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Autore: AintAfraidToDie    26/05/2017    6 recensioni
Carino. Non è sicuramente un termine che mi è capitato spesso di usare, durante tutta la mia vita. Carino, già. L’utilizzo presuppone forse una sensibilità percepita dai più come tipicamente femminile; un elevato accumulo di serotonina nel cervello, magari.
Ma John Watson è realmente carino, stasera. (L’ho pensato, davvero?) Una riflessione istantanea, inevitabile, improvvisa. Primo dogma incrollabile in una lista di osservazioni probabilmente patetiche ma sicuramente oggettive. No, quasi certamente non mi sarei dovuto trovare qui, adesso: pessima idea, quella di partecipare ad una di queste tradizionali cene che John si ostina a denominare con lo stupido appellativo di classica e divertente serata fra amici al pub. Birra, cibarie fritte col venti per cento minimo di grassi saturi e partita di calcio sul maxi schermo. Magnifico, davvero. (Sensazionale.)
[Johnlock]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Anderson, John Watson, Lestrade, Mike Stamford, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Di panico e di paura.”

 

 

Carino. Non è sicuramente un termine che mi è capitato spesso di usare, durante tutta la mia vita. Carino, già. L’utilizzo presuppone forse una sensibilità percepita dai più come tipicamente femminile; un elevato accumulo di serotonina nel cervello, magari.

Ma John Watson è realmente carino, stasera. (L’ho pensato, davvero?) Una riflessione istantanea, inevitabile, improvvisa. Primo dogma incrollabile in una lista di osservazioni probabilmente patetiche ma sicuramente oggettive. No, quasi certamente non mi sarei dovuto trovare qui, adesso: pessima idea, quella di partecipare ad una di queste tradizionali cene che John si ostina a denominare con lo stupido appellativo di classica e divertente serata fra amici al pub. Birra, cibarie fritte col venti per cento minimo di grassi saturi e partita di calcio sul maxi schermo. Magnifico, davvero. (Sensazionale.)

 

“Dai, Sherlock. Sono due giorni che non esci di casa.”

Già, due giorni di vuoto totale, due giorni di pura noia.

“Ti farà bene. Ti divertirai, fidati.”

Occhi speranzosi, sopracciglia corrucciate. John mi guarda ed io, ovviamente, lo guardo a mia volta. Sbuffo rumorosamente, ma John mi sta pregando. Non a voce, non a gesti. Mi guarda e, solamente con l’ausilio del suo sguardo, mi prega. (Carino.)

Quindi mi sono lasciato convincere da uno sguardo. (Adorante. Implorante. Irresistibile.) Ma adesso.. adesso, inevitabilmente, me ne pento.

 

John è particolarmente carino questa sera, per una serie di motivi praticamente ovvi ed evidenti a tutti; forse a tutti tranne che ad Anderson. Rettifico, Anderson non vede oltre il suo adunco naso, ergo ignora sicuramente ogni possibile e palese motivo così facilmente esplicabile:

1.      John è contento, azzarderei felice. È scientificamente provato che l’aumento della produzione di endorfine in un qualsiasi soggetto apporti miglioramenti sia in senso estetico che nell’ambito della salute fisica, ma John Watson è sicuramente un caso a parte. I suoi tratti sono estremamente rilassati e ridacchia per ogni minima cosa.

Esempio pratico ed istantaneo: bevo un sorso di birra, lui di rimando mi fissa e sogghigna. (Sembro ridicolo? Gli piace il fatto che io beva? Non lo so, ma non importa.) Andiamo avanti; adesso osservo la TV gigante, ci provo, davvero. Chiunque fa così, qui dentro. Non mi interessa in realtà, ma lo faccio. (Lo faccio per te, John. Vorrei dirtelo, quando torniamo a casa. Apprezzeresti e magari mi guadagnerei un bel bacio con la lingua.)

Ma l’osservazione di quei ventidue individui, sicuramente in forma ma proverbialmente scarsi in termini d’intelletto; no, davvero, non ce la faccio. I miei occhi si costringono da soli a distogliere lo sguardo ed il mio cervello invoca pietà a gran voce. Allora guardo John e lui guarda me, ancora. Ride, ride di gusto. I solchi sulla pelle del suo volto vengono messi in risalto dall’ilarità della sua espressione, ma Dio, quant’è carino. (Invecchi bene, John. Continua pure ad invecchiare ad ogni sorriso, aggiungi tranquillamente ruga dopo ruga. Va veramente bene così.)

Ma io cosa realmente dovrei farci qui, alla fine? Devo guardare la televisione oppure continuare a far ridere John con la mia visibile inadeguatezza sociale? Non so. Nel dubbio bevo la mia birra tutta d’un sorso e non mi sorprendo affatto che questo mio gesto sia accompagnato da un altro risolino soffocato di sottofondo.

