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Autore: Losiliel    26/05/2017    5 recensioni
La maggiore età si avvicina e i gemelli Ambarussa fanno del loro meglio per diventare grandi. Ma l’impresa non è facile come sembra.
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Amras, Amrod, Celegorm, Curufin, Maedhros
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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Un antefatto degli avvenimenti narrati nel lungo flashback del primo capitolo di Tenn’Ambar-metta che si può leggere anche da solo (almeno spero!)


 



 

LA GEMMA RUBATA

 

____________________

Ambarussa il maggiore: Amras
Pityo (Ambarussa il minore): Amrod
Russandol: Maedhros
Tyelko: Celegorm
Curvo: Curufin
____________________

 

 

La camera giaceva nella penombra, la luce del mattino ancora confinata dietro le pesanti tende. Ambarussa cercava qualcosa da indossare tra un mucchio di vestiti impilati su una sedia accanto al proprio letto. Era riuscito a recuperare una camicia non troppo spiegazzata e si stava domandando se i pantaloni che teneva in mano fossero davvero suoi, quando un fruscio alle sue spalle lo fece voltare.

Il gemello, nel letto sull’altro lato della stanza, allontanò le coperte e si mise seduto, le gambe raccolte al petto, il mento appoggiato sulle ginocchia.

Sembrava così piccolo, laggiù, nella semioscurità, tutto solo.

Ambarussa sentì una leggera fitta allo stomaco, la liquidò come fame, e si ripeté per la centesima volta di aver fatto la scelta giusta: diventare grandi richiedeva sacrifici, e Pityo avrebbe dovuto accettarli come aveva fatto lui.

Ma le abitudini di una vita sono dure a morire, e le parole che gli uscirono di bocca tradirono un istinto che durava da quando erano nati: quello di prendersi cura del gemello.

– Sei riuscito a riposare? – domandò.

– Sì – rispose Pityo, e annuì col capo, come per rendere l’affermazione più credibile.

Era una bugia bella e buona, invece. L’aveva sentito rigirarsi nel letto per tutta la notte. Ma non poteva accusarlo di mentire senza ammettere che anche lui non aveva chiuso occhio.

Il silenzio che seguì fu interrotto da un leggero bussare alla porta.

Ambarussa ebbe appena il tempo di raddrizzare le spalle e passarsi una mano tra i capelli arruffati, che Russandol entrò, già vestito di tutto punto. Augurando loro il buongiorno, attraversò la stanza a passo spedito e spalancò le tende. Luce dorata inondò la camera, facendo emergere dall’ombra pareti decorate con disegni di animali e mobili in legno chiaro, dalle forme semplici. Ambarussa strizzò gli occhi davanti alla figura imponente del maggiore dei suoi fratelli che si stagliava contro l’unica grande finestra della stanza.

Russandol doveva essere di fretta quella mattina perché, senza perdersi in chiacchiere, si voltò nella sua direzione e cominciò: – Starò fuori tutto il giorno…

Ma subito si interruppe, con aria sorpresa, e vagò con lo sguardo finché non trovò Pityo, dietro di lui, seduto sul suo letto.

– Tutto bene? – gli chiese.

– Sì – rispose di nuovo il gemello.

Russandol si chinò su Pityo e gli passò una mano tra i capelli, cespuglio indomabile di ricci rossastri. Poi ripeté, più dolcemente: – Starò fuori tutto il giorno. Se avete bisogno, c’è Tyelko in casa. – E, nel dir questo, gli sollevò il mento e gli posò un bacio sulla fronte.

Ambarussa sbuffò sonoramente alle spalle del maggiore. Come accidenti avrebbero potuto diventare grandi, se tutti continuavano a trattarli come bambini?

Russandol tornò a girarsi verso di lui, ma prima che potesse aprire bocca per le solite raccomandazioni, o, peggio, che potesse dispensare altri baci, Ambarussa agitò una mano nell’aria e lo congedò: – Sì, sì, non c’è bisogno, vai pure tranquillo.

L’altro annuì con un cenno del capo, rivolse un ultimo saluto a Pityo, e uscì dalla stanza in lunghe falcate.

Lui finì di vestirsi e andò allo specchio. Buttò indietro la testa e si legò i capelli con un laccio, cercando di sistemarli proprio come li portava il maggiore dei suoi fratelli. Oltre al colore dei capelli, che lo ricordava, c’era poco altro che lo faceva assomigliare a Russandol. Il suo riflesso gli mostrava occhi più scuri e lineamenti più morbidi. Si morse l’interno delle guance per rendere i suoi tratti più spigolosi e si chiese, ancora una volta, se un giorno sarebbe diventato alto come lui.

Poi tornò a guardare il gemello, il cui aspetto, non diverso da quello che gli aveva restituito lo specchio, gli ricordava costantemente quanto ancora fosse lontano dall’immagine che avrebbe voluto dare di sé.

Pityo aveva indossato una camicia bianca e dei pantaloni di tela chiara, ma restava seduto sul bordo del letto sfatto, come se il peso del suo corpo gli impedisse di tirarsi in piedi. 

Ambarussa sapeva cosa stava aspettando. Tutti i giorni era la stessa storia: Pityo non si sarebbe mosso da lì se non dopo aver ricevuto la risposta che voleva alla domanda che poneva ogni mattina, e che infatti arrivò puntuale non appena i loro sguardi si incontrarono.

