braccia e le gambe.
D’un tratto mi rendo conto di non poterci riuscire, non ho la forza per liberarmi dalla sua presa.
Così allungo il braccio verso il suo fianco, conserva sempre un piccolo coltello lì.
Lo afferro e lo ferisco con forza alla coscia destra.
Lui, sorpreso, allenta la presa per una frazione di secondo.
Giusto il tempo per divincolarmi.
Riesco ad arrivare alla pistola, la ripunto alla gola.
Chiudo gli occhi.
Premo il grilletto una, due, tre volte.
Non succede niente, così continuo a sparare.
Lui si butta su di me, prende la pistola e la getta via.
Poi mi abbraccia, il suo corpo caldo contro il mio.
Non respiro, comincio a tremare.
Le guance mi si rigano di lacrime.
Lui mi stringe, poi mi sussurra all’orecchio: “Basta, è tutto finito” la sua voce calda e rassicurante.
“Andrà tutto bene” dice.
Non gli credo.
Cedo e appoggio la testa sulla sua spalla, chiudo gli occhi, poi il nulla.

Cari lettori, spero vi piaccia ciò che sto costruendo. So che devo migliorare molto su svariati punti di vista, ma spero apprezziate lo sforzo. Le recensioni sono sempre bene accette, soprattutto se costruttive! Vi lascio quindi a questa lettura, spero, piacevole. Ci rivedremo presto con un nuovo capitolo.
   
 
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