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Autore: Yusaki    26/05/2017    1 recensioni
In un mondo in cui gli Dei creano per aver poi il piacere di distruggere, l'amore tra una sirena e il Re degli uomini finirà per essere la loro condanna.
Storia partecipante al contest "Echi dell’occulto” Indetto da Dollarbaby sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Un canto per il Dio”

 

 

 

Nella notte non era la luna l’unica a svegliarsi.

Quando il sole cominciava la sua discesa, e il lago si tingeva di arancione, si potevano scorgere veli bianchi, e rossi, e blu nell’acqua limpida, come enormi meduse che danzassero per dare il benvenuto all’oscurità rinfrescante.

Quella danza era di una tale bellezza che si diceva fossero stati gli stessi Dei a inventarla. Tanto splendore, naturalmente, era dovuta a un motivo, lo stesso per il quale nessuno del vicino villaggio umano di Grete si avvicinava alle acque dopo il calar del sole.

Nessuno, tranne il Re del suddetto villaggio, futuro sovrano di tutti e due i Regni se fosse riuscito a resistere ai tormenti che le divinità gli imponevano ogni giorno… e forse anche se non ci fosse riuscito. Non era stato il primo sovrano pazzo che avrebbero avuto, né l’ultimo.

Il Re sedeva ogni notte su una delle rocce piatte che circondavano il lago. Non guardava la danza dei veli, che le sirene imbastivano per attirare gli sventurati nell’acqua, perché la bellezza di quei corpi perfetti che scintillavano attraverso l’acqua e i veli non gli interessava. I suoi occhi erano rivolti verso l’alto, all’unica cosa che, con la sua tiepida luce, gli recava conforto: la luna.

 

 

Le Sirene erano state create perfette. La divinità dall’Eterno Sorriso aveva donato loro occhi d’ebano e plasmato con le proprie mani ogni curva, per poi donare loro una vita d’acqua e sangue: era stato il suo scherzo agli umani, che tanto meschini erano sempre parsi ai suoi occhi. Vederli affogare nel tentativo di afferrare le sue sorridenti, tentatrici creature, lo divertiva oltremodo.

Lif era abituata a danzare e ferire, la sua veste era color dell’argento, i suoi capelli color del miele, ed entrambi si tingevano di rosso quando cacciava. Dall’acqua si levavano i suoi dolci canti, che attiravano quegli sfortunati viaggiatori di passaggio, riempiendoli di un fremito caldo, un desiderio che poteva essere placato solo tra le sue braccia.

Creata per mostrare la sua bellezza, come tutte le sue sorelle e tutti i suoi fratelli… ma quella volta era diverso, aveva quasi paura a mostrarsi all’uomo del villaggio che ogni notte si recava al lago. Gli gettava appena timidi sguardi attraverso la rete, e poi ne parlava, ne parlava, ma solo all’acqua, bolle e increspature che custodivano il suo segreto. Il silenzio sotto il lago.

Più di tutto aveva paura. Il suo canto sarebbe mai stato abbastanza bello per quell’uomo, che splendeva nella notte ammirando la luna? La luna, così lontana da loro e così diversa da qualsiasi sirena. Come avrebbe mai potuto desiderarla, quell’uomo, l’amante della notte?

Entrambi sotto la luce, ma quella che colpiva lei tremolava nell’acqua. E le piccole increspature erano un richiamo, che rischiava ogni volta di renderla visibile.


Lif iniziò, un giorno, con un canto sommesso, così delicato da far pensare a quell’uomo che fosse solo il rumore della brezza sull’acqua. L’uomo non parve sentirla, ma a lei andava bene così perché aveva quasi paura che lui abbassasse infine lo sguardo e la vedesse.

Continuò a cantare “del vento leggero” e alla quinta notte delle piccole rughe si dipinsero attorno agli occhi dell’uomo, come un inizio di sorriso, ma ancora guardava la luna e non si era accorto di lei.

Lif iniziò pian piano a cantare più forte. Divenne il mormorio dei rami dei ciliegi, che contornavano il lago, poi il cupo canto degli uccelli notturni, anche loro in caccia dopo il calar del sole. Cantò come cantava il lago quando la pioggia lo colpiva, e cantò come i fulmini che una volta avevano incendiato il bosco. Ma fu solo quando cominciò a mormorare una melodia umana, che aveva sentito intonare dai pescatori, che l’uomo abbassò lo sguardo.

Le parole della canzone, che conosceva a metà, le si bloccarono in gola. Gli occhi di quell’uomo erano d’argento.

«La parola giusta è “Sale”. “La nostra neve sarà il sale”, non il “sole”» l’uomo le sorrise. Nonostante l’avesse sentita cantare, e nonostante l’abito bianco aderisse ai suoi seni, facendoli sembrare nudi, non c’era traccia di lussuria nei suoi occhi.

«Vorrei che mi insegnassi quella canzone», mormorò Lif.

«Con piacere, se prometti di non mangiarmi», non sembrava temerla davvero, ma, dopotutto, chi ha a che fare con gli Dei teme poche cose.

Lif annuì e quella notte fu l’uomo a cantare per lei.

 

Il Dio dell’Eterno Sorriso rise fin quasi alle lacrime (se solo fosse stato capace di piangere…) quando Re Embla gli disse di aver incontrato una sirena, e di aver cantato assieme a lei per tutta la notte.

