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Autore: LadyStark    26/05/2017    3 recensioni
[Dal testo]
-Non puoi ignorarmi per sempre lo sai? –
Nessuna risposta.
- Lo sai benissimo e sai anche che sono più cocciuta di te –
- No non lo sei –
- Sono nella tua testa, una tua proiezione di pensieri e ragionamenti, un ricordo, o quello che vuoi tu. Ma sotto questo punto di vista sono te e non puoi negarlo, né tantomeno mandarmi via –
Sherlock cerca di risolvere l'unico caso che non vorrebbe affrontare nel suo palazzo mentale, con l'aiuto di un'amica.
[Sherlolly]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: Spoiler!
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Salve a tutti! Eccomi ritornata alla riscossa. Dunque, avevo in mente questa cosa da un po’, mi piaceva come idea e ho provato a buttarla giù.
Ho lasciato come avvertimento OOC, perché, per quanto abbia cercato di mantenere i personaggi il più fedeli possibili, ho provato a capire cosa pensano e si sa, la testa di ognuno è diversa e non so se sono stata in grado di tener fede agli originali.  Non so se è abbastanza chiara, me lo auguro, in ogni caso mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, bando alle ciance, vi lascio alla lettura!

 
 
 
-Non puoi ignorarmi per sempre lo sai? –
Nessuna risposta.
- Lo sai benissimo e sai anche che sono più cocciuta di te –
- No non lo sei –
- Sono nella tua testa, una tua proiezione di pensieri e ragionamenti, un ricordo, o quello che vuoi tu. Ma sotto questo punto di vista sono te e non puoi negarlo, né tantomeno mandarmi via –
- Mary il fatto che tu sia morta non mi impedisce dal darti torto nella mia testa –

Sherlock Holmes, seduto sulla sua poltrona, aprì gli occhi nella speranza di far uscire l’immagine di Mary dalla sua mente.  Sbuffò quando davanti ai suoi occhi, seduta sulla poltrona dove era solito sedere l’ormai vedovo John Watson, Mary gli sorrideva sorniona.
- Sai benissimo che non me ne andrò fino a quando non avrai risolto la faccenda – disse lei appoggiando i gomiti sulle gambe, quasi sfidando il consulente investigativo che cercava disperatamente di uscire da quella situazione che gli stava creando più disagio di quanto non avesse immaginato.

Si era rinchiuso nel suo palazzo mentale per mettere ordine. Eurus, Sherrinford, Barbarossa e tutti gli avvenimenti che aveva vissuto. La vivisezione. Il sapere che probabilmente qualcuno sarebbe morto. La sensazione di impotenza.
E la voce di sua sorella.

Non hai vinto Sherlock. Hai perso”.
- Sai benissimo che sono qui perché posso aiutarti -  Mary, seduta sulla poltrona, il sorriso sornione in faccia.
- Non capisco come possa farlo una morta – il nervosismo nella voce di Sherlock era palese e fu allora che Mary prese la palla al balzo.
Alzandosi dalla sedia iniziò a camminare nel salotto del 221B, o in quella che era una perfetta riproduzione, all’interno del palazzo mentale del consulente investigativo.

- Come vuoi – iniziò a cantilenare – ma io credo che tu abbia scelto me proprio perché sono morta. Perché non posso darti il mio vero parere. Sì, sono qui, ma in pratica sono te; sai palazzo mentale, proiezione di pensieri e simili –

- Mary -  mormorò Sherlock. Sapeva che quella era una sua proiezione, ma sentirsi dire le cose in faccia risultava comunque difficile per il suo orgoglio.
- Come preferisci. Parla con me allora –
Mary era svanita e al suo posto, attorno alla poltrona di Sherlock Holmes c’era John, lo sguardo leggermente giudicante sull’amico. Sherlock alzò gli occhi al cielo
- Oh per carità – disse.
- D’accordo, puoi parlare con me, giovanotto – la Signora Hudson era apparsa, seduta sul bracciolo della poltrona, mentre picchiettava la spalla di Sherlock con fare materno.
Sherlock Holmes, l’uomo che non conosceva l’incertezza, si chiese se la sua mente si stesse rivoltando contro di lui. Chiuse gli occhi, strizzandoli, nella speranza che la signora Hudson tornasse nella sua mente.