– Credi che oggi tornerà?

Ambarussa sospirò.

“No”, avrebbe voluto dirgli, se solo avesse trovato il coraggio di affrontare la disperazione su quel viso, così simile al proprio. E avrebbe aggiunto: “e devi smetterla di domandarlo, non capisci che ti fai solo del male, così? Devi imparare ad accettare la realtà!”

– Forse – rispose, invece, vergognandosi un poco della propria codardia, e aggiunse: – e se torna oggi, non vorrai farti trovare a piagnucolare nel letto?

Non che Pityo stesse davvero piagnucolando. Non aveva mai piagnucolato, in realtà. Nemmeno quando le voci tese dei genitori li avevano tenuti svegli durante la notte e loro si erano stretti l’un l’altro condividendo il letto di Ambarussa. Né l’aveva fatto quando le notti erano diventate così silenziose e vuote da far loro rimpiangere i litigi. E neppure l’aveva fatto la sera precedente, quando lui gli aveva negato l’accesso al suo letto una volta per tutte, dicendogli che era arrivato il momento di crescere, che non potevano continuare a comportarsi come due poppanti.

Pityo scosse la testa, forse per rispondere alla sua domanda, o forse per scrollarsi di dosso il peso di quei pensieri che gli impedivano di muoversi, poi si alzò e uscì dalla stanza.

Ambarussa lo seguì, adeguandosi al suo passo, lungo i corridoi che dall’ala del Palazzo destinata alle camere da letto conducevano alla scalinata centrale, e rimase al suo fianco fino a quando, raggiunto il piano terra, il profumo del pane appena sfornato gli fece gorgogliare lo stomaco e lo spinse a muoversi più in fretta.

Poco prima della sala da pranzo, tuttavia, si bloccò. Dalla doppia porta spalancata, insieme agli aromi della colazione, arrivavano due voci, una delle quali inattesa. Per un attimo Ambarussa pensò di riconoscere la voce del padre che parlava con Tyelko, e una scintilla di speranza si accese nel suo cuore, perché il padre, negli ultimi tempi, lasciava il Palazzo molto presto ed era quasi impossibile fare colazione con lui.

Ma Pityo, appena l’ebbe raggiunto, formulò un’altra ipotesi: – Curvo?

Ambarussa gli rivolse uno sguardo interrogativo: che ci faceva Curvo a casa, soprattutto se non era lì per vedere papà?

Il gemello scrollò le spalle e riprese ad avanzare, e a lui non restò che seguirlo in sala da pranzo.

La stanza era una delle più luminose del Palazzo, a causa delle numerose finestre che si aprivano sulla lunga parete di sinistra e che davano sul giardino posteriore, rivolto a Ovest. Ma ciò che la rendeva speciale agli occhi di Ambarussa era una serie di arazzi appesi sulla parete opposta, ognuno dei quali ritraeva un episodio della costruzione di Tirion, da quando non c’era che un colle a separare il cuore di Valinor dal mare, fino al primo brillare della Mindon. Erano talmente raffinati nella loro fattura, che se li guardavi da vicino potevi riconoscere le persone che passeggiavano per le vie della città, e lui, quando era piccolo e doveva aspettare che Pityo finisse la merenda per uscire a giocare, si era divertito a dare un nome a ciascuna di esse.

Lo stesso lungo tavolo in legno, su cui Pityo si era attardato a consumare il suo panino imburrato una briciola alla volta, occupava il centro della sala. Era abbastanza grande da ospitare tutta la famiglia quando si riuniva al completo, insieme a numerosi ospiti, ma adesso era apparecchiato soltanto a un’estremità. Una tovaglia ricamata con motivi di grappoli e viticci ne copriva la parte più distante dall’ingresso. Sopra di essa, insieme alle tazze, ai piatti e alle posate, era disposto l’occorrente per la colazione: la caraffa del latte, le ciotole di miele e di marmellata, il cestino del pane, il piattino del burro. 

Curvo e Tyelko sedevano dallo stesso lato del tavolo, con il viso rivolto all’unica altra porta della stanza, quella che conduceva a un locale di servizio che aveva accesso diretto alle cucine. I due erano immersi in una fitta conversazione.

Davanti al maggiore, numerose briciole e diverse stoviglie sporche mostravano che si era già servito a volontà di ciò che la tavola offriva. Una fetta di pane, liscio, a cui mancava solo un angolino, giaceva nel piatto di Curvo, vicino al quale spiccava un piccolo involucro di pregiata stoffa nera, chiusa da un nastro dello stesso colore. Il tipo di involucro che ogni abitante di quella casa conosceva bene.

Nel vederli entrare, Curvo li salutò con un cenno del capo, troppo preso dal suo discorso per dedicare loro più attenzione, ma Tyelko si alzò in piedi e li accolse con un sorriso radioso: – Ehi, pigroni, è l’ora di arrivare?

Ambarussa si avventò su una fetta di pane ancora prima di sedersi davanti al suo fratello preferito. – Colpa di Russa – bofonchiò con la bocca piena, – ci ha svegliato tardi.

