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Autore: Lady R Of Rage    26/05/2017    1 recensioni
" -Lo sai?- disse pochi attimi dopo. -A volte ti invidio.-
Mettaton rimase interdetto. -Come mai?-
-Sei sempre così… così sicuro di te. Fai quello che vuoi fare, dici quello che senti di dire, e arrivi fino in fondo in ogni cosa. Sei così… perfetto.-
-No, bambina.- Mettaton strinse i pugni ringhiando. -Non voglio mai più che tu lo dica.-
Frisk aveva fatto un salto indietro. Appariva più sorpresa che spaventata.
-Che succede?- domandò.
-Scusa l’attacco, tesoro. Ma vorrei davvero che non dicessi più che sono perfetto.-
-E come mai?-
Mettaton sospirò. -Le persone perfette non hanno uno scopo.-
"
Sono i nostri errori a renderci chi siamo davvero: Mettaton lo sa fin troppo bene.
E ora che la sua umana preferita sta attraversando un periodo di crisi, chi può capirla meglio di lui?
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Frisk, Mettaton, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima Lezione Di Pragmatismo
 
-Santo cielo, hanno mandato lei?-
La sedia della presidenza cigolava sotto le cosce di Mettaton. Il legno era evidentemente troppo vecchio e tarmato da reggere incolume il peso di un androide alto due metri e mezzo. Mettaton cercò di non curarsene: non era la prima volta che capitava. Dopo aver fatto crollare la sedia durante la cena in campagna da Toriel, ogni incidente sembrava una futilità. 
Anche la scrivania era di legno, vecchia e tarmata quanto la sedia. L’uomo che sedeva alle sue spalle, un tizio grasso con disordinati capelli paglierini infilato a forza in un completo elegante blu, lo squadrava con occhi neri e porcini come se il suo corpo fosse stato fatto di letame e non d’acciaio. Una targhetta di ottone sulla scrivania recitava il nome “John MacLeod”.
-Non mi guardi male, per cortesia. Ho un permesso firmato dalla madre della piccola.-
Portò la mano destra al polso sinistro e iniziò a svitarlo con tutta calma come se l’altra mano fosse stata il tappo di un barattolo. Sorrise di nascosto quando intravide l’espressione atterrita del preside MacLeod, che si fece ancora più caricaturale quando depose sulle proprie ginocchia la mano staccata.
Il polso sinistro era cavo, con dentro un lungo contenitore cilindrico che terminava in corrispondenza del gomito. Mettaton rovesciò l’avambraccio verso le ginocchia, e un foglio di carta arrotolato scivolò fuori. 
Mettaton lo prese con la mano ancora attaccata e lo sbatté con aria di sufficienza sulla cattedra, ma il preside MacLeod non appariva persuaso. 
-La madre della piccola non potrebbe rivolgersi a qualcuno più… acconcio?-
-Nessuno è più “acconcio" di me, signore. Ho le dita da hair stylist, lo dice anche la mia mamma.-
L’uomo grugnì, mentre le sue mani tozze tormentavano il nodo della cravattona rosso pomodoro che gli stringeva il collo. Mettaton ringraziò di non poter vomitare: non amava le cravatte, ma era certo che anche se le avesse adorate non ne avrebbe mai comprata una così. “C’è il cattivo gusto, e poi c’è lui”. 
Ma anche MacLeod aveva da ridire sul suo senso dello stile.
-Ritengo che chiunque indossi un fermaglio volgare come quello non sia adatto a relazionarsi con una bambina.-
“Ah, adesso è il fermaglio?”. Se avesse potuto, Mettaton sarebbe scoppiato a ridere. A quell’uomo non andava mai bene niente.
La prima volta erano stati gli stivali col tacco. “Se li tolga o se ne vada” aveva detto. “Siamo in una scuola, non in un locale a luci rosse. Non pensa ai bambini?”.
La seconda volta era la maglia. Troppo scollata, troppo rosa, troppo luccicante. La terza erano gli orecchini ad anello, la quarta il lucidalabbra, la sesta le unghie laccate, la quinta la collana di cristallo. Ormai Mettaton aveva rinunciato a capire cosa quell’individuo si aspettasse da lui. Aveva visto signore anche più volgari aspettare i ragazzini all’uscita della Ebott Prime, con orribili stole di pelliccia e trucco che sembrava applicato da una scimmia con gli occhi bendati. Ma aveva capito da tempo che non era il suo abbigliamento a turbare l’uomo dietro la scrivania. 