- Giusto, signor Holmes,  meglio lasciare che le signore di una certa età non si occupino di alcune questioni – la voce non era più quella della padrona di casa. Sherlock la riconobbe e riconobbe anche il tocco sulla sua spalla, che non era più neanche lontanamente materno.
- Sono occupato in questo momento – disse mentre scuoteva una mano davanti al volto di Irene Adler, come se questa fosse fatta di fumo e quel semplice gesto potesse farla svanire. Lei scivolò di lato, sparendo dalla vista di Sherlock, ma la visione che ricomparve alla sua destra lo fece irrigidire ancora di più.

- Non dovrei stupirmi che lei sia apparsa prima di me, no? – Molly Hooper  seduta sul bracciolo sorrideva triste, fissando il pavimento.
Sherlock inspirò prima di esclamare a occhi chiusi – Mary!!!! –

Quando li riaprì, la figura sorridenta della bionda lo scrutava, nuovamente seduta sulla poltrona davanti a lui.
- Possiamo restringere il campo sul quale dobbiamo indagare, deduco – disse lei, mentre sollevava dal tavolino posto tra i due una tazza di the fumante, apparso dal nulla.
Sherlock si mosse sulla poltrona, scomodo e a disagio; sì, era nel suo palazzo mentale e quella che aveva danvanti non era la vera Mary, ma solo una proiezione della sua stessa mente, una proiezione di se stesso, con la quale doveva fare i conti e con la quale era difficile scendere a patti. Ci aveva già provato, ma invano. Per questo aveva deciso di personificare quell’insieme di domande, dubbi e angosce che lo tormentavano in Mary Watson. Non perché era morta. Non solo almeno. Aveva scelto lei, perché lei era l’unica persona che aveva conosciuto che poteva capirlo e che non lo avrebbe giudicato, né guardato come se fosse un bambino in cerca di attenzioni, né avrebbe sogghignato, né, per ultimo, poteva schierarsi apertamente dalla parte di qualcuno, se non dalla sua.

Sherlock si alzò dalla poltrona, andando alla finestra e iniziando a suonare il suo violino. Dietro di lui, Mary, tossicchiò per richiamare la sua attenzione.
- Mary... – iniziò il consulente investigativo
-Sherlock nessuno dei due è qui per perdere tempo. Vogliamo affrontare il problema da persone mature o preferisci che al posto mio ci siano mio marito, tuo fratello e perché no, anche quella pazza di tua sorella? Magari lei potrebbe piazzare delle bombe anche qui nella tua testa! – lo interruppe lei, con tono asciutto.
Sherlock continuò a darle le spalle, ma abbassò il capo e sospirò. Nel suo palazzo mentale poteva fuggire da tutto e da tutti ma non da se stesso. Prima o poi avrebbe dovuto affrontare la situazione. Mary attese in silenzio, paziente, che lui si voltasse e iniziasse a parlare.
Di cosa? Nessuno dei due lo sapeva.
Poi la luce nell’appartamento divenne più fioca, il camino si accese in un secondo e in mano ai due comparve un bicchiere di liquore.
Che anche all’interno della sua testa Sherlock Holmes dovesse trovare il coraggio nell’alcool era un fatto di cui non avrebbe parlato con nessuno, neanche nei suoi peggiori incubi, di questo ne era certo. Per un attimo pensò di ritornare alla realtà, di fuggire di nuovo da se stesso e dalle domande che dovevano trovare una risposta, ma poi cercò di usare la logica, la sua alleata più preziosa. Era davvero utile continuare a procrastinare? Non avrebbe portato solo a conseguenze peggiori il rimandare una sana conversazione con se stesso?
Sospirò nuovamente

- Eurus... – iniziò a parlare, ma scoprì che articolare le parole era più difficile del solito.
Mary gli venne in aiuto, poggiando il bicchiere sulla mensola del camino.
- Ti ha sconfitto...? – continuò.
 

Il salotto del 221B lasciò il posto alla fredda stanza dove, su uno schermo attaccato alla parete il volto di Eurus Holmes troneggiava beffardo. Al centro della stanza una bara.
Sherlock dava le spalle allo schermo, Mary davanti a lui, lo guardava attenta.
“Non hai vinto, Sherlock. Hai perso. Guarda cosa le hai fatto. Guarda cosa hai fatto a te stesso. Tutte quelle piccole complesse emozioni, ho perso il conto!”
Mary continuava a guardare l’uomo, in silenzio. Avvertiva il dolore, il fastidio e l’umiliazione e non fermò il consulente investigativo quando lo vide rompere la bara a mani nude e urlare. Faceva male vederlo così. Lui, Sherlock Holmes, l’unico consulente investigativo al mondo. L’uomo che poteva leggere le persone con un solo sguardo e risolvere casi impossibili in una giornata. Il freddo e calcolatore uomo che definiva i sentimenti “un difetto chimico della parte che perde” era stato sconfitto dal sentimento che il resto dell’umanità cercava disperatamente per tutta la vita.