Sentì Pityo che si sedeva accanto a lui, proprio di fronte a Curvo, e che, nell’infilare la sedia sotto il tavolo, la avvicinava un pochino alla sua.

A Tyelko non sfuggì il movimento. – Come stai, piccolo? – chiese, protendendosi sul tavolo per versargli il latte nella tazza. 

– Bene – rispose Pityo, abbassando lo sguardo sul suo piatto vuoto, e Ambarussa sentì un leggero tremito dove le loro spalle si sfioravano. 

Tyelko sembrò sul punto di replicare, ma fu distratto da Curvo, il quale, reputando forse che il tempo dei convenevoli fosse durato abbastanza, riprese il discorso interrotto dal loro ingresso.

Ambarussa non vi badò. I discorsi di Curvo erano roba troppo complicata da affrontare di prima mattina, e a stomaco vuoto. Agguantò due fette di pane, le cosparse abbondantemente di miele, e ne passò una al gemello.

Fu in quel momento che notò che lo sguardo di Pityo era fisso su Curvo, come incantato. Gli diede un leggero colpo di gomito, giusto per evitare di rimanere tutta la mattina col panino a mezz’aria, ma non ottenne alcuna reazione.

Ambarussa cercò, allora, di seguire la conversazione tra i fratelli maggiori per capire da cosa fosse attratto il gemello. I due stavano parlando di una gemma che il padre aveva appena creato con un metodo che Curvo non conosceva, ed era per quello che l’aveva portata con sé, per studiarla con alcuni strumenti che aveva lasciato a Palazzo quando, qualche anno prima, si era trasferito nella casa che condivideva con la moglie.

Non era un argomento particolarmente degno di nota, se si escludeva il fatto che papà non apprezzava quando qualcuno toccava le sue creazioni (Ambarussa non poté fare a meno di lanciare uno sguardo preoccupato al pacchettino di stoffa nera). Di certo non era cosa per cui valesse la pena trascurare la colazione.

Stava per tornare a dare di gomito al gemello, quando, a un tratto, Pityo esordì: – Sei seduto al posto della mamma.

Ambarussa alzò di scatto lo sguardo su Curvo e si rese conto che, in effetti, era seduto nel posto che aveva sempre occupato la mamma finché era stata con loro. Si diede dello stupido per non averlo notato prima: in quei giorni, anche un particolare del genere bastava a mettere Pityo in agitazione. Fiutò la lite nell’aria e si preparò a incassare la sfuriata del fratello, che non era certo noto per la comprensione nei confronti di chi lo interrompeva quando parlava.

Ma il diretto interessato non diede segno di averlo udito, tutto preso dalla conversazione tra lui e Tyelko, che ora si era fatta più accesa.

Forse l’avevano scampata. 

Invece.

– Sei seduto al posto della mamma – ripeté Pityo, mandando in fumo le speranze di Ambarussa di terminare la colazione in pace, perché questa volta le parole del gemello erano risuonate chiare, in un momento in cui i fratelli maggiori prendevano fiato.

– La mamma non c’è – affermò Curvo, e riuscì a farlo senza nemmeno perdere il filo di ciò che stava dicendo, come fosse un inciso del suo discorso.

– Ma forse oggi torna – ribatté Pityo, nonostante l’impegno di Ambarussa nello sferrargli calci alle caviglie che sperava fossero abbastanza eloquenti.

A quel punto Curvo sembrò accorgersi della loro presenza e si rivolse al piccolo con l’aria di chi è costretto a spiegare un concetto molto semplice a una persona molto lenta. – No che non torna – disse, – non stavolta.

– Non lo puoi sapere – insistette Pityo, e Ambarussa si decise ad appoggiare la fetta di pane che ancora teneva in mano, solo per accorgersi che gli era già caduta nel piatto.

– Certo che posso – affermò Curvo, – e lo capiresti anche tu, se non continuassi ad aggrapparti a illusorie speranze infantili.

Ambarussa strinse i pugni. Pronunciate da Curvo, le parole che lui stesso avrebbe voluto gridare in faccia al gemello ogni mattina non facevano lo stesso effetto di come se le era immaginate. Sembravano delle colossali menzogne, per dire le cose come stavano. Abbandonò ogni proposito di porre fine alla disputa e si sentì in dovere di difendere la posizione di Pityo.

– Ha ragione lui – disse, e, nel sentire il piccolo sussultare contro la sua spalla, si fece più audace e ribadì: – non puoi esserne certo.

– Si può sapere cosa avete, oggi? – lo sguardo di Curvo saettò dall’uno all’altro. – Non mi sembra un concetto tanto complicato: questa volta non tornerà. E sapete cosa vi dico? Meglio così. Questa situazione di incertezza ci sfinisce tutti… lui in modo particolare.

– Lui?! – gridò Pityo, con una veemenza di cui Ambarussa non l’avrebbe mai ritenuto capace, – ma non pensi alla mamma? Per stargli lontano è stata costretta a lasciare tutti noi!

– È stata… costretta? – Curvo fece una smorfia di incredulità. – Cos’è, c’è stato un furto di cervelli mentre ero via?

– Costretta! – sibilò ancora, e c’era più sofferenza che rabbia nelle sue parole, per quanto fosse evidente il tentativo di mascherarla, – se fosse stata più ragionevole, avrebbe appoggiato le scelte di papà e niente di tutto questo sarebbe accaduto.