“E comunque, il mio fermaglio è l’ultimo modello della Marca MTT. Se c’è qualcuno che ne avrebbe bisogno è lui. L’acconciatura a pagliaio andava di moda sei o sette secoli fa”.
-Veniamo al dunque. Cos’ha fatto la bambina?- domandò, accostando la mano al polso cavo e iniziando a riavvitarla al suo posto. 
“Figuriamoci. Tanto per cambiare avrà parlato a voce troppo alta, o portato scarpe “non a norma”. Ormai le sue ciance sono per me fonte di noia”. La Ebott Prime era il tipo di scuola in cui le bambine non avevano la possibilità di indossare scarpe da ginnastica con la gonna dell’uniforme. Un posto dove un androide con gli occhi color ciclamino, le labbra di smalto rosa, che indossava una camicia viola su pantaloni neri e portava ai piedi degli alti stivali col tacco non era accolto con il tappeto rosso. 
-La bambina.- riprese MacLeod. -Ha schiaffeggiato la figlia della dottoressa Conway-Greene.-
Mettaton sbarrò gli occhi. Che Frisk schiaffeggiasse qualcuno era per chi la conosceva un evento più raro della pioggia a Hotland. Toriel e Asgore non facevano altro che elogiare la sua dolcezza e il suo atteggiamento pacifico. Era stato proprio con la non violenza che la bambina si era fatta largo nel Sottosuolo l’anno prima. Ed era riuscita ad affascinare persino lui.
“Non può averlo fatto”. Un attore capace doveva saper riconoscere le fandonie. Il tono del preside della Ebott Prime, d’altra parte, era sempre così costruito e artefatto da rendere quasi impossibile la distinzione.
Prima che il robot potesse aprire bocca, il signor MacLeod bisbigliò qualcosa nel cellulare, e la porta della cattedra si aprì. Una segretaria in tailleur, dai capelli biondo cenere legati in una crocchia, entrò tenendo per mano la piccola Frisk. 
“Tesoro…” Mettaton sentì una stretta al cuore nel vedere gli occhi rossi della bambina. Per un attimo accarezzò l’idea di caricare il cannone, gettarsi a tuffo sulla cattedra (atterrando ovviamente in una perfetta posa plastica), puntare la bocca sul collo del preside e ordinargli di chiedere tre volte perdono alla sua piccola, se possibile in ginocchio con la fronte a terra.
Ma non lo fece. Se Frisk era stata in grado di superare un esercito di mostri senza servirsi della violenza, lui non sarebbe stato da meno. Voleva essere l’idolo dell’umanità: doveva comportarsi da umano.
-La bambina, dicevo.- la voce rauca di John MacLeod fu come un martello pneumatico nei sistemi di Mettaton -Ha colpito con un pugno il volto della figlia della dottoressa Greene, che come probabilmente lei sa è una delle personalità più influenti di Ebott Vale. Suo marito, il dottor Greene, è primario della clinica pediatrica di Ebott Vale, e fornisce annualmente alla scuola…-
“Una quantità indefinita di monetine che usate per pagare i crostini al caviale per l’associazione genitori-insegnanti, lo so. Posso arrivarci da solo. Sono o non sono un’intelligenza artificiale?”
Per fortuna, lo sproloquio durò poco. I racconti di Toriel, Asgore e degli altri descrivevano i discorsi del preside MacLeod come lunghi e pedanti. A Mettaton il supplizio fu risparmiato. -Insomma, basta porti via la bambina e le insegni le buone maniere. -
“I vantaggi di essere un robot killer che porta i killer heels” pensò Mettaton sollevato. Si alzò dalla sedia, porgendo la mano a Frisk.
-Ci conti. Buongiorno.-
“E che ti prenda un treno, brutto maiale senza senso dello stile”.
Prese per mano la bambina e chinò la testa sotto lo stipite per uscire. 
 
Mettaton odiava vedere la gente piangere.
Odiava il pianto in ogni sua forma, passivo o attivo. I volti contratti di umani e mostri in preda ai singhiozzi gli facevano contorcere lo stomaco. Odiava il rumore dei singhiozzi stessi, il modo con cui strozzavano la voce nella gola degli interlocutori. Odiava persino interpretare le scene di pianto nei suoi spettacoli, pur essendone costretto per assicurare a ognuno di essi il perfetto bilanciamento tra drama, amore e azione. 