 

2.      John, stranamente, stasera si è vestito bene. Non elegante, non sportivo, non troppo da tipico ometto inglese poco attento al vestiario, convinto che sobrietà faccia rima con anonimato. Ma purtroppo erra, erra sempre. (I colori, John. Gli accostamenti cromatici sono importanti e tu non lo comprendi.)

Comunque. La polo blu scura che indossa mette in risalto le sue spalle ed il suo ben messo busto. Fa terribilmente caldo, qui dentro: una maglietta a maniche corte è sicuramente una scelta azzeccata. Io annaspo dentro la mia camicia troppo abbottonata. (Uno a zero per te, John, ma dopotutto giochi in casa. Linguaggio calcistico, sto forse delirando? È adatto al contesto, perlomeno.)

I suoi jeans chiari sono semplici e dal taglio leggermente fasciante. Un bel figurino, il mio John. Carino, sì. (Bello. Bello, davvero.) Un bell’uomo sicuramente non molto alto ma con niente fuori posto. Apprezzo i nasi importanti e quel suo sprizzare eterosessualità da tutti i pori. (È fantastico sentirsi l’Eccezione. Estasi, pura estasi.)

Deglutisco birra ed un’improvvisa voglia di fumare mi pervade dalla testa ai piedi. John continua a mantenersi un sorriso splendente stampato in faccia ma adesso il suo sguardo è posato sul match. (Peccato.)

 

3.      John mi voleva qui da anni. Già, proprio seduto su questa seggiola scomoda, posizionato a capotavola nel suo (Triste.) pub preferito. Un luogo che puzza terribilmente di cipolla fritta e secrezioni di ghiandole esocrine maschili. (Nauseante, ed è dire poco.) Ma John mi voleva qui, presente nel condividere questo suo appuntamento fisso a cadenza mensile o settimanale a seconda dei casi.

“Dipende dalla classifica, Sherlock. Poi quest’anno anche il Leicester è in Champions..” (Frammento di conversazione di qualche tempo fa, viandante nei corridoi del mio Palazzo Mentale. Lo prendo tra due dita e lo scruto, infine lo cestinerò.)

Insomma. Se non conoscessi l’Islam e la sua lingua praticamente alla perfezione avrei potuto dire a John che tutto ciò che si è sempre ostinato a volermi spiegare sul calcio è come arabo, per me. Facendo più volte mente locale di tutti gli idiomi che conosco, l’unica cosa che mi è venuta da dirgli in risposta è stata dal suo punto di vista forse abbastanza esilarante, ma sicuramente sincera. “Il calcio è come l’indonesiano, John.” gli dissi quel giorno, sperando che mi capisse al volo. La sua espressione interrogativa fu però più eloquente di mille parole. “Non lo conosco e, francamente, non mi interessa.” aggiunsi alla fine.

 

Quindi mi sono salvato tante volte da quest’obbligo sociale non sicuramente desiderato. (Infinite volte, non calcolabili.) Ma non questa volta.

Anderson si è ovviamente posizionato il più lontano possibile da me, col suo sguardo che non m’incontra mai. (Perfetto, davvero. Continua così, ti prego.) Mike Stamford è alla mia sinistra, intento principalmente nell’ingozzarsi di untuosa roba fritta a ripetizione piuttosto che nel guardare la partita. (Le coronarie, Mike, attenzione. Mi costringo a non comunicarti la mia non molto positiva previsione sulla tua aspettativa di vita: quattro anni, sei mesi e qualche settimana di agonia in più se l’ineluttabile infarto che avrai non risultasse essere fulminante.) Lestrade è praticamente di fronte a me, ma se ne sta perennemente voltato verso il maxi schermo, attento a non distogliere lo sguardo dall’oggetto neanche per un attimo. Sbocconcella qualche patatina dal suo piatto in maniera estremamente distratta e poco affamata, sbuffando di tanto in tanto. (Stranamente silenzioso, inconsuetamente distaccato.)

John è seduto accanto a Mike. Mi guarda ogni quindici minuti circa, forse per sincerarsi che io sia ancora qua, magari semplicemente col fine di bearsi della visione di me, con l’ennesima pinta di birra in mano, appollaiato su questa sedia terribilmente scomoda; un comune uomo in un comune posto con una comune partita in sottofondo. È palese il fatto che ogni tanto a John piaccia pensare che io sia una persona normale. Che noi, insieme, siamo normali. (È ok. Ti capisco, John. Lo posso accettare.)

Ma. C’era una lista, nella mia testa. C’era una lista che mi teneva occupato e mi permetteva di non impazzire per colpa della tediosità di questa serata. Una lista degli ovvi motivi per i quali John Watson stasera è particolarmente carino:

4.      John è carino perché, semplicemente, è John. Per pensare ciò mi basta anche solo rimirare il modo in cui mangia il suo doppio cheeseburger; lo affetta a piccoli pezzi, in maniera minuziosa, sicuramente con l’obbiettivo di evitare in ogni modo di sporcare la polo che indossa poiché è riservata per le occasioni speciali. La mia presenza, qui, è un’occasione speciale. (Oh, John. Ti adoro.)