– E perché non avrebbe dovuto essere papà quello ragionevole? – domandò Pityo, in un silenzio che si era fatto assoluto.

– Papà è ragionevole – disse l’altro, con una tale convinzione che Ambarussa non ebbe difficoltà a crederlo vero.

Ma Pityo piantò gli occhi in quelli di Curvo e, con un tono che non aveva nulla da invidiare a quello glaciale di chi gli stava di fronte, disse: – Lo dici perché sei il suo preferito, e con te non si è mai arrabbiato.

Ambarussa sentì lo stomaco rivoltarsi sottosopra. Afferrò il polso del gemello, di nascosto, sotto il tavolo. Per impedire a quello stupido di mettersi nei guai dicendo altre idiozie, si capisce, non certo perché aveva improvvisamente bisogno di qualcosa di solido a cui aggrapparsi.

Nello stesso istante Tyelko si alzò, con la bocca già aperta per pronunciare, senz’alcun dubbio, una battuta delle sue per riportare la calma.

Ma Curvo mantenne la sua espressione impassibile e chiuse la questione a modo proprio: – Non ho tempo per discutere con i bambini, oggi.

Tyelko indicò al fratello la sedia vuota più vicina e gli disse: – Fammi un favore: spostati.

L’altro scrollò le spalle: – Ma sì, tanto ho finito. – Si pulì con cura la bocca e si alzò composto, prese il suo sacchettino e fece per andarsene.

Tyelko accennò al pacchetto e disse: – Stai attento con quell’affare.

Curvo alzò gli occhi al cielo e si allontanò.

Ambarussa si accorse di tenere ancora il polso del gemello stretto nella sua mano e lo lasciò andare.

– Non dategli retta – disse Tyelko, tornando a sedersi. – Questa situazione esaspera anche lui, anche se non lo dà a vedere.

Ma Pityo lanciò uno sguardo nella direzione in cui si era allontanato Curvo e borbottò: – Se papà si arrabbiasse con lui come faceva con la mamma, allora non direbbe che è ragionevole.

Ambarussa si chiese per un attimo se non gli avessero sostituito il gemello con uno uguale, durante la notte. Poi gli passò la fetta di pane che era rimasta dimenticata nel piatto.

– Dai, mangia – gli disse, – che facciamo tardi a lezione.
 

***
 

L’umore inconsueto di Pityo si protrasse per tutta la mattina. Persino durante la lezione di matematica, una delle sue preferite, nel prendere appunti mentre l’insegnante eseguiva problemi alla lavagna, il gemello sembrava perso in altri pensieri, e a lui toccò per ben due volte mettergli sotto il naso il proprio foglio per mostrargli alcuni punti in cui stava sbagliando.

Le cose non migliorarono quando arrivò l’ora di pranzo. Pityo mangiò poco e di malavoglia, e si assentò prima di tutti. Poco dopo, Curvo venne richiesto urgentemente altrove e fu costretto a lasciare il Palazzo. Ambarussa rimase solo con Tyelko, e sebbene fosse una cosa che in condizioni normali l’avrebbe riempito di gioia, perché un’occasione per ascoltare i grandiosi racconti del fratello che aveva cacciato al seguito dello stesso Oromë non capitava più tanto spesso, finì che passò tutto il tempo a pensare al momento in cui avrebbe raggiunto Pityo per capire cosa lo tormentasse.

Quando alla fine riuscì a tornare in camera loro, lo trovò in piedi accanto alla finestra, le mani in tasca, la testa china, un muscolo della mascella che si contraeva ritmicamente.

– Avanti, piccolo – gli disse, senza girarci troppo attorno, – sputa il rospo.

Invece di rispondere, Pityo estrasse qualcosa dalla tasca, tese il braccio verso di lui e aprì la mano.

Ambarussa per poco non fece un balzo indietro.

Per quanto fosse abituato ad essere circondato da gioielli meravigliosi, non aveva mai visto un oggetto come quello adagiato sul palmo della mano del gemello.

A un primo sguardo sembrava una pietra lavorata con talmente tante sfaccettature da apparire quasi liscia. Ma guardandola meglio, quando i suoi occhi si furono abituati al bagliore intenso che sprigionava, Ambarussa vide che la sua superficie era davvero liscia, e che il suo brillare non era, come aveva pensato, dovuto a luce riflessa, ma era generato dall’interno. 

Il gioiello sembrava voler competere con la luce presente nella stanza emettendone una sua propria, più intensa, più brillante… e verde! Non verde come le foglie, o l’erba appena germogliata, o l’acqua dello stagno. Verde come se di colpo Laurelin avesse deciso che l’oro non era più il suo colore, e ne volesse sperimentare uno nuovo.

Ambarussa tornò con la mente all’unica volta in cui gli era stato concesso di vedere i Silmarilli. Questa gemma in qualche modo li ricordava. Non per la forma, o il colore, e nemmeno per le dimensioni, ma per la chiara sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di ineguagliabile, di unico, l’espressione tangibile della genialità del suo creatore, quintessenza di quel fuoco che dicevano animasse il suo spirito.

I Silmarilli però erano sacri e, giustamente, stavano chiusi in una stanza tutta loro, in uno scrigno al sicuro, dove nessuno poteva rischiare di procurargli danno o di contaminarli con la propria inadeguatezza.