La maggior parte dei suoi ricordi erano infestati da gente che piangeva. Napstablook, ovviamente, era il primo della lista. Per il piccolo fantasma ogni momento era buono per versare lacrime. Per vederlo felice, Mettaton avrebbe barattato le proprie gambe, ma a volte si stancava di doverlo consolare ogni giorno. Un’altra ragione per cui odiava vedere la gente piangere era proprio quel senso di inutilità che provava ogni volta quando nemmeno la sua parlantina perfetta riusciva a portare conforto al suo disperato interlocutore.
Ma c’erano anche Shyren, che singhiozzava disperata al funerale di Lemon Bread, e Alphys, che si asciugava gli occhi nel camice appoggiata alla porta del bagno che non era un bagno, e i suoi fan quando si avvicinavano a lui per la firma degli autografi. Persino Burgerpants, indirettamente, lo perseguitava con il pianto. Da qualche tempo girava in rete una malignità secondo cui i Glamburger e le bistecche che il mostro felino preparava fossero conditi non col sale, ma con le lacrime versate da questi mentre stava alla griglia. A Mettaton la sola idea aveva causato l’istinto di vomitare. 
“E meno male che non ho uno stomaco, altrimenti si sarebbero messi a dire che l’ho usato per dare sapore agli Starfait”.
Frisk aveva gli occhi rossi, gonfi, e si soffiava il nasino in dei kleenex rosa confetto. Non assomigliava alla bambina coraggiosa e spigliata che lo aveva fronteggiato sul palco del Core. Qualunque cosa le fosse successo doveva essere stata orribile.
-Non parli con me, tesoro?- domandò mentre si dirigevano verso l’uscita del cortile. Frisk non disse nulla, continuando a guardare verso terra. 
“La sto mettendo a disagio” pensò l’androide. Le persone che incrociavano lungo il sentiero si fermavano a guardarlo, puntando le dita contro di lui e parlottando fra sé e sé. Non poteva biasimarli: era alto, luccicante e molto vistoso. Aveva sempre avuto una necessità di farsi notare; Frisk doveva non essere in grado di comprenderla. 
-Vogliamo andare via?-
Se avesse potuto, avrebbe sudato freddo. Perché Frisk lo ignorava? Pensò freneticamente a cosa fare per coinvolgerla, ma non gli venne in mente nulla. Si vedevano spesso, ma si dedicavano sempre ad attività di svago. La bambina gli aveva fatto conoscere tantissimi negozi di haute couture che avevano di molto ampliato le sue vedute. 
A Toriel e Asgore queste cose non succedevano. Quando la bambina tornava a casa triste era sempre disponibile per una coccola, una tazza di tè e qualche parola affettuosa. Con Sans e Papyrus era come un libro aperto, sempre pronta a mostrare ogni lato di sé stessa. Di Alphys si fidava ormai del tutto, non meno di lui, e persino ad Undyne era concesso qualche momento di tenerezza. 
“Non con me” pensò l’androide improvvisamente intristito. “E una star che non sa consolare i suoi fan non è degna del nome”.
Ormai avevano superato il cancello della scuola, e camminavano fianco a fianco lungo il viale alberato che costeggiava le sue mura. Frisk aveva smesso di piangere, ma non appariva affatto sollevata. Teneva il capo chino, gli occhi coperti dai ciuffi di capelli.  
Mettaton avrebbe voluto accarezzare quel visetto teso, sfiorare con i suoi guanti di seta le guance umide, e sussurrare con la sua miglior voce sommessa da star che andava tutto bene, che con lui poteva parlare, che la avrebbe aiutata a risolvere qualunque problema la attanagliasse. Ma sentiva che se avesse allungato la mano verso di lei si sarebbe ritratta, come facevano certi tipi di alghe nei documentari di Alphys, e sarebbe stato un colpo di coltello dritto all’anima di tutti e due.
Decise di tentare un approccio più tranquillo. 
-Cos’hai fatto, piccola mia? Me lo vuoi dire?-
E con una certa sorpresa, Frisk gli rispose.
-Ho dato un pugno ad Allison Greene. In mezzo al cortile. Ecco tutto.-
Mettaton si irrigidì: -Frisk, tesoro… un pugno?- Non riusciva a crederci. -Ma come mai? Non è da te! Pensavo che quel buzzurro stesse mentendo.-
-Non ha mentito.- sospirò Frisk. -Le ho dato un pugno. Le usciva sangue da tutto il naso.-
Una lacrima scivolò dal volto della ragazzina, infrangendosi contro l’asfalto del marciapiede. 