Mastica con fare pensoso, la mandibola evidente che si muove a scatti decisi. Se mi fosse più vicino l’accarezzerei con un dito, beandomi del leggero scricchiolio provocato dai legamenti ossei. Ipnotizzante, in un certo qual modo. Fastidioso, anche, visto che mi è impossibile farlo. Quindi distolgo lo sguardo scacciando dalla testa questo stupido istinto, ed è allora che lo vedo, già. Smetto finalmente di guardare ed inizio ad osservare.

 

Non sono evidentemente l’unico a pensare che John Watson  sia particolarmente carino, stasera. Ed anche questa mia teoria è perfettamente esplicabile per mezzo di un elenco di punti in tal modo sintetizzabili:

a.       L’arrivo. L’arrivo potrebbe risultare come un qualcosa d’insignificante, ma in realtà è importante. (Essenziale, in questo caso.) Una sensazione flebile e sfuggevole, accantonata da una parte per poi essere analizzata insieme ad un quadro di dati più ampio. (Adesso.)

Lestrade che ci guarda arrivare, strabuzzando gli occhi in un misto di sorpresa e sgomento. Uno sguardo inedito, che sfuma sul deluso nel giro di un secondo. Poi, magicamente, indifferenza e sterile cordialità. Non lo osservo, ma lo vedo. Non lo noto, ma lo registro ugualmente. Saluta soltanto per mezzo di un cenno di mano e poi ci dà le spalle, entrando velocemente nel locale. Anderson mi blatera qualche insulto in una lingua che ai miei orecchi risulta incomprensibile. Lo metto in modalità muto ed il tutto procede verso un’unica ed ovvia direzione; facciamo il nostro ingresso, ci sediamo, ordiniamo. (Fino a qui tutto bene.)

 

b.      Il silenzio. Il silenzio non è strano, non è molesto. (A me piace.) Ma è insolito. Io questo non lo so, non lo posso proprio sapere. John, evidentemente, lo sa.

“Perché sei così silenzioso stasera, Greg?” glielo dice al sessantaseiesimo minuto della partita, una partita che Lestrade ha seguito sicuramente in maniera attenta con gli occhi, ma non con la mente. (Troppo perso nei suoi pensieri. Ma quali pensieri, Lestrade?)

L’Ispettore sembra riscuotersi dal suo status vegetativo soltanto grazie al suono della voce di John. Sussulta appena, si schiarisce la gola e sul suo viso si affaccia un sorriso tirato. “Sono solo stanco.” dice. Non nomina il lavoro, consapevolmente, direi. Non vuole parlarne. Non vuole conversare. Non vuole la mia attenzione. (Ma ce l’hai, Lestrade. Ce l’hai addosso da un bel po'; più precisamente da circa quarantuno minuti e venticinque secondi.)

Comunque. John non si accorge di niente, ovviamente, e gli dona un sorriso di sincera comprensione. Quel suo tipico alzarsi di zigomi e occhi che riscalderebbe anche il cuore inesistente di un pezzo di marmo. Con me ci è riuscito; inevitabile che sortisca tale effetto anche su tutto il resto della popolazione mondiale. Quindi Lestrade si rilassa, osservando quel preciso sorriso di John e considerandolo come dedicato solamente a lui. Sento questo suo intimo pensiero quasi come se l’avesse formulato a voce alta. (Non mi piace. Non mi piace affatto.)

 

c.       Lo sguardo direttamente successivo. Una gocciolina di sudore denso percuote la fronte di Lestrade nello stesso istante in cui i suoi occhi incrociano i miei. Perché lo sa, certo che lo sa; sa che lo sto guardando, sa che lo sto studiando. (È inevitabile. Lo sapeva sin dal primo momento in cui mi ha visto arrivare insieme a John.)

Quindi le sue pupille tremolanti incontrano le mie per mezzo secondo circa e tutto improvvisamente si fa più chiaro e palese. (Gli occhi sono lo specchio dell’anima: è vero. Applausi a chi ha scritto questa massima.) Lo sguardo di un uomo diviso, strappato a metà. Lo sguardo di un uomo colpevole. Lo sguardo di un uomo ferito. (Ferito dalla mia presenza? O accoltellato direttamente al cuore da una triste ma ineluttabile consapevolezza?)  

 

La folgorazione derivante da tali riflessioni mi fa d’istinto alzare in piedi con uno scatto veloce e nervoso. Sbatto i palmi delle mani sul legno scadente della tavola e tutti i presenti nel locale si girano a fissarmi, attirati dal leggero e sonoro tonfo da me provocato. Anche John mi fissa. Mi fissa, perché non sa.

“Sherlock.” mormora, con sincera sorpresa.