Non stavano in camera loro, sul palmo della mano del più piccolo dei figli di Fëanáro.

– Che cosa hai fatto? – bisbigliò Ambarussa, quando riuscì a distogliere l’attenzione da quel capolavoro e a riportarla sul viso del gemello. Vi trovò uno sguardo insolitamente determinato.

– Gliel’ho presa – rispose Pityo. – Voglio nasconderla e vedere cosa farà Curvo quando papà si arrabbierà con lui.

Ambarussa non trovò il fiato per commentare.

“Sei impazzito?” o “rimettila subito dove l’hai trovata” non avrebbero dovuto essere frasi così difficili da pronunciare, eppure non vollero venire fuori. Restò muto davanti a quello che, ormai era evidente, non era più suo fratello. Un incantesimo, un maleficio, qualcosa era all’opera su di lui!

Ma forse non era solo lo sbalordimento che gli impediva di dissuadere il piccolo. Perché, tutto considerato, c’era qualcosa di intrigante, oltre che di spaventoso, in quella nuova versione di Pityo, intraprendente, quasi folle. E c’era anche una piccola parte di lui, tenuta ben nascosta, a cui non sarebbe dispiaciuto vedere papà che si arrabbiava con il perfetto Curvo.

La consapevolezza di ciò che sarebbe stato giusto fare, cioè riportare quella gemma al suo posto all’istante, e la tentazione di assecondare l’infantile desiderio di ripicca del gemello si diedero battaglia dentro di lui e, quando finalmente Ambarussa riuscì ad aprire bocca per parlare, nemmeno lui sapeva chi aveva avuto la meglio.

– Dove vorresti nasconderla? – si sentì domandare, e capì che l’aveva fatto per prendere tempo, alla ricerca di una scappatoia che gli permettesse di ritirarsi da quell’impresa assurda senza apparire un codardo.

– Non lo so, tu che ne dici? – rispose Pityo, rilanciandogli la responsabilità della decisione.

Ambarussa deglutì. Voleva davvero andare fino in fondo, il piccolo? Voleva giocare a fare il temerario? 

Vediamo fin dove osa spingersi, pensò, e rispose: – La Roccia Spaccata.

Non c’era luogo che Pityo temesse più di quello: la cima di una scogliera a picco sul mare alla quale si accedeva dopo una pericolosa scalata. Lassù, una spaccatura nel terreno permetteva di guardare in un’ampia grotta sottostante, sul fondo della quale il mare aveva formato una specie di lago sotterraneo.

 Tyelko ce li aveva portati qualche anno prima, dopo che lui aveva insistito fino allo sfinimento, esaltato dai racconti che ne facevano i fratelli più grandi. A metà della scalata, Pityo si era fatto prendere dal panico e non era riuscito più a muoversi, finché Tyelko se l’era letteralmente caricato sulle spalle. Quando l’aveva scoperto, Russandol aveva fatto promettere loro che non ci sarebbero mai andati da soli.

Ma, contrariamente a quanto Ambarussa si era aspettato, il nuovo Pityo non sembrò per nulla spaventato dall’idea di tornare in quel luogo pericoloso, anzi, con sua immensa sorpresa, lui vide accendersi negli occhi del gemello una scintilla d’intesa che non vedeva da anni, da quando loro si divertivano a combinare guai per dimostrare di essere audaci quanto i fratelli maggiori.

Bastò quello per dissipare ogni dubbio.

Perché non lasciarsi andare, si disse, per una stramaledettissima volta? Perché non tornare a quei tempi, alla spensieratezza, all’irresponsabilità?

E una volta deciso che la cosa meritava di esser fatta, perché non farla in grande stile? Non una semplice infrazione alle regole, no, quella era roba da bambini… ma tutte le possibili infrazioni! Disubbidire a Russandol, ingannare Curvo, eludere la sorveglianza di Tyelko.

Il pomeriggio all’improvviso gli apparve glorioso: gli Ambarussa di nuovo insieme! Che il Vuoto se lo pigliasse, in quel preciso istante, se si fosse fatto scappare un’occasione del genere!

Diventare grandi, dopotutto, costava fatica. Troppa.

Così, quando Pityo chiese, con la voce che tremava per l’eccitazione: – Allora, andiamo? – lui si sciolse i capelli e scosse la testa, gettò il laccio che li legava sul letto e rispose, con un ghigno: – Ma sì, andiamo!

Lasciò tuttavia che fosse il gemello a tenere la pietra, e a infilarsela in tasca.
 

***
 

Recuperare un cavallo non fu difficile. Pityo trattenne Tyelko lontano dalle scuderie con una scusa, mentre lui portava l’animale sul retro del Palazzo. Il gemello lo raggiunse poco dopo presso l’uscita posteriore del giardino.

– Tutto a posto – gli disse, quando Ambarussa gli porse la mano per aiutarlo a salire dietro di lui, – gli ho detto che saremmo stati in biblioteca per un po’.

Ambarussa annuì. In quei momenti invidiava i fratelli maggiori, che avevano trascorso l’infanzia in tempi in cui nessuno aveva negato loro il permesso di andare dove volessero, senza sollevare obiezioni. Ora che la discordia serpeggiava tra la loro gente, Tyelko e Russandol volevano sempre essere informati dei loro spostamenti, se non addirittura accompagnarli.