“No, tesoro. Ti supplico, non ricominciare. Non so cosa dire quando piangi. Non so neanche se dovrei stare qui.”
Si chinò di scatto, prendendole il volto fra le mani. -Tesoro, non fare così. Non l’hai mica ammazzata…-
Frisk tirò su col naso. -Non i-importa.- mugugnò. -Non sta b-bene tirare pugni. Non è b-bello.-
“E va a dire queste cose proprio al robot killer. Una meraviglia.” Aveva voglia di mettersi a pestare i piedi come un ragazzino piccolo. 
-Ma… perché? Cosa ti ha spinto a colpirla?-
-Lei ha… ha d-detto delle cose brutte.- singhiozzò Frisk. -Ha parlato male d-di alcuni bambini. Ha detto che… se tutto v-va come Dio comanda, loro… t-torneranno da dove vengono.-
“Nello stomaco delle loro madri?” Mettaton si rammaricò per la sua poca perspicacia. Sapeva che c’erano molti, troppi umani che odiavano altri umani senza motivo. Non riusciva a capire nemmeno quello. Aveva spremuto i suoi sistemi fino all’ultima goccia, ma non aveva mai colto il senso di quelle affermazioni. Quello che capiva era che anche lui, come Frisk, non avrebbe esitato a colpirli con un favoloso, ben mirato pugno al setto nasale.
“Ma io non sono Frisk."
Sollevò la bambina fra le braccia, traendola al petto. 
-Non piangere, tesoro. Adesso è finito.-
-Scusami, Ton-Ton.- mugugnò la ragazzina. -Ti sto dando fastidio.-
-Affatto, piccina. Affatto.-
Mettaton la strinse a sè, rammaricandosi di non avere la soffice pelle degli umani o il morbido pelo di Asgore e Toriel. Il metallo era freddo e duro: la bambina era sicuramente scomoda.
-Vogliamo andare a sederci da qualche parte?- sussurrò. -Una bella poltrona imbottita è sicuramente più comoda di due tubi di ferro.-
Frisk bofonchiò un sì. 
“E vai!"
 
“MTT Brand: Fast Food, Sala Da Te, Ristorante Misto & Pasticceria”, recitava una vistosa insegna al neon sopra una porta di vetro viola alta e larga come una tenda. Mettaton spinse l’anta in dentro, tenendo per mano la bambina dietro di lei, e si chinò per farla passare. -Benvenuta, carissima amica, al mio piccolo rifugio per stelline creative.-
Roteò l’occhio sinistro verso di lei, cercando di non farsi notare. La bocca soffice di Frisk si era incurvata in una O dai morbidi contorni. I suoi occhioni scuri sembravano percorrere ogni metro quadrato delle pareti viola, come per memorizzarlo in qualche angolo importante della sua memoria. Ora posava gli occhi sul cartello della sala da te, dove ogni lettera assomigliava a un piccolo ragno. Ora si perdeva tra i lampadari di vetro pervinca, incastonati di vetro e cristalli delle Cascate. Ora inseguiva con lo sguardo una scalinata di legno dorato, che si attorcigliava lungo una parete conducendo al piano superiore. 
-Lassù c’è il ristorante. Ho assunto cuochi umani da tutto il mondo.- spiegò l’androide. -La sala da te la gestisce la signorina Muffet. La conosci, vero?- Frisk annuì, ammirando rapita i disegni incorniciati che ricoprivano una parete. Tutti quanti raffiguravano Mettaton. Il primo da sinistra aveva colori cupi, pennellate profonde. Il secondo da destra aveva linee geometriche e pulite. Altri due erano lucidi di pastello, accesi e sgargianti.
-Li hanno fatti i tuoi fan?- domandò. Mettaton fece sì con la testa. -Non sono meravigliosi?-
-Sono bellissimi. E hanno tanto del tuo carattere.-
L’androide proruppe in una risata argentina: -Non è forse la stessa cosa?- 
Vide la bambina che sollevava il braccio per salutare Burgerpants da dietro il bancone del fast food. Anche Mettaton salutò, portando alla fronte la mano guantata. Il gatto arancione rispose con un cenno della zampa, mentre con l’altra regolava la fiamma sotto la griglia. I sensibili sistemi auditivi dell’androide colsero che stava fischiettando.
-Da quando Burgerpants è così sereno?- commentò Frisk a bassa voce.