Lestrade è l’unico che non mi fissa. Non mi fissa, perché sa. (Sa che io adesso so.)

“Vado in bagno. La mia vescica sta trovando notevoli difficoltà nel contenere i quasi due litri di birra che mi sono scolato.” riesco in qualche modo a dire, costringendomi a tirare le labbra in un sorriso senza emozione. Poi sfuggo da tutti questi occhi indagatori ed incuriositi ad un’estrema velocità, senza sapere esattamente dove andare.

 

Le conclusioni della mia personale e silenziosa ricerca serale vengono raggiunte in prossimità del lavandino inquietantemente unto di questo schifoso bagno maleodorante. Le metto insieme con leggera difficoltà, mentre al tempo stesso cerco di dare un ritmo regolare al mio muscolo cardiaco impazzito. (Polso sui centodieci battiti al minuto. Patetico.)

Ed è sicuramente questo, l’aspetto peggiore di me, di John e di tutto ciò che ci lega: il contesto emotivo. (Il fottuto e sempre presente contesto emotivo.)

John Watson mi fa soffocare senza aver bisogno di strozzarmi realmente, o tenere la mia testa sotto abbondanti centimetri d’acqua. Lo so da tempo, ma questa constatazione mi spiazza ogni volta e mi spinge a guardarmi allo specchio mentre boccheggio alla ricerca di aria che razionalmente so non mancarmi. Occhi spalancati mi osservano silenziosamente e mi giudicano. (Ridicolo. Debole.) Sudo freddo. Distolgo lo sguardo ed a questo punto inspiro profondamente. (Le conclusioni, veloce.)

Quindi. Lestrade ha una palese cotta per John (Il mio John.) ed io non me ne sono stupidamente mai accorto. Follia. (O forse no. Prevedibile.)

Sempre così presente, sempre così gentile. Le cose sono mutate con l’inesorabile scorrere del tempo, questo è certo. Una rispettosa e reciproca stima che pian piano si è evoluta in una sincera amicizia da ambedue le parti. Interessi comuni, attività in compagnia, scene del crimine, partite e birra a fiumi: tutto ciò ha fatto il resto, è ovvio. Sherlock Holmes come iniziale collante, messo da parte e rilegato al suo ruolo di macchina macina indizi in maniera graduale, senza destare sospetti. (Complimenti, Ispettore. Davvero.)

Fin qui ci siamo. Fin qui, il ragionamento si produce quasi da solo, in maniera lineare e senza troppe sensazioni sgradevoli. (Aggiungere il divorzio di Lestrade nel mezzo. Allontanamento dei figli: altro punto sicuramente degno di nota.)

Cos’è successo poi, mio caro Ispettore? Cos’è che ad un certo punto ti ha fatto vedere cose, te ne ha fatte sentire e pensare altre? Forse.. magari.. certo. Banale.

Lo vedo: siamo ovviamente sulla scena di un crimine. Magari proprio una in particolare; quella del pescatore ritrovato affogato dentro la sua rete in prossimità della sponda Est del Tamigi. Era stata una bella e rara giornata di sole ed il tramonto che si stagliava di fronte a noi donava alle acque calme delle sfumature rossastre, quasi abbaglianti. Io non ci avevo proprio pensato, ma John me l’aveva detto sottovoce. John l’aveva notato, certo, e magari se n’era accorto anche Lestrade.

Anzi. Vedo che Lestrade si accorge di quel bel quadretto naturale, mentre le mie attenzioni sono come sempre e del tutto concentrate sul cadavere. Non ascolto John che mi parla ed allora lui si avvicina al nostro caro amico Ispettore, chiedendo informazioni sul caso. Poi, come prevedibile, si lascia andare ad un commento su quel tramonto che tanto lo ha colpito. Infine, sicuramente, sorride.

Ed è a quel punto. Lo sento, lo vedo, me lo immagino. È a quel punto che Lestrade guarda John e per la prima volta lo pensa. Sorridente, illuminato da quegli strani ed inconsueti raggi di sole bellissimi, con quella sua espressione calda, rassicurante ed accogliente. Lo guarda e lo pensa: carino.

Trattengo a stento un conato di vomito liquido e disturbante, che mi fa ovviamente ritornare al punto di partenza del mio malessere psicosomatico. Maledizione. Soffoco. (Non userò mai più il termine ‘carino’ per descriverti, John: eliminato all’istante dal mio vocabolario d’uso.)

La tachicardia mi costringe ad appoggiarmi al lavabo ed a rinfrescarmi il viso con un po' d’acqua gelida. Inizio a contare mentalmente; arrivo a ventitré ed il mio respiro si fa più regolare. (Metabolizzare. Difficile, ma non impossibile.)

Sputo saliva acida ed esco dalla toilette regalando un’occhiata sfuggente al mio orologio da polso: tre minuti esatti di panico e di paura. (Un titolo d’effetto che potrebbe sicuramente funzionare per il tuo blog, John.)