Gli si sedette accanto quando lui, l’inarrivabile Sherlock Holmes si accasciò contro il muro, lo sguardo perso, pieno di dolore e rabbia.
- Ha avuto ragione? Tua sorella, ha avuto ragione? – domandò Mary guardando i pezzi di legno sparsi per la stanza. Con quanta furia aveva colpito quella bara, Sherlock?
- Credo che tu conosca già la risposta – si sforzò di dire Sherlock. Perché parlare gli riusciva così difficile? Perché la sua respirazione si faceva meno profonda, le mani perdevano calore e aveva quella spiacevole sensazione di sudorazione eccessiva?
- Partiamo dall’inizio e capiamo il perché – rimbeccò Mary, come in risposta alla sue domande. Si alzò e gli tese la mano. Sherlock la afferrò saldamente, cercando di tirarsi in piedi. Le sue gambe sembravano legate a due grossi pezzi di cemento talmente tanta era la fatica che aveva nel muoverle.
- Si chiama paura Sherlock – disse Mary mentre lo aiutava a tirarsi in piedi – ti sta paralizzando e l’unica cosa che puoi fare è rivivere tutto questo – indicò la bara in frantumi – ancora e ancora. Spezza il cerchio e dimostra che Sherlock Holmes è in grado di risolvere anche questo caso - .
L’uomo alzò lo sguardo, incrociando quello della bionda. Gli sorrideva tranquilla, ma ferma, come solo lei sapeva essere. 

Con fastidio Sherlocksi rese conto che Mary, nonostante fosse solo una sua proiezione mentale, aveva ragione. La paura, quella sensazione di immobilità, pesantezza degli arti e sudorazione improvvisa mentre lo stomaco si chiudeva e il respiro aumentava, lo aveva colto di sorpresa raramente nella sua vita. A Baskerville era riuscito a capire perché aveva avuto paura, se lo ricordava. Scoprire perché, trovare la motivazione, lo aveva tranquillizzato e di conseguenza, riportare tutto a una condizione logica di causa ed effetto aveva avuto l’effetto di una panacea.
Perché allora non voleva riportare a una condizione logica anche quella situazione? Perché non c’era nulla di logico nelle risposte che poteva trovarsi davanti. Lo sapeva e lo sapeva anche Mary, che non aveva smesso per un secondo di osservarlo.

- Mary – mormorò a mezza voce il detective ma lei lo interruppe prontamente.
- Sarò accanto a te per tutto il tempo se vuoi. Ma devi farlo, Sherlock.  – Il tono di Mary era materno, come se stesse parlando a sua figlia, come le stesse insegnando una lezione importante che non era concesso procrastinare.
Sherlock chiuse gli occhi  e quando li riaprì, si trovò nuovamente davanti allo schermo dove sua sorella Eurus gli mostrava l’appartamento di Molly Hooper, mentre la chiamava.
- Sicuro sia questo l’inizio? – chiese Mary con finta noncuranza.
- Sì, Mary – rispose irritato Sherlock – ne sono sicuro –
- Quindi prima di vedere il video stavi bene? Quando hai scoperto a chi era destinata quella bara, stavi bene? Quando hai appreso che quella bara ci sarebbe stata Molly Hooper, non hai battuto ciglio? Vuoi farmi credere di non averla vista in quella bara, pallida, con gli occhi chiusi, inerme? Io sono te, Sherlock. Siamo nella tua mente e io non sono altro che una tua stupida proiezione. Quindi smettila di fare il bambino che scappa davanti ai suoi problemi e affronta la cosa, perché lasciamelo dire Sherlock, sono stanca di te che ogni notte torni qui, vai davanti alla bara e poi la distruggi urlando, per poi andare a cercare rifugio in qualche angolo sperduto della tua testa dove ci sono tutti i tuoi casi. È sfiancante e lo sai bene. Tu hai bisogno, noi abbiamo bisogno, di affrontare questa cosa. Perché ti è così difficile rivivere quei momenti, Sherlock? –

Sherlock Holmes sospirò un’ennesima volta prima di concedersi il lusso di comunicare, anche se solo a se stesso, le emozioni che aveva provato.
- Senso di vertigine. – ammise con fatica – Ecco cosa ho sentito. Vertigine. E ho sudato. Più scoprivo cose sulla persona alla quale sarebbe stata destinata quella bara più sentivo caldo. Il battito cardiaco è aumentato senza che potessi controllarlo. E nel momento in cui è partita la chiamata ho avuto un momento, un solo secondo, di incertezza su come procedere –
Mary annuì e si voltò in direzione dello schermo, dove comparve Molly, intenta a ignorare lo squillo del telefono e continuare a fare il the.