Uscirono dalla città percorrendo strade secondarie, si lasciarono alle spalle il viale lastricato che conduceva verso il cuore del Regno, e si diressero a Sud-Est. Imboccarono un sentiero in terra battuta, che attraversava il Calacirya in direzione del mare.

Alla loro destra, la via era costeggiata dalle ultime pendici delle Pelóri, che digradavano dolcemente rivestite di arbusti e di rovi dalla bacche profumate. Alla loro sinistra, la pianura di estendeva a perdita d’occhio, coi suoi terreni coltivati e i lunghi filari delle vigne. 

Ci volle quasi un’ora perché il solido terreno sotto gli zoccoli del cavallo cominciasse a cedere, sostituito poco a poco dalla sabbia. Ambarussa vide la costa aprirsi davanti a loro: una lunga spiaggia bianca che si estendeva ai lati, e il mare del pomeriggio che iniziava ad avanzare per prenderne possesso. Le onde si gonfiavano e si tingevano di tonalità scure, su cui spiccava il bianco ribollire della schiuma. 

Nessuno dei due aveva parlato di fermarsi, ma a quella vista entrambi dovettero provare lo stesso desiderio, perché Ambarussa non fece in tempo a voltarsi a mezzo per domandare al gemello: – Che ne dici se…? – che l’altro si era già precipitato giù dal destriero.

Correndo a chi faceva prima a tuffarsi in acqua, lasciarono sulla sabbia una scia di vestiti, e si gettarono tra i flutti. Aggredirono le onde a viso aperto, fendendole con la testa e con le braccia, si lasciarono trascinare dalla risacca, per poi riemergere a prendere fiato, e ricominciare tutto daccapo.

Nel vedere Pityo ridere tra gli schizzi che si tiravano l’un l’altro, ad Ambarussa sembrò per un attimo che tutto fosse tornato come una volta, quando lui e il gemello non avevano preoccupazioni, quando era facile credere che ogni difficoltà si sarebbe presto risolta, che le certezze non sarebbero mai state intaccate.

E gli sembrò quasi di poter tornare a casa, e trovare Russandol che li sgridava per essere scappati da soli, e la mamma che li accoglieva tra le sue braccia forti, uno da una parte e uno dall’altra, e diceva loro che dovevano sbrigarsi a prepararsi per la cena, ma invece li teneva stretti e non li lasciava andare, finché Russandol non le faceva notare che li avrebbe strozzati se fosse andata avanti così.

– Sarà meglio muoversi – disse a Pityo, che stava per partire all’assalto di un’onda enorme, e fu a tanto così dal dirgli invece: “sarà meglio tornare a casa”. Perché, davvero, in che guaio stavano andando a cacciarsi?

Ma poi pensò alla casa vuota che li aspettava, ai corridoi silenziosi, a visi che non sorridevano più, allora afferrò la mano del gemello come se fosse l’ultima cosa rimasta reale al mondo, e lo trascinò a riva, perché potessero scrollarsi l’acqua di dosso, recuperare i vestiti e portare a termine la loro folle impresa.

Arrivare alla scogliera richiese meno tempo di quanto era servito per raggiungere la spiaggia, perché Ambarussa, per quest’ultimo tratto di strada, spronò il cavallo al galoppo. Tenere sotto controllo l’animale lanciato alla massima velocità richiedeva tutta la sua attenzione, e aveva il pregio di non fargli pensare troppo a ciò che stava facendo.

Quando giunsero al limitare della spiaggia, e lasciarono il cavallo per affrontare la parete di roccia che sbarrava loro la via, si rese conto che nel profondo del suo cuore stava ancora contando sulla paura che Pityo aveva di quel luogo, paura che non gli avrebbe mai permesso di proseguire. 

Guardò il gemello ed ebbe la conferma che era stato tutto un gioco, e che era finito. Quando lo vide alzare gli occhi sulla parete, e impallidire, Ambarussa trasse un involontario sospiro di sollievo.

Ma Pityo infilò una mano nella tasca dei pantaloni dove teneva la gemma, e il suo sguardo si indurì. Serrò le labbra e una piccola ruga comparve tra le sue sopracciglia. Continuando a tenere gli occhi fissi sulla roccia disse: – Andiamo! – come se esortasse i propri muscoli a muoversi. Ed essi obbedirono.

Ambarussa impiegò qualche istante per rendersi conto che Pityo aveva davvero affrontato la parete da solo, senza aspettare che lui gli aprisse la strada o gli fornisse alcun suggerimento sulla via da percorrere. Non gli restò che seguirlo, in attesa del momento in cui si sarebbe bloccato.

Invece il piccolo non chiese aiuto nemmeno una volta, e procedette lento ma costante, una mano dopo l’altra, un piede dopo l’altro, come se l’impresa fosse del tutto alla sua portata.

Anche ad Ambarussa la scalata sembrò più facile di quando erano stati lì con Tyelko, e si chiese se fosse così perché adesso erano più grandi, o perché ora non avrebbero potuto permettersi di sbagliare, dato che non c’era nessuno con loro che avrebbe potuto aiutarli in caso di necessità. Raggiunse la cima subito dopo il gemello, sorpreso dall’essere solo un po’ affannato.