 

Faccio il mio ritorno alla non tanto allegra tavolata con indosso la migliore maschera d’indifferenza e di neutralità che io possa aver elaborato e posseduto in un momento come questo. (Il risultato credo che non sia dei più perfetti, ma poco importa.) L’ennesima pinta di birra bionda se ne sta posizionata in prossimità della mia locazione.

“Così rifai il pieno.” mi dice uno scherzoso Stamford, toccandomi appena la spalla con il suo palmo destro. Con l’altra mano si porta alle labbra la centesima tapas fritta ed io sorrido sinceramente di fronte a tale scena, sedendomi senza alcuna esitazione.

Anderson continua ad ignorarmi in maniera imperterrita. (Ti voglio bene stasera, Anderson. Comportamento a dir poco impeccabile.) Lestrade non mi guarda ed io non posso fare a meno di pensare al perché ed al come io possa essere stato così cieco, così ignorante. (Ho ignorato, sì. Ho ignorato tutto questo per non so quanto tempo.)

Come sei riuscito a fregarmi, Ispettore? Ti sei celato dietro omicidi seriali, mi hai confuso attraverso raccoglimenti di prove e consulenze frequenti. Io intento a lavorare per te, tu ad innamorarti del mio uomo. Meschino, quasi perverso. Sicuramente masochistico. 

Perché lui è mio. Lo sai, lo devi sapere per forza, ed infatti soffri. Forse la notte non dormi, non dormi e pensi a lui; pensi a lui e pensi a me. Vuoi fermarti ma non ce la fai. Ti rinfranchi con queste patetiche cene in compagnia e riacquisti un po' di quello spazio vitale necessario per continuare a respirare. (Soffochi anche tu, Lestrade?)

E lo sapevi, oh quanto e come lo sapevi. Se io fossi venuto, se io ci fossi stato. Qui, in questo locale, seduto esattamente ove sono. Annoiato. Senza scopo. Inerte e distaccato dal contesto, senza distrazione alcuna. Io lo avrei capito, io lo avrei saputo subito. Io, infatti, so.

“Sherlock?” John mi osserva con uno sguardo vagamente perplesso. Io sto fissando Lestrade che a sua volta fissa il maxi schermo con la partita che si avvia verso l’ottantesimo minuto. Incateno i miei occhi a quelli di John Watson e mi sento mancare gli intestini. Spariscono, tipo. (Sensazione particolarmente strana da catalogare in seguito.) 

“John.” è l’unica cosa che riesco a mormorare. Dovrei aggiungere altro, davvero, ne sono consapevole.

Infatti. John rimane a bocca aperta per qualche secondo, sicuramente in uno stato di leggera allerta. La richiude di scatto e si alza subito dalla sua seduta, blaterando in direzione degli altri commensali qualche frase sconnessa sulla mia terribile ed inevitabile astinenza da nicotina. Si avvicina, mi appoggia la mano sinistra sulla nuca e mi sussurra all’orecchio un “usciamo a prendere una boccata d’aria, sei fradicio.” (Ed in effetti è vero.) Mi alzo in maniera quasi meccanica, seguendolo fuori dal locale e notando lo sguardo di Lestrade che ci segue di sottecchi per tutto il tempo di questo breve tragitto.

“Tutto bene? Ti vedo strano.” John me lo dice appena varchiamo la soglia della porta, ancor prima che essa si sia richiusa alle nostre spalle. Alla stessa velocità con cui mi accendo una Marlboro, in realtà. Mi guarda in maniera torva ma la preoccupazione che prova lo induce a non dar voce all’ennesima e tipica paternale che mi riserva ogni volta che mi vede fumare. (Mi dispiace, John. Mi piaceva vederti contento.)

“Tutto ok. Fa caldo, lì dentro.” inspiro tabacco e sto meglio. (Paradosso irreale ma confortante. Le dipendenze: bellissime e crudeli.) John mi prende la mano libera da impicci e me l’accarezza con tocchi gentili.

“Eppure sei così freddo, amore.”

Tremo internamente, magari anche esternamente. (Grazie, John.)

Come posso sopportare che un uomo così vicino a noi ti desideri? Come posso tollerare la consapevolezza dei suoi pensieri su di te? Non posso, davvero. Non lo gestisco. (Lo odio.)

“Sto bene. Solo che la partita è veramente troppo noiosa.” un altro avido tiro alla sigaretta e mi sento realmente rinascere. (Dipendenze: vi amo quasi quanto amo John Watson.) “Mi sono sbagliato, il calcio non è come l’indonesiano, è oggettivamente peggio. Potrei paragonarlo all’idioma sconosciuto di una qualche sperduta isola thailandese.” aggiungo, con il mio tipico tono seccato.

John ride appena, ma so che non è convinto. So che lui non sa, è evidente, ma so anche che lui conosce me. Troppo, veramente troppo bene.