“Perché non risponde?”
“Tu non rispondi mai”
“Si ma sono io che la sto chiamando”

Le parole rieccheggiarono nella testa di Sherlock. Poi tutto accadde di nuovo, e lui avvertì ancora una volta quella morsa allo stomaco che si faceva più stretta mano a mano che il tempo passava e Molly, al telefono, iniziava a piangere.
Molly si rifiutava di dirgli quelle parole e la morsa si stringeva. Molly che piangeva, un conato di vomito partiva.
Molly che gli chiedeva di dirle per primo, quelle parole e una fastidiosa sensazione di vertigine e freddo lo attanagliava. Non proveniva più dallo stomaco, ma da un poco più su. Nella posizione dove, era certo anche se chiunque con scarse conoscenze anatomiche lo avrebbe dedotto, si trovava il cuore.
La gola si seccava mentre i secondi scorrevano.
“Io.....io ti amo” la fatica con cui lo aveva detto, la sensazione di non potersi muovere, sentire le guance improvvisamente calde, mentre le mani rimanevano gelide, nonostante le avvertisse sudate, lo faceva sentire impotente.

Poi Molly sorrideva, per un secondo. E la morsa allo stomaco diminuiva. Poi tornava, più forte di prima, quasi dolorosa. Il calore dalle guance scompariva, il battito cardiaco aumentava come dopo una lunga corsa in salita e il cervello, il suo cervello infallibile, perdeva il controllo. Contro ogni logica parlava di nuovo, senza balbettare.
Io ti amo
E mentre i secondi passavano sentiva di non riuscire a reggere tutte quelle sensazioni per molto. Voleva urlare, ma non riusciva, voleva scappare, ma le sue gambe erano pesanti come il marmo. Poteva solo implorare.
Molly, ti prego...”
E poi, tra le lacrime, lei lo diceva. Il conto alla rovescia si fermava e lui sentiva come se qualcuno avesse tolto un macigno dal suo petto. Il respiro tornava regolare, il battito cardiaco diminuiva e sentiva le sue mani riprendere calore.

- Questo – dichiarò Mary dietro di lui – si chiama sollievo –
- Certo che è sollievo, ho impedito che Molly venisse uccisa davanti ai miei occhi – rispose Sherlock. Chiuse gli occhi e quando li riaprì lui e la sua defunta amica si ritrovarono di nuovo nel suo salotto  a Baker Street. Sherlock si sedette sulla poltrona, sentiva il bisogno di sedersi di avere un appoggio. Mary restò in piedi davanti a lui.
- Pensavi di averla salvata, Sherlock. Tua sorella ti ha prontamente corretto o sbaglio? – domandò.
La voce di Eurus risuonò tra i due “Non hai vinto, Sherlock. Hai perso. Guarda cosa le hai fatto, guarda cosa hai fatto a te stesso. Tutte quelle piccole emozioni, ho perso il conto”.
- Basta! – tuonò il consulente investigativo. Sperava di portare pace ma il suono di uno schiaffo, il dolore sulla sua guancia, gli fecero capire come lui stesso si riteneva un perfetto idiota. Mary lo fissava, con la mano ancora a mezz’aria in segno di minaccia, come avrebbe fatto con sua figlia, se fosse vissuta abbastanza da fare qualche litigata con lei per motivi futili probabilmente.
Non poté impedire che l’immagine di Mary arrabbiata si sovrapponesse al ricordo di Molly, che nel suo laboratorio, lo schiaffeggiava ripetutamente, lo sguardo furente e pieno di delusione.
Sherlock si passò una mano tra i capelli, sospirando, consapevole che da quella battaglia con se stesso ne sarebbe uscito sconfitto, qualsiasi strategia avrebbe adottato.
Doveva fare i conti con  Mary, con Molly e con la sua logica, che rifiutava in ogni modo di analizzare i suoi comportamenti.