I due non persero tempo ad ammirare il panorama che si apriva davanti a loro, e andarono alla ricerca della spaccatura che dava l’accesso alla caverna sottostante. Ambarussa tenne Pityo dietro di sé, mentre avanzavano cauti in direzione dell’entroterra. Quando trovarono la breccia, lui vi si affacciò il tempo necessario per assicurarsi che fosse tutto come se lo ricordava. Sul fondo della grotta, il mare, distante, molto distante, era percorso da lievi increspature. Il suono delle onde che si infrangevano sulla roccia, amplificato dalle pareti a volta, arrivava fino a loro come un cupo brontolio.

Ambarussa sollevò lo sguardo e vide che Pityo aveva estratto la gemma dalla tasca.

Eru santissimo, era bella da togliere il fiato! Gli si inumidirono gli occhi e si convinse che era perché lì, all’aperto, il gioiello emetteva una luce mille volte più intensa di quanto aveva fatto nella loro camera, e non perché era stato travolto da un incontenibile sentimento d’orgoglio per chi l’aveva creata.

Fine del viaggio, pensò.

Pityo non avrebbe mai avuto il coraggio di buttarla. Nessuno al mondo avrebbe mai potuto nemmeno pensare di far sparire una meraviglia del genere. La loro missione era andata avanti più a lungo di quanto si fosse immaginato, ma era terminata, alla fine. Era ora di rientrare.

Ambarussa cominciò a chiedersi se Curvo avesse già scoperto il furto, o se avrebbero potuto rimettere a posto la gemma senza che lui se ne accorgesse.

E, proprio in quel momento, Pityo distese il braccio sull’apertura e aprì la mano.

Il tempo si fermò, o forse fu soltanto il cuore di Ambarussa a fermarsi, mentre lui, con gli occhi spalancati, osservava la pietra cadere per un momento infinito, in un silenzio irreale, finché non si udì il rumore, lontanissimo, dell’impatto con l’acqua.

Allora, con immensa fatica, tornò a guardare il gemello e sul suo viso trovò una cosa che non aveva mai visto. Una cosa che, in tutti i suoi fratelli, aveva visto solo una volta negli occhi di Tyelko e molto, molto tempo addietro. Una cosa che gli fece pensare al padre.

La ribellione.

Durò meno di un battito di ciglia, poi l’espressione di Pityo si smarrì. Lentamente, il piccolo volse lo sguardo alla voragine, muovendo un passo impercettibile verso di essa, come volesse vedere che fine avesse fatto la gemma. Ma Ambarussa interpretò il gesto in tutt’altro modo e il sangue gli si ghiacciò nelle vene. Con cautela, gli prese una mano.

– Ambarussa – sussurrò, chiamandolo col nome che condividevano per rassicurarlo che qualsiasi cosa fosse successa l’avrebbero affrontata insieme.

Pityo sembrò capirlo, perché si lasciò condurre lontano dalla spaccatura, al sicuro, e poi di nuovo al punto dove la scogliera precipitava sulla spiaggia sottostante.

Ambarussa lo precedette nella discesa, indicandogli di volta in volta tutti gli appigli, e riuscendo, in qualche modo, a mantenere la voce calma e sicura, mentre dentro il suo cuore martellava furioso al pensiero che il piccolo potesse mancare una presa. Ma Pityo eseguì tutto come gli veniva detto, affidandosi completamente a lui, come se avesse esaurito la sua capacità di prendere decisioni da solo.

Giunti alla spiaggia, Ambarussa lo fece salire sul cavallo davanti a lui, e gli passò le braccia attorno alla vita, temendo che non avesse forza di volontà sufficiente nemmeno per restare sul dorso dell’animale. Il gemello non aprì bocca per tutto il viaggio di ritorno, né lui cercò di iniziare un discorso, preso com’era dal tenere a bada il tumulto che aveva dentro, nel vano tentativo di rimettere in funzione il cervello.

Era necessario pensare a qualcosa che permettesse loro di affrontare le conseguenze di ciò che avevano fatto, senza rimetterci la pelle.
 

***
 

Conseguenze non ce ne furono, in realtà. E questo non fece che peggiorare la situazione.

Incontrarono Tyelko ben prima di rientrare in città; il fratello si era messo sulle loro tracce non appena si era accorto della loro assenza. Ambarussa gli raccontò che erano fuggiti solo per fare un bagno in mare e Tyelko, forse perché troppo felice per averli ritrovati sani e salvi, credette alla bugia. Non esagerò nemmeno con i rimproveri, e lì spedì di corsa a lavarsi perché era quasi ora di cena.

In quanto a Curvo, scoprirono che era stato trattenuto fuori casa tutto il pomeriggio, e non aveva più avuto occasione di mettersi al lavoro sulla gemma.

Il padre non si fece vivo per cena, né lo fece Russandol, e della cosa nessuno si sorprese, perché accadeva sovente che si trattenessero fuori fino a tardi.

Tutto sembrava aver cospirato in loro favore. Eppure, quando si ritirarono nella loro stanza per dormire, Ambarussa era così nervoso che avrebbe quasi preferito che li avessero scoperti.