“C’è qualcosa che non va.” dice infatti, nello stesso istante in cui il silenzio torna ad essere sovrano. Non è più una domanda, è una semplice constatazione, accompagnata dai suoi occhi seri, limpidi e bellissimi che mi fissano con insistenza. La sua mano che ancora stringe la mia, adesso in maniera un po' più forte. Io lo osservo a mio volta e, banalmente, non so cosa fare. Le possibili opzioni d’azione si manifestano nella mia testa sottoforma di presagi vividi e maledettamente reali:

x.      Potrei dirgli tutto. Non sarebbe una brutta prospettiva, quella di sputtanare alla grande il rispettabile Ispettore di Scotland Yard rivelando il suo scottante segreto.

“John, Lestrade ti vuole. Il tuo caro amico Greg ti desidera, è ovvio.” potrei sputarlo fuori dalla mia bocca con malcelato disgusto. John, chissà come reagiresti? Magari con un’iniziale e fragorosa risata, che si spengerebbe davanti all’inevitabile constatazione che no, non sto assolutamente scherzando. (Come poter scherzare su un fatto tanto grave? Come?)

Acciglieresti lo sguardo, poi, riflettendoci su. Forse ripercorreresti a ritroso tutti i momenti più recenti passati in sua compagnia, cercando segni e situazioni capaci di avvalorare questa mia folle tesi. (Non mi piacerebbe. Non mi piacerebbe affatto, osservarti mentre pensi a lui.) E se questa mia rivelazione si tramutasse in un tarlo della tua mente? E se tutto ciò, invece che allontanarti da lui, mettesse distanza tra noi? 

M’immagino tutto, davvero, non posso farne a meno. Ci sei tu, che dopo aver riflettuto mi mormori un falsissimo “non è possibile, Sherlock.” Per non farmi preoccupare, per non cambiare la nostra vita già così scarsamente equilibrata. Per non perdere quel timido barlume di normalità, l’ultimo che ti rimane, forse. Ma sai che ho ragione, sai che non posso sbagliarmi, non su una cosa così. Sai che tutto ciò potrebbe farmi impazzire.

Ed ecco che il tarlo inizia il suo devastante viaggio. Parte dal lobo frontale scavandosi un piccolo tunnel nella materia grigia fino a quello temporale; pensi a Lestrade mentre lavori all’ambulatorio, rifletti sul vostro passato mentre ti mangi un panino. L’acaro raggiunge lentamente il tronco encefalico, ti divora il cervelletto. (Ed a questo punto credo che il danno sarebbe fatto ed irreparabile.)

Sei sempre stato un volubile, John. Chi mi assicura che io non sia altro se non la tua ennesima e stupida donna?  Chi mi può convincere del fatto che non cadresti in tentazione? Magari il tuo patetico pensare di non essere gay, ma solo innamorato di me? Non credo, anzi, tutto ciò non mi basta. Non è abbastanza.

Quindi. Ti vedo pensare a Lestrade da stasera in poi per giorni interi. Non so quantificare quanto, né posso immaginarmi i possibili come e perché. Tutto ciò che ne deduco è che non posso permetterlo. Opzione scartata e andiamo avanti;

 

y.       Potrei arrabbiarmi. Potrei dare di matto, davvero. Iniziare ad urlare, sbattere i pugni contro il muro. “Voglio andarmene, John.” blatererei ad alta voce. “Andiamo a casa, subito.”

Così sapresti che sì, certo, c’è qualcosa che non va. In Sherlock Holmes c’è sempre qualcosa che non va; anche se si impegna, anche se ci prova. È solamente un freak, un sociopatico iperattivo con pochi margini di miglioramento sociale. (Ti sei illuso, John. Ci hai creduto, ci hai sperato, ma non è stato sufficiente.)

Adesso vedo la delusione, sul tuo volto. Prende forma e si rende evidente per mezzo del tuo sguardo corrucciato, la tua smorfia di disappunto e di negativa sorpresa. La rabbia monta feroce dentro me e credo che potrei dirti cose che realmente non penso, davanti alla tua certa esitazione nell’assecondare questo mio attimo di follia.

“Perché non torni dai tuoi amici, John?” già, i tuoi, non i miei. Sherlock Holmes non ha amici. (Ho solo e soltanto te.) “Perché non torni da Lestrade?” potrei addirittura osare.

Magari staresti meglio, con lui. Magari si prenderebbe cura di te a dovere, ti vizierebbe, ti scoperebbe meglio di quanto io possa aver mai fatto. (Dio, non ci posso pensare. Se ci penso soffoco.)

Alla fine credo che non capiresti. Non ti arrabbieresti nemmeno, probabilmente. Ti farei solo pena, nel peggiore dei casi. (Ritenta, Sherlock. Sarai più fortunato.)