- Non erano così tante le emozioni che aveva visto Eurus. Non così tante come avrebbe voluto almeno – disse l’uomo, sottovoce, sconfitto. Mary allora sostituì la sua espressione severa con un sorriso, caldo, sedendosi sul tavolino davanti a Sherlock, poggiandogli una mano sul ginocchio.
- Quante erano? – chiese allora con pacatezza la bionda
- Due o tre emozioni semplici, se poi vuoi analizzare tutte le fase di ognuna di esse, allora possono diventare qualcuna in più. – rispose vagamente l’uomo agitando la mano in aria

- I nomi, Sherlock. Quelle emozioni, nominale – disse Mary, la presa sul ginocchio era salda ma allo stesso tempo rassicurante.
La secchezza alla bocca era tornata, ma Sherlock decise di ignorarla. Prese un sospiro e inizò a parlare. Fu sollevato nel sentire che anche Mary parlava insieme a lui. Ovviamente parlava insieme a lui, pernsò, non era la vera Mary. Erano nel suo palazzo mentale, era solo una proiezione di se stesso, di un suo lato della personalità.

- Ansia. Preoccupazione. Paura. – dissero insieme. Poi Sherlock si fermò ma Mary continuò, calma, con tono neutro, senza giudicare.
- Terrore. Realizzazione. Indecisione – poi sorrise – in realtà l’indecisione la stai provando adesso, ma possiamo considerarla una conseguenza della realizzazione –
Sherlock la guardò confuso, intuendo già dove sarebbe andata a parare. La bionda si alzò e riprese a camminare nel salotto continuando a parlare.
- Sherlock eri terrorizzato all’idea di vedere saltare in aria la casa di Molly, l’hai implorata! – esclamò con veemenza, mentre poggiava i palmi delle mani sulla scrivania.
Improvvisamente davanti agli occhi del detective apparvero due figure, lui più giovane di qualche anno intento a decifrare un banale codice e accanto a lui, i capelli lunghi sciolti, ancora umidi, avvolta in una vestaglia, Irene Alder che lo guardava con malizia.

“Vorrei prenderla adesso fino a farle implorare pietà, due volte”
“Io non imploro mai pietà”
“Due volte”

Chiuse gli occhi e se Mary non avesse parlato nuovamente, non li avrebbe aperti per ore.
- E diamo il benvenuto all’indecisione – annunciò con voce cristallina.
Sherlock si alzò di scatto dalla poltrona e in un paio di falcate raggiunse Mary, la frustazione era visibile sul suo volto ed era palese che non avrebbe retto ancora per molto quel confronto con Mary/Grillo Parlante.
- Indecisione su cosa, di grazia? – chiese cercando di contenersi, anche se il suo tono di voce tradiva un certo nervosismo – Su come devo “implorare” le persone? O su come non farmi prendere dal panico all’idea di assistere alla morte di una persona cara per mano di mia sorella senza poter far nulla a riguardo? O al pensiero di essere il responsabile della morte di Molly Hooper? – il tono di voce si alzava sempre di più.
- O al fatto che quelle tre parole che hai detto ti hanno messo davanti al fatto che sei fatto di carne e sangue? – lo interruppe Mary -  o che il grande Sherlock Holmes, l’uomo che rifugge i sentimenti, che li considera un difetto chimico della parte che perde, si è scoperto perdente? Anzi no questa non è una domanda, è una certezza, Sherlock. Lo sai, lo sanno tutti, anche John se ne sarà reso conto! – si avvicinò di un passo all’uomo, fronteggiandolo. – Il problema, Sherlock – riprese con una calma esasperante – è che, come se fossi un adolescente, non hai ancora capito chi ha vinto. O sbaglio? –

I due si fissarono in silenzio, rabbiosi, a distanza di pochi centimetri. Sherlock fu il primo a distogliere lo sguardo, abbassando il capo e iniziando a ridere. Un suono caldo, direttamente dalla gola, che aumentava di intensità a mano a mano.
- E come sei arrivata a queste brillanti deduzioni, Mary? – domandò dandole le spalle.
La voce che rispose non fu quella dell’amica ma quella della sorella. Quando si voltò la vide, nella sua cella, mentre gli diceva le stesse parole che gli aveva rivolto quando l’aveva vista a Sherrinford.
“Suona te”
E lui non aveva bisogno di rivivere nulla. Ricordava come aveva impugnato il violino e suonato “lui”, la melodia che aveva composto appositamente per lei, per la Donna.
Chiuse gli occhi di nuovo e con un grugno scacciò l’immagine di sua sorella.
- Ho capito, ho capito! – esclamò – e come so chi vince eh Mary? Chi ha vinto? –
- Non lo so! –

L’esclamazione gli gelò il sangue nelle vene. Voltandosi, Sherlock non vide più Mary, ma se stesso. Come se fosse davanti a uno specchio, poteva riconoscre la sua persona, frustrata e stanca quanto lui che lo guardava, le spalle basse e le mani rivolte verso l’alto, in segno di resa.
- Non lo sappiamo. E dobbiamo capirlo, Sherlock. – gli disse il suo riflesso.