-Quando ho riaperto l’MTT Resort in superficie ho fatto dei simpatici tagli al suo orario.- rispose Mettaton. -Weekend liberi, aumento del 30% e pasti pagati da me. Ho assunto un paio di umani con cui condividere il lavoro: bisogna impegnarsi, se si vuole dare l'esempio.-
-È molto dolce da parte tua.- disse Frisk. Mettaton si sentì arrossire. Voleva a quella bambina un bene sconfinato.
Presero posto in uno dei tavoli più riservati, sotto la scalinata d'oro. Una ragazza umana dalla pelle marrone, con una nuvola di ricci che circondava il viso allungato, vestita con un’uniforme rosa arancio, accorse armata di un piccolo computer palmare.   
-Vuoi una tazza di tè, tesoro?- domandò Mettaton. -Abbiamo a disposizione molte nuove fragranze. Preferisci Glitter Wonderland, Glamorous Delight o Sparkle Marvel? Ho fatto mescolare i Semi Ponte alla lavanda e al bergamotto. Sono una delizia con lo zucchero.- 
Frisk annuì senza alzare lo sguardo. Mettaton cominciava davvero a innervosirsi. Ordinò sbrigativamente un Glamorous Delight (te verde cinese, biancospino, violetta e una punta di cannella) per lei e una tazza di olio caldo per sé stesso, poi si piegò in avanti sul tavolo verso il visetto della piccola.
-Andiamo, Frisk. Cosa ti prende? Me lo puoi dire.-
“Oppure non può. Vorrebbe stare a casa a parlare con i suoi genitori o con Sans o Papyrus. Chi mai parla con Papyrus? Non si riesce a fare conversazione con quello lì.”
-Io… non voglio dirlo, è stupido.-
-Stupido, tesoro?- Mettaton allungò le mani prendendo quelle di Frisk. -I film con gli umani che toccano i sederi delle umane senza chiederglielo sono stupidi. La pizza con l’ananas è stupida. Quelli che salgono sugli autopùs senza pagare sono stupidi. Tu, tesorino mio, sei tutto tranne che stupida.-
A Frisk scappò un risolino. -Si chiamano àutobus.- “Dannazione, lo sapevo!”. -È solo che…- si accigliò nuovamente, e Mettaton scattò di nuovo sull’attenti. -Non dovevo arrabbiarmi. Ho reagito male, e lei l’ha pagata cara.-
-Si chiama karma, tesorino. Quando fai una cosa cattiva e vieni punito.-
Mettaton strinse le mani di Frisk più forte, fissandola negli occhi come se avesse potuto sparire da un momento all’altro. 
-Non è solo il pugno, vero? Ti leggo negli occhi.-
-Non è solo il pugno.- Frisk si strofinò i palmi sugli occhi. -Ho sbagliato. Ho agito male. Non si risolvono così i conflitti. Mi sono comportata da cattiva.-
-E Chara? Cosa ne pensa Chara?- 
Frisk prese un profondo respiro, guardando il soffitto.
-Chara è arrabbiata. Non mi parla più. Non le piace che picchi la gente.-
Le labbra di Frisk tremarono, e un nuovo lacrimone rigò il suo volto.
“Basta piangere, tesoro. Ti prego. Non so proprio che fare.”
Anche Mettaton prese un profondo respiro, guardandola negli occhi. 
-Non devi piangere, piccolina. Sei una bambina forte. Hai superato tanti ostacoli. Hai sbagliato, lo fanno tutti.-
-Ma picchiare la gente…- Frisk si passò la manica sulla faccia. 
Mettaton alzò lo sguardo, perdendosi nei disegni geometrici della carta da parati.
-Io credo che i nostri errori facciano parte di noi al pari di tutto il resto.- si chinò in avanti, dedicandole uno dei suoi dolci sorrisi da mega star. 
-Non possiamo restare agganciati a quello che facciamo, lo sai? Sbagliare è una cosa che capita. Guardami, bambina. Tu sai cosa ho fatto, vero?-
Frisk sbarrò gli occhi: -Lo so. Mi dispiace, Metta. Davvero.-
Mettaton sospirò, serrando le braccia attorno al proprio corpo. Se avesse avuto della saliva avrebbe deglutito. Sans gliel’aveva detto, una sera. Avevano parlato per tutta la notte, l’uno fra le braccia dell’altro. Ricordava ancora i suoi singhiozzi mentre lo scheletro gli spiegava cos’aveva fatto ai cani della guardia reale. 