Pityo esitò un attimo sulla soglia, lanciando un fugace sguardo al letto di Ambarussa, prima di dirigersi al suo e cominciare a cambiarsi per la notte.

Lui iniziò a svestirsi, pur sapendo che non ci sarebbe stato verso di riposare; aveva la testa piena di terribili visioni su cosa sarebbe potuto accadere quando, presto o tardi, qualcuno avesse scoperto che la gemma del padre era scomparsa. L’ipotesi che la colpa potesse ricadere unicamente su Curvo appariva remota come le sponde di Endórë, oltre che una carognata bella e buona, ora che si soffermava a rifletterci sopra.

Bisognava fare qualcosa.

Ma non sapeva cosa.

Il piccolo, evidentemente, aveva le idee più chiare: – Dobbiamo dirlo a Tyelko – disse.

Ambarussa valutò la possibilità. Quando c’era di mezzo Curvo, forse Tyelko non era la scelta giusta. E poi, questa volta, ci voleva qualcuno capace di fare l’impossibile.

– No – rispose, – dobbiamo dirlo a Russandol.

Al sentire il nome del maggiore dei loro fratelli, il viso di Pityo riprese un po’ di colore.

– Giusto – confermò. Poi, senza aggiungere altro, si infilò sotto le coperte e si voltò dalla parte del muro.

Ambarussa andò alla finestra per chiudere le tende contro il barlume argenteo, chiedendosi come fosse stato possibile arrivare fino a quel punto. Ciò che alla luce del pomeriggio era sembrato uno scherzo, una bravata, ora, in quel buio e in quel silenzio, sembrava un errore imperdonabile, dalle conseguenze irrimediabili.

E il suo letto, quando ci s’infilò, sembrò troppo grande. Troppo freddo.

Paure che cercava in ogni modo di nascondere a sé stesso tornarono ad assalirlo. Paure che sapeva essere assurde e che, nonostante ciò, non smettevano di tormentarlo. La madre che si dimenticava di loro, il padre che li abbandonava a sua volta. Paure infantili, irrazionali, che lo facevano sentire come il bambino che non voleva più essere.

Si rannicchiò sotto le coperte e sigillò la mente, perché nemmeno un’eco di tutto questo potesse arrivare al gemello. Non voleva mostrarsi debole, tornare sulle sue decisioni.

Sigillò la mente, ma le sue labbra lo tradirono.

– Resti lì?

Parole dette a voce così bassa che poteva facilmente negare a sé stesso di averle pronunciate. Nessuno avrebbe potuto sentirle.

Eppure, una parte di lui restò tesa in ascolto, pronta a percepire un segnale, un fruscio, qualsiasi cosa gli indicasse che il gemello avesse udito la sua domanda e non lo costringesse a ripeterla a voce più alta, perché in nessun caso sarebbe riuscito a farlo.

Il silenzio si protrasse più a lungo di quanto Ambarussa potesse sopportare. Aveva quasi rinunciato a sperare, quando sentì un rumore indistinto provenire dall’altra parte della stanza. Trattenne il respiro, finché non sentì il materasso cedere sotto il peso di qualcuno che vi si appoggiava.

Allora sollevò la coperta e scivolò più vicino al muro. Pityo gli si sdraiò accanto dandogli la schiena e lui gli passò un braccio attorno alle spalle. Dopotutto non c’era altro posto dove metterlo.

Sentì la mano del gemello chiudersi sulla sua, si disse che il piccolo aveva bisogno di quel contatto, e la lasciò dove stava.

– Domattina presto lo diciamo a Russa, vedrai che lui saprà cosa fare – sussurrò e, prima di rendersene conto, avvicinò le labbra all’orecchio di Pityo e cominciò a mormorare tutte quelle sciocchezze che piacevano tanto al piccolo. Stupide parole rassicuranti.

Nemmeno si accorse che sarebbe stato difficile dire chi stava rassicurando chi.

Col viso affondato nella folta chioma del gemello, la mano appoggiata sul suo cuore, che batteva all’unisono col proprio, il confine tra loro si faceva confuso.

Solo per stanotte, si disse Ambarussa, e chiuse gli occhi, per assaporare meglio quella sicurezza che mai avrebbe ammesso di provare.

Solo per stanotte.

Per diventare grandi, si poteva aspettare domani.

 






 

Note

01
Grazie di cuore a tutti coloro che hanno letto!

02
Questa storia è stata pensata come un racconto a sé stante. Non si può negare, tuttavia, che alcune questioni rimangono in sospeso.
Per seguire le vicende della gemma rubata vi rimando al primo capitolo di Tenn’Ambar-metta, dove un lungo flashback racconta come quel “qualcuno capace di fare l’impossibile” (aka Findekáno) tenterà di recuperarla dal fondo del mare, e all’ultimo capitolo della suddetta storia per conoscere il destino finale del gioiello. [Warning: Tenn’Ambar-metta racconta della sofferenza di Maedhros durante e dopo la prigionia, e del suo rapporto, inteso in senso romantico, con Fingon]
Per sapere se i gemelli siano riusciti o meno nel loro proposito di crescere, vi rimando al secondo capitolo di Calano le Tenebre, che si apre con una breve incursione nella mente di un Ambarussa di qualche anno più grande.






 

  
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