 
- Sherlock.....Sherlock! – lo chiamò John, la piccola Rosie in braccio mentre correva in cucina.       – Sherlock dovevi controllare che il latte di Rosie non bruciasse, cosa hai combinato? – lo rimproverò mentre spegneva il fornello e cercava di calmare un inzio di pianto della figlia.
Sherlock, seduto sulla sua poltrona rimase immobile per alcuni secondi.

- Un caso. Due indiziati, tre vittime. Gli indiziati sono due delle tre vittime.  – proclamò alzandosi, andando verso la finestra con passo sicuro.
John cambiò la spalla di appoggio della piccola Rosie, mentre lo raggiungeva in salotto.
- Causa della morte? – chiese, contento di vedere l’amico focalizzarsi su un nuovo caso, dopo gli avvenimenti di Sherrinford.
- Non ci sono morti – replicò allegro Sherlock, gli occhi fissi oltre la finestra, su quello che accadeva in strada – né feriti o moribondi. Anche se le vittime sono accertate.  –
John si sedette sulla sua poltrona, in attesa dell’amico. Per quanto la sua mente non fosse quella del grande Sherlock Holmes, l’abitudine, la  conoscenza e l’affetto che si era creato, gli permetteva di intuire quando il detective chiedeva aiuto.
- Parli di te e i tuoi fratelli vero? Tu, Mycroft e tua sorella, Euros. – disse sospirando – per questo siete in tre a soffrire, giusto? –
Sherlock si voltò stupito. Stupito dal fatto che gli importava relativamente di suo fratello in quel momento e stupito da come John Watson potesse avere una mente così semplice e poco allenata alla logica.
Sospirò mentre riprendeva posto sulla poltrona – Supponiamo, John, che tu abbia ragione. Analizza la situazione e dammi un tuo parere –
Il medico militare sorrise vittorioso, mentre iniziava a esplicare la sua deduzione dei fatti – Siete tre vittime. Tu, Mycroft ed Eurus, perché inevitabilmente soffrite. Insomma lei è rinchiusa, Mycroft ha tenuto il segreto con chiunque e tu hai riscritto i tuoi ricordi. Ma tu ti vedi anche come uno dei carnefici, uno degli indiziati come dici, perché non puoi fare nulla per tua sorella. Bhe, Sherlock, non è colpa tua. Nè sua. Nè di Mycroft se vogliamo essere del tutto onesti. Purtoppo, con le questioni di famiglia, non si smette di soffrire, ce le portiamo dentro, ci marchiano e saranno parte di noi. Puoi decidere di soffrire meno e tagliare del tutto le comunicazioni con uno dei tuoi due fratelli, o puoi invece affrontare la cosa e parlare. Con la tua famiglia, con me, con chiunque. E se proprio non sai cosa fare, prova a pensare “di cosa ho bisogno?” –
Lo sguardo di John era accorato, la sua postura dritta e rigida, tradiva un po’ di vanità nell’aver dato un consiglio a Sherlock su un argomento così “umano come la famiglia”.
Sherlock chiuse gli occhi, accanto a sé comparve Mary, che seduta sul bracciolo della poltrona scuoteva la testa
- Mio marito è così lento senza di me! – disse ridendo e facendo ridere anche Sherlock.
- Oh John, dev’essere così rilassante essere te – replicò l’amico prima di alzarsi e andare a chiudersi in camera sua.
John guardò la figlia  - Sì, Rosie, lui è il tuo padrino. Potrai rinfacciarmi la cosa quando sarai grande – disse.