“Impiccati. Tutti e sei assieme. E io ero là, in posa plastica, con la corona e il mantello e tutto.”
Chiuse gli occhi, prendendo un nuovo respiro. Sans l’aveva presa bene. Gli aveva accarezzato i capelli, offerto dei Kleenex per asciugarsi le lacrime, e sorriso in quel modo placido che aveva lui. 
“Ti va se dopo ti racconto di quando sei stato un martire?”
“Grazie, tesoro. Ne ho un bisogno immenso."
 
Tornò la ragazza dai capelli ricci (“naturali” pensò Mettaton, “gli umani li chiamano così, e alla ragazza piace portarli. Come biasimarla? Le stanno così bene!”) e depose sul loro tavolo un vassoio rosa acceso con sopra due tazze. Mettaton la ringraziò con un cenno della mano, poi tornò a rivolgersi a Frisk. Sentì un tuffo al cuore nel vedere i suoi occhi ancora rossi. 
-A volte pensi al passato, tesoro?-
Frisk strappò una bustina di zucchero di canna. -Spesso. Non è facile convivere con quello che ho fatto. Ma penso che tu lo capisca.-
-Quello che facciamo, piccola mia…- Mettaton si sfilò il guanto destro e mescolò l’olio bollente con il dito. -È parte di noi. Ci lascia su dei segni, e quelli formano un disegno. Un bel disegno, tesoro.-
Si infilò il dito in bocca, leccando le gocce via dal metallo. -Capisco quello che pensi. Possono passare mesi prima che accettiamo i nostri errori.  Anche io facevo così. Trattavo male gli altri e non riuscivo ad accettarlo. Alphys… Burgerpants… i miei cugini… Mi comportavo da sciocco e non riuscivo a smettere. Anzi, fingevo che non ci fosse bisogno di smettere. Mi aggrappavo ai miei sogni per non lasciare che la realtà mi soffocasse.-
-E adesso cosa fai?- domandò la bambina con fare curioso.
Mettaton sorrise mettendo in mostra i denti di vetro e smalto.
-Ho semplicemente capito che stava a me fare in modo che la mia realtà fosse accogliente.-
 
Le guance di Frisk si gonfiarono mentre sorbiva il primo sorso di te. 
-È delizioso.- sussurrò. -Dolcissimo e così saporito…-
-Mi farai arrossire!- esclamò l’androide in risposta. Sollevò la gamba destra da sotto il tavolo, appoggiandosi ad essa come a una colonna da lap dance. -Ah, Frisk sta abbattendo le mie difese coi suoi complimenti.-
La bambina emise una risata squillante. Gli occhi erano ancora arrossati, ma parvero illuminarsi come ornamenti natalizi. 
“È il rumore dell’ammirazione. Il più bello del mondo"
Allungò di nuovo la mano verso la bambina, accogliendo il suo piccolo pugno nella seta morbida del guanto.
-Ti ho mai raccontato di quando sono diventato corporeo?-
Frisk alzò la testa di scatto. -No, mai.-
-Sei curiosa? Lo vedo dal tuo sguardo.-
Frisk si riscosse, facendo tremare il tè nella tazza con un brusco movimento del braccio. -Posso tirare a indovinare?-
-Spara.-
Frisk si strofinò l’indice sulla fronte aggrottata. Poi sussulto. -Quando… quando hai visto Papyrus senza vestiti per la prima volta.-
Mettaton ringraziò di non aver avuto il bicchiere accostato alla bocca: avrebbe sputato il contenuto addosso alla bambina, ustionandole tutta la faccia. “Io DO la bellezza, non la porto via”.
-Sto scherzando, non fare quella faccia!- esclamò Frisk tempestivamente. -Lo so che non è quello.-
-Senza vestiti? Frisk, siamo seri.- Mettaton ingoiò una sorsata copiosa e guardò di sottecchi la piccola. -La concorrente vuole tentare un’altra volta. Sono un conduttore molto magnanimo, lo sai.-
Frisk arrossì. -Non ho nessuna idea.-
Mettaton sorrise, allungando il braccio estensibile per accarezzarle la frangetta. Era dolcissima anche quando provava ad essere pungente. Era una parte di lei, come il fascino abbacinante lo era di lui.