 

È troppo tempo che ti osservo senza proferire parola. Ti dondoli un poco sui talloni, pazientando in maniera mite. Mi aspetti sempre, John. (Ammiro tantissimo questa tua capacità e non te l’ho mai detto. Non te lo dirò nemmeno stasera. Scusa.)

Quindi. L’opzione denominata con la lettera ‘z’ prende forma direttamente nel presente e nella realtà con naturalezza ed istintività. Sfilo la mia mano dalla tua presa e porto entrambi i miei arti in prossimità del tuo volto, intrappolandoti le guance tra le mie falangi con una presa decisa ma delicata. So che non ami questo tipo di esternazioni sentimentali in pubblico ma ora, sinceramente, non me ne frega un emerito cazzo. (Non sono solito utilizzare soventemente termini scurrili ma quando ci vuole, beh, ci vuole.)

Tu mi guardi e sbatti le palpebre in maniera veemente. Occhi blu, profondi come l’oceano che fin da bambino ho sognato ed adorato: non potevo che amare te, John Watson. Anche quando ancora non ti conoscevo, anche mentre eravamo impegnati a vivere le nostre vite parallele che si sfioravano appena, senza incrociarsi mai. (Eri e sei il mio solo destino.)

“John.” ti alito sul viso, avvicinandomi gradualmente. Devi capire, devi comprenderlo; acuisci l’udito, amplia il cervello, donami il tuo cuore. Per sempre.

“Sei mio, mio e basta.” è un sussurro flebile ma scandito a monosillabi. Spalanchi gli occhi con evidente sorpresa e stai per aprir bocca, ma non te lo permetterò, John. Chiudo queste tue labbra aride con le mie grazie ad un movimento istantaneo ed improvviso; non mi importa nulla del fatto che siamo in mezzo ad una delle vie più trafficate e popolose di Londra. (Le persone, la gente: io non le vedo, John, io non le vedo più.)

Non m’importa di niente, solo della tua lingua che finalmente incontra la mia ed a questo punto ti sento abbracciarmi, ti sento cedere. Sento che lo vuoi anche tu e ciò, davvero, mi basta. Basta a placare il mio animo in tumulto. (Per quanto? Non lo so.)

Basta ad agitarmi le budella in una stretta frenetica e pulsante. Ti prenderei direttamente qui, su questo marciapiede, in mezzo al mondo che ci guarda e capisce che sei mio, di nessun altro. (Esibizionista? Forse, ma non vedo quale sia il problema.)

Basta a farti capire quanto ti amo. (Vero? Giusto?)

Ti stacchi da me per riprendere fiato ed i tuoi occhi liquidi e socchiusi non possono far altro che sortirmi un sorriso sulle labbra inevitabilmente umide.

“Sherlock, mi lasci sempre senza parole.” bisbigli piano, senza lasciar andare la tua salda presa dai miei fianchi.

“Eppure parli ancora.” ti rispondo con il mio ritrovato tono beffardo, riappropriandomi delle tue labbra e mordendole appena. La tua lingua ricerca subito la mia e mi stringi più forte, quasi a volermi inglobare in un abbraccio ed in un bisogno disperato. Avverto un’inequivocabile protuberanza pigiarmi in prossimità della parte bassa della coscia e, inibendo un sorrisetto compiaciuto, ci esercito contro una leggera frizione.

“Oh, Watson, qui abbiamo un problema.” ti sussurro poi all’orecchio destro, distanziandomi d’un poco ed abbagliandomi con la tua espressione sorniona ed eccitata. (Bellissimo, davvero. Ripetitivo.)

“È davvero un problema per te, Holmes?” sogghigni di malizia, un attimo prima che la porta del locale si apra alle nostre spalle, rivelando l’apparizione inopportuna dei tuoi tre amici. “Ragazzi.”dici quindi, allontanandoti velocemente e cercando di ricomporti per mezzo di movimenti frenetici e perlopiù completamente inutili. Io ti guardo l’erezione estremamente evidente e godo, sinceramente, godo davvero.

“Uuuh.” è il basso lamento animalesco di Anderson. (Non so proprio cosa possa significare e, soprattutto, non mi interessa saperlo.)

“Vi abbiamo interrotto, piccioncini?” dice invece Mike con onesto divertimento e strizzando appena l’occhio sinistro. “La partita è finita da un pezzo ed il locale sta per chiudere. Domattina, poi, la sveglia.. Ah, non mi ci fate pensare!” continua poi, facendo praticamente tutto da solo. Stamford è davvero un uomo esilarante, devo ammetterlo. Tu soffochi una risatina di rimando, poco prima che un’espressione perplessa si faccia strada sul tuo volto. “Ma il conto?”

“Greg ha insistito per offrire tutto.” è ancora Mike a risponderti.