 
Nonostante l’amico non avesse minimamente intuito l’argomento di interesse, Sherlock si mise a riflettere a occhi chiusi su quello che gli era stato detto. Mentre cercava di pensare però, notò con disappunto come il suo palazzo mentale iniziasse a essere troppo popolato.
Si trovò d’un tratto in un laboratorio, che riconobbe subito come quello del Bart’s. Davanti a lui, la figura di sua sorella Eurus che rideva trionfante :
- Contesto emotivo, Sherlock, ti distrugge ogni volta – gli diceva suadente.
Dietro di lei Molly Hooper lo guardava preoccupata, come la notte in cui lui le aveva chiesto aiuto, falsificando la sua morte: - Di cosa hai bisogno? – chiedeva nervosa.
Sherlock chiuse gli occhi agitando una mano davanti al viso, come a cercare di cacciare l’immagine, ma quando li riaprì si trovò seduto sulla sua poltrona di Baker Strret e Irene Adler davanti a lui che lo guardava e gli sussurrava: - Se questa fosse la sua ultima notte prima della fine del mondo, cenerebbe con me? –
Sherlock urlò di frustazione mentre la sua testa si riempiva di frasi. Rimpianse di avere accettato di non fare uso di droghe, probabilmente avrebbee dovuto tenere nascoste almeno un paio di dosi.

“Contesto emotivo Sherlock...”
“Cenerebbe con me?”
“Di cosa hai bisogno?”
“La prenderei qui su questo tavolo, fino a farla implorare pietà, due volte”
“ Io non imploro mai”
“Ho vinto Eurus.”      
“I sentimenti, i sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde”
“ Voglio che mi ricordi così, signor Holmes, come la donna che l’ha battuta”
“Dillo prima tu. Come se fosse vero”
“Non hai vinto, hai perso”
“Di cosa hai bisogno?”
“La Donna. L’unica donna”
“Ti distrugge ogni volta”
“Tu conti. Hai sempre contato e mi sono sempre fidato di te”
“Guarda cosa le hai fatto. Guarda cosa hai fatto a te stesso”
“ Come osi tradire la fiducia dei tuoi amici? Chiedi scusa!”
“Essere intelligenti è essere sexy”
“Di cosa hai bisogno?”
“Io mi considero sposato con il mio lavoro”
“Tutte quelle piccole emozioni, ho perso il conto”
“Non chiedo mai pietà”
“Ti prego non riagganciare”
“...ti distrugge ogni volta”
“Di cosa hai bisogno?”
 
- Silenzio! – tuonò Jhon entrando nella stanza, con in braccio la figlia in preda a un pianto sfrenato.
Sherlock lo guardò stralunato, ma in un certo senso grato di essere tornato alla realtà.
- Non so cosa ti sia preso oggi – continuò il dottor Watson – ma non puoi continuare a urlare “Di cosa hai bisogno?”, stai spaventando Rosie e irritando me! –
- Hai ragione, perdonami John – disse il detective. Poi in silenziò prese il suo cappotto e uscì di casa.
Jhon, dopo aver calmato sua figlia la fissò con aria rassegnata – L’idea di fargli fare da padrino è stata di tua madre – le disse mentre la cullava.
 
 
Le luci dell’appartamento erano accese, segno della presenza della padrona di casa. I passi rapidi che sentì quando suonò il campanello, diedero la conferma a Sherlock che non c’era nessun altro in casa. Passi piccoli, veloci, di piedi avvolti in un paio di calze morbide, probabilmente antischivolo. Nessuna donna, per quanto poco lui ne capisse, sopra i sette anni indossava le calze antiscivolo davanti a degli ospiti.
Un breve silenzio prima di avvertire il suono del chiavistello girare e la porta aprirsi.

- Non mi aspettavo di verderti – disse una visibilmente imbarazzata Molly Hooper.
- Facilmente deducibile dal tuo abbilgliamento – rispose Sherlock con un mezzo sorriso. Molly abbassò lo sguardo sulla sua felpa oversize slavata e i pantaloni a quadri larghi, probabilmente il suo pigiama. I capelli sciolti le ricadevano sulle spalle ordinati – Non mi fai entrare? – chiese ammorbidendo il tono. Molly lo fissò, fiera e leggermente giudicante
- Di cosa hai bisogno, Sherlock? – domandò allo stesso tempo dura ma insicura. Era palese che ci fosse della tensione dopo quella telefonata che lei malediceva ogni minuto.

Sherlock la fissò. Ancora quella domanda. Senza dare una risposta né un invito, superò la donna, entrando in casa sua.
-  Non sono un uomo socievole – iniziò a parlare velocemente – anzì come ben sai sono un sociopatico. Analizzo le persone e le considero praticamente tutte stupide, dal momento che ragionano con tutto tranne che con il cervello, a volte mi chiedo perché lo abbiano, ma soprassediamo. Sono arrogante, difficilmente riconosco le emozioni umane e penso che chiunque agisca unicamente guidato dall’isinto poco più di un futuro cadavere su cui fare esami. Ferisco le persone che mi sono vicine, trovo dello svago nel risolvere crimini a un primo sguardo assurdi. Mi piacciono le sfide, mi eccitano le sfide, mi ha divertito particolamernte trovare un avversario degno del mio livello, che mi spingesse verso il mio limite –