-Quando riuscii per la prima volta a riempire la platea. Non c’era un posto vuoto. C’erano mostri dappertutto e io… io ho sentito qualcosa.-
Si fermò cercando di capire esattamente con quali parole esprimere quella cosa alla bambina. Estasi, forse? No, per gli umani voleva dire “uscire” dal proprio corpo. Esaltazione? Banale felicità? Un’esplosione di fuochi d’artificio nella sua anima, che schioccavano e fischiavano. Nirvana? No, non sapeva nemmeno cosa volesse dire. 
-Non so spiegartelo, Frisk. Una sensazione… forte. Come se… tutto quello che avessi mai voluto fosse diventato mio.-
-Deve essere stato meraviglioso.- sussurrò la piccola. Mettaton sorrise, beandosi del ricordo della sensazione. 
Ma c’era un’altra faccia della medaglia, di cui un Blook non amava parlare.
-Quella notte mi apprestai a riporre il mio corpo nel solito ripostiglio, ma quando cercai di uscirne… non vi riuscii.-
Mettaton si interruppe, distogliendo lo sguardo da Frisk. Chiuse gli occhi, serrò i denti, strinse i pugni sotto il tavolo.
Aveva sognato di diventare corporeo per una vita intera. Spesso aveva scritto pagine di diario immaginando la propria trasformazione, descrivendo nei più minuti dettagli la sensazione frizzante, appagante, dell’avere un corpo tutto per sé. 
“Per gli altri mostri” aveva scritto “avere un corpo è la norma. Abbracciarsi, danzare, stringersi le mani, correre, persino sanguinare. Per noi Blook, invece, non è che un sogno, che infesta le nostre menti durante le lunghe notti senza riposo. Se potessi trovare un corpo tutto per me, da abitare come mi piace, che mi faccia sentire davvero me stesso, penso che potrei danzare per tutta il Sottosuolo cantando ai mostri la mia felicità. Non potrei mai più chiedere o volere nient’altro: tutti i miei sogni più profondi sarebbero stato realizzati."
Di una cosa Mettaton era certo: non aveva un talento nella preveggenza.
Tornò a guardare Frisk, e si accorse che la bambina appariva preoccupata. -Stai bene?-
-Sì, tesoro.- rispose dolcemente. -Stavo solo pensando che forse questa storia è noiosa.-
Frisk sorrise: -Nessuna storia è noiosa, se sei tu a raccontarla.-
-Su questo non ci sono dubbi.- disse. Si ravviò i capelli e riprese a raccontare.
-Corsi da Alphys, la supplicai di tirarmi fuori dal corpo. “Non respiro, non respiro, fammi uscire”. Era stupido, no? Io non ho bisogno di respirare.-
-E lei non ci è cascata.- domandò Frisk piegando la testa di lato. 
Ma Mettaton si rabbuiò: -Non era uno scherzo, Frisk. Mi sentivo soffocare per davvero. Credo di aver avuto quello che voi umani chiamate “attacco di panico”.-
-E come è finita?-
-Riuscì a farmi calmare. Non ricordo nemmeno come: era più agitata di me. Mi fece sedere, mi preparò una tazza di olio caldo e mi rassicurò. Disse che non dovevo spaventarmi davanti ai cambiamenti. Che inciampare in un sasso non deve spaventarci prima di scalare la montagna. Quella notte rimasi a riflettere mentre Alphys guardava i cartoni. Ero spaventato, avevo la nausea… volevo strapparmi il corpo di dosso come fa Undyne con le sue armature, e gettare tutto il lavoro di mesi di Alphys nella lava di Hotland…-
Sospirò, stringendo la mano di Frisk nelle proprie.
-Ma avevo già capito di non poter tornare indietro.-
Scrutò gli occhi nocciola di Frisk, ancora luccicanti per il pianto. La bambina si succhiò il labbro inferiore chiaramente immersa in qualche profonda riflessione.
-Lo sai?- disse pochi attimi dopo. -A volte ti invidio.-
Mettaton rimase interdetto. -Come mai?-
-Sei sempre così… così sicuro di te. Fai quello che vuoi fare, dici quello che senti di dire, e arrivi fino in fondo in ogni cosa. Sei così… perfetto.-
-No, bambina.- Mettaton strinse i pugni ringhiando. -Non voglio mai più che tu lo dica.-
Frisk aveva fatto un salto indietro. Appariva più sorpresa che spaventata.
-Che succede?- domandò.
-Scusa l’attacco, tesoro. Ma vorrei davvero che non dicessi più che sono perfetto.-
-E come mai?-
Mettaton sospirò. -Le persone perfette non hanno uno scopo.-
Scrutò il viso ambrato di Frisk, gli occhi grandi e luminosi, le guance tonde e piene, le labbra tumide, il naso a patatina, la buffa frangia asimmetrica: una bambina deliziosa, dolce e forte allo stesso tempo. 