Già, Lestrade. Il povero e mesto Ispettore immerso nel suo eloquente mutismo serale se ne sta ancora in disparte, ma abbozza un flebile sorriso. (Un’altra prova. Un’altra conferma.) Tu lo ringrazi avvicinandoti e donandogli una pacca sulla spalla, accompagnata da un tuo tipico e riconoscente “a buon rendere, amico”.

Mi costringo a non guardare. Mi costringo a non osservare ogni minimo dettaglio della sua espressione. Mi costringo ad ignorare, ancora, poiché posseggo già troppi pensieri disponibili su cui rimuginare per nottate intere. (Per ora, davvero, va bene così.)

Quindi sto in silenzio. Non ringrazio, né lo guardo. Tiro le labbra a formare un sorriso senza esposizione di denti, “tutto zigomi e nient’altro”, così lo chiami di solito, John. Mike mi saluta con un abbraccio fraterno, Anderson per mezzo di uno sbuffo e Lestrade accenna un semplice gesto con la mano.

“Alla prossima, Sherlock.” esclama Stamford ad alta voce nel momento in cui le nostre strade si dividono. (Finalmente.)

“Ci puoi contare, Mike.” ed è una delle poche frasi sincere che io abbia sillabato durante  questa serata poiché è chiaro, certo, è chiaro a me e credo che sia ben noto anche a Lestrade. Adesso sorrido leggermente, riflettendoci su.

Ti guardo, John, mentre camminiamo fianco a fianco percorrendo la via per tornare alla casa che ormai riesco solamente a catalogare come nostra. Ti prendo la mano destra e la stringo con la mia; tu distanzi le falangi e ti unisci all’istante in questa stretta dolce ma allo stesso tempo decisa. Mi guardi, ti guardo. Sorridi in una maniera che mi scalda sinceramente il cuore. Sei contento, di nuovo, ed io sono felice.

“Dovremmo farlo più spesso. Queste serate in compagnia, intendo.” mi dici, facendo ondeggiare le nostre mani con movimenti lenti, quasi infantili. Poi, improvvisamente, le fermi. “Sempre che ti vada bene, certo. So che ti sei annoiato e ti ringrazio, Sherlock.” aggiungi, un attimo prima di far ripartire il movimento oscillatorio. A pensarci su credo che sia la prima volta in cui ci ritroviamo a camminare mano nella mano. (Dovremmo farlo più spesso, certo. Dovremmo farlo sempre.)

“Non mi ringraziare, John. Verrò anche la prossima volta, se tu mi vorrai.” lo mormoro guardandoti negli occhi e sperando di poterci leggere dentro esattamente ciò che mi aspetto di vedere.

Stupore, in primis, poiché non te lo aspetti però lo speri. Quindi contentezza, ancora. Un pizzico d’orgoglio perché hey, non è facile vedermi così accomodante, e se lo sono è solamente per merito tuo: hai ammorbidito il glaciale Sherlock Holmes, ti meriti un’asticella in più nella tua personale scaletta dell’autostima. (Non sono ironico, lo penso davvero.)

Infine un sorriso, senza aver bisogno di tante altre parole, perché in effetti tutti i nostri momenti migliori sono sempre stati caratterizzati da piacevoli e soddisfatti silenzi.

(E va esattamente così, John. Non mi deludi mai.)

Perfetto, quindi. La tua approvazione è importante, anche se non essenziale. Perché mi dispiace ma è impensabile per me, John. Ciò che d’ora in poi succederà è un fatto già deciso e immutabile.

A queste cene, da solo, io non ti ci mando più.

 

 

 

 

 

The end

 

 

 

 

Note:

Salve a tutti! Eccomi qua con la mia ennesima OS Johnlock; praticamente finisco di scriverne una e inizio subito ad immaginarmene un’altra. Sarebbe un crimine non sviluppare tutte queste idee che mi sfarfallano dentro la testa. Questa, in particolare, non so davvero da dove mi sia uscita: volevo caratterizzare uno Sherlock dannatamente geloso, ma non di una donna, né di una persona sconosciuta. Tra le poche possibilità offerte dalla serie alla fine ho scelto Lestrade poiché reputo che sia il personaggio più vicino a John sotto vari punti di vista. Quindi non me ne vogliate, non volevo massacrarlo gratuitamente, ma in certi punti della stesura mi immedesimavo così tanto in Sherlock che ho iniziato ad odiarlo anch’io. Mentre Stamford ormai mi si è inquadrato in questa caratterizzazione da omone simpatico e bonario. Anderson invece è soltanto una presenza inquietante, ma ci stava, dai. :)

Senza aggiungere tante altre parole vane, spero sinceramente che vi sia piaciuta. Io li amo troppo, davvero, ho ventiquattro anni e credevo che ormai certi deliri da fan girl non mi sarebbero più successi, ed invece.. come recita il detto, mai dire mai. Fatemi sapere se vi è piaciuta o no, che le vostre recensioni in ogni caso non possono che farmi contenta. A presto,

 

 

AintAfraidToDie

 

 

 

  
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