- Sono morte delle persone, per non parlare del fatto che hai dovuto fingere la tua stessa morte! – esclamò Molly, chiudendo la porta e raggiungendolo

- Non interrompermi – replicò l’uomo – l’idea di avere davanti a me un avversario degno di me mi ha sempre intrigato. Giocare a un gioco con degli avversari degni – rallentò – con delle avversarie che mi mettessero in difficoltà mi è sempre piaciuto, mi distraeva dalla routine quotidiana – prese un profondo respiro e fissò Molly, davanti a lui, nervosa e incredula di quella situazione.

- Sherlock, di cosa hai bisogno? – domandò ancora una volta Molly.
- Di smettere di giocare – rispose lui.
- Bhe, sarebbe meglio che tu lo faccia prima che altre persone rimangano ferite – sussurrò lei, riempiendo quelle parole di tutto il dolore che aveva tenuto taciuto.

Sherlock si avvicinò ulteriormente alla donna, fino a sovrastarla con la propria statura. – Non sono un uomo piacevole. Non porto felicità. Ho causato dolore...e morte.... e dovrò convivere con tutto questo. Le persone che mi stanno vicino corrono rischi. E li correranno per sempre. Non ho metodi gentili, non li avrò mai. Sarò sempre attratto dal rischio, dal pericolo e dalle sfide impossibili, ma nonostante....ma proprio per questo Molly, ho bisogno di te –
Molly trattenne il fiato, cercando di rimanere lucida e presente a se stessa. Quel discorso doveva portare a un punto fisso diverso da quello a cui stava pensando e sperando.
- Quella telefonata..... Eurus, quando tu mi hai detto....quello che hai detto... lei....ha parlato di contesto emotivo, di come avessi perso, le emozioni....perché le emozioni sono chi perde....e anche io lo pensavo, perché confondono, e ti fanno perdere...ma io dovevo....e continuo a pensare e non riesco a capire...non riuscivo... –
Molly si concesse un breve sorriso alla vista di Sherlock Holmes confuso. Si alzò sulle punte dei piedi e gli posò un leggero bacio sulla guancia, come quelli che lui le aveva dato. Un gesto fatto impulsivamente per cercare di calmare la tensione di entrambi e perché, inutile negarlo, voleva farlo da quando era arrivato.
- Io credo che tu abbia bisogno di un the caldo e di un sonno ristoratore. Dopo penseremo a quello di cui io ho bisogno, cioè una spiegazione sensata – disse Molly mentre si dirigeva verso la cucina per mettere a bollire dell’acqua. Nonostante la situazione rimanesse ancora delicata, non poteva fare a meno di sorridere, capendo la difficoltà di Sherlock nel parlare di emozioni, mentre nella sua testa rieccheggiava la frase che le era stata detta pochi minuti prima “Ho bisogno di te”.
Dal salotto la voce di Sherlock rieccheggiò: - Che ne dici se prima accetto l’offerta del sonno e rimandiamo il the e la spiegazione a domani? –
Molly tornò indietro, rapidamente superò Sherlock e si infilò in camera sua, uscendone con un cuscino, e delle coperte. Le porse a Sherlock, cercando di rimanere impassibile
- La stanza degli ospiti ti attende. – Sherlock Holmes non recepiì il messaggio ed entrò nella camera da letto della donna. Sotto lo sguardo incredulo di lei si tolse la giacca e le scarpe e si distese sul letto. Si addormentò quasi subito, per la prima volta dopo giorni, sereno.
Molly sospirò e tornò in salotto. Prese in braccio il suo gatto e accese la tv. Quella sarebbe stata una lunga notte di attesa. Per una volta però, quell’attesa non la turbava.

 
Eccomi!!! Dunque, ringrazio chiunque abbia retto fino alla fine. Pensavo sarebbe stata una storia molto più corta, ma i personaggi sono andati un po’ per conto loro e dopo un po’ non riuscivo a trovare un modo per finirla senza troncarla a metà. Quindi ecco, il finale non mi convince moltissimo, ma avrei continuato a scrivere altre venti pagine!
Ovviamente mi farebbe estremamente piacere sapere se ho scrito un completo pastrocchio o meno, ho cercato di tenere una linea, ma entrare nella testa di qualcuno non è mai facile, soprattutto se quel qualcuno è Sherlock Holmes. :D
Grazie ancora a tutti e alla prossima!
  
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