Aveva acconciato i capelli di Frisk e truccato il suo visetto paffuto tante di quelle volte da non poterle contare. Avevano cantato il karaoke e giocato a Dance Dance Revolution, preparato biscotti, e intrecciato collane di perline che Frisk aveva venduto a una bancarella o regalato ai suoi amichetti. L’aveva accompagnato ai suoi concerti e ai suoi programmi, e spesso avevano anche dormito assieme, ma a volte, anche dopo tutto quello, aveva sentito il bisogno di conoscerla meglio. Aveva sperato che la bambina si confidasse davvero con lui, gli aprisse il suo cuore come faceva con i genitori e con gli altri amici mostri. Desiderava da tempo ascoltare la sua vera voce: le sue inquietudini, le sue contraddizioni, le sue passioni e i suoi desideri nascosti.
“A cosa serve?” si era chiesto a volte. “Perché Frisk dovrebbe confidarsi con me, quando ha tanti amici così dolci e affettuosi? Con me può parlare di trucco, o di musica, o di moda, ma i suoi pensieri profondi sono riservati ad altri.”
Eppure eccola là. La bambina che sentiva di amare quasi quanto Napstablook, che l’anno prima gli aveva messo in faccia la verità durante lo show più importante della sua vita, che confidava proprio a lui le sue paure e i suoi turbamenti.
Si accorse che la bambina aveva estratto dallo zaino un tablet bianco, e aveva iniziato a digitare freneticamente.
-La password del Wi-Fi è “ILOVEMYLEGS”- Mettaton allungò il collo cercando di sbirciare cosa Frisk stesse scrivendo. -Cosa ti prende così tanto?-
-La Determinazione.- rispose la bambina. -Ho voglia di agire, Metta. Iniziare a cambiare le cose per davvero… contro le persone prepotenti come Allison Greene. Senza pugni, stavolta. Chiamerò i miei amici. Metteremo su qualcosa… a scuola, o al parco, o dovunque ci vada. Non importa quanto sarà difficile.-
-Frena i bollori.- Mettaton afferrò il tablet e glielo sfilò dalla mano. -Difficile? Dimentichi forse che stai parlando con una star? Ho tutti i contatti che ti servono.-
Ridiede il tablet a Frisk. -Sei il solito sfacciato.- disse lei. Poi sogghignò. -Ci sarai utile.-
-Mi piace come ragioni, tesoro.-
Ad un tratto, gli occhi di Frisk si sbarrarono. Le sue piccole dita parvero rilassarsi d’improvviso.
-Che c’è?- domandò. 
-È Chara.- rispose la bambina, sorridendo a trentadue denti. -Mi sta abbracciando.-
 
Quella sera, alle otto in punto, Burgerpants li raggiunse al loro tavolo. Ormai la sala da tè si era svuotata completamente: solo il robot e la bambina, seduti fianco a fianco e chini sul tablet di Frisk, la occupavano ancora.
Mettaton alzò gli occhi dal tablet. Il mostro felino aveva il pelo lucido, un orecchino tondo all’orecchio destro, e indossava un completo elegante bianco e nero. Sotto la spalla reggeva una scatoletta con su scritto “Croccantini per gatti”.
-Io vado, capo.- disse, facendo voltare anche Frisk. 
-Hai un’appuntamento con la tua Katy?- domandò l’androide.
-Sì capo… anche se sarebbe Catty.-
Frisk squadrò Mettaton con gli occhi sbarrati. -Catty? Quella Catty?-
-Shh, non sta bene pettegolare.- Mettaton rise, poi si rivolse di nuovo a Burgerpants.
-Prima di uscire, puoi dire ad Alice di non spegnere le luci? Io e il tesorino restiamo fino a tardi.-
-Come mai, se posso chiedere?- domandò lui confuso.
Mettaton sorrise passandosi una mano nel ciuffo. 
-Abbiamo una cosa in mente. Sarà spettacolare.-




 
Ho commesso degli errori, e mi dispiace. 
Ora sono pronta a ricominciare e imparare da essi.
Un saluto a tutte le persone che hanno avuto fiducia in me e mi hanno aiutata in questo momento difficile. Grazie, grazie davvero. Voglio molto bene a tutti quanti. 
  
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