«Se ti farai uccidere per noi sarà solo un vantaggio», disse il Dio. «Io e i miei cinque fratelli saremo allora liberi di imperversare per il mondo».

«Ha promesso di non uccidermi e poi… credo che stiamo facendo amicizia», rispose Embla, con un mezzo sorriso.

«Amicizia! Le Sirene non sono fatte per quel genere di amore. Per nessun genere di amore, in realtà. E credimi, io lo so bene: le ho create».

La luna pareva essere diventata più luminosa nel cielo che andava scurendosi. Embla voltò le spalle al Dio, per tornare al lago, dove lo attendeva la sua canzone.

 

La sua canzone lo portò, infine, all’amore. Embla tese le proprie mani alla sirena, lasciò che si avvicinasse a lui e che si sostenesse aggrappandosi ai suoi vestiti. Pur possedendo delle gambe, Lif non camminava spesso fuori dall’acqua, in quanto per le sirene il rischio di morire sulla terra era alto. Incontrandosi di notte, non vi era il sole a seccarle la pelle, e poté rimanere fuori, seduta sul masso, ad ammirare la luna con Embla.

Il Dio dell’Eterno Sorriso li osservava da lontano, pregustando l’imminente disfatta che quel giovane sovrano avrebbe subito.

 

Eppure non andò come il Dio aveva pensato.

 

Embla e Lif si carezzarono, baciarono, morsero, amarono… e non una sola volta lei tentò di fargli del male, e non una sola volta lui ebbe paura degli scintillanti denti appuntiti di lei. Le forti mani umani, fatte per strangolare le sirene, furono dolci nel stringere i fianchi di Lif. I denti aguzzi delle sirene, fatti per strappare la carne degli umani, furono delicati sul collo di Embla.

E tutto andava per il verso più dolce, fino a quando gli altri non rovinarono la fiaba.

 

«Le sirene non possono amare!»

«Sono dei mostri, sporchi portatori di morte».

«Ti farai uccidere! Ci porterai alla rovina! Chi ci difenderà dagli Dei quando lei ti avrà lacerato la gola?»

Le stesse parole del Dio uscivano ora da più e più bocche umane, quelle del popolo di Embla, che guardava il proprio Re ergersi sulle scalinate della propria dimora.

Lif se ne stava un poco in disparte, al riparo dietro di lui, circondata di veli bagnati che avrebbero impedito al suo corpo di seccarsi troppo in fretta. Stringeva al petto qualcosa, nascondendolo con stoffe poco più che umide.

«Vi sembra pericoloso?»

Mentre pronunciava queste parole, Embla si avvicinò a Lif. Con dolcezza, le tolse ciò che aveva tre le braccia.

«Guardatelo e ditemi, vi sembra pericoloso?»

Parve che un vento freddo avesse percorso la piazza, portando via le parole della gente e congelando il loro respiro.
Un neonato riposava tra le mani di Embla, un neonato dalla pelle ambrata e soffice come seta.

«Lui è mio figlio. Mio e di Lif. Il figlio degli umani, e delle sirene».

Il silenzio terribile che ne seguì fu infranto da un tonfo. Embla si voltò, e vide una pietra rotolare vicino al suo piede.

Ne seguì un’altra e un brusio si levò per la piazza, un suono rabbioso che si trasformò in urla. Embla volse la schiena e trasse a sé Lif, proteggendo lei e il bambino, e attese il dolore di quelle pietre che cominciavano a cadere…

Il dolore non venne.

Si sentì sfiorare la schiena, il calore di un altro corpo, e la piazza farsi di nuovo silenziosa. Embla si volse e davanti a lui vide la familiare sagoma del Dio dell’Eterno Sorriso, che gli dava la schiena, fronteggiando la piazza.

Poi ci fu il sangue.

Dal nulla i vestiti della gente si lacerarono, la carne si spaccò sui loro petti, come se fossero stati colpiti da invisibili colpi di spada. E ancora, e ancora ferite fiorirono sul loro petto, creando disegni di un cremisi intenso.

«Fermo! FERMO!» Embla si mise a urlare, afferrando il Dio, cercando di scuotere quella forma statuaria.

«Non hanno bisogno di un cuore che non sanno usare», la voce del Dio era un canto, ma di metallo, della legna che crepita e scrocchia quando il fuoco la consuma. «Dunque io glielo toglierò del tutto».

Le ferite degli agonizzanti abitanti di Grete si fecero più profonde, le urla più alte.

«FERMO

Il Dio si volse. La rabbia deformava il suo viso, rendendo terribile il sorriso che le sue labbra ancora formavano. Nei suoi occhi d’ebano c’era il dolore della gente, che si inginocchiava e pregava, e cadeva, ma nessuna pietà.

Un ultima ondata del suo potere e nessuno fu più in grado di reggersi in piedi. Tutto tacque, e nella quiete il Dio udì le risate dei suoi fratelli, che dall’alto osservavano la scena.

 

«Vuoi tenerlo?»

La domanda prese di sorpresa il Dio.

Embla riuscì a sorridere, seppur il suo viso fosse ancora segnato dalla preoccupazione. Delle piccole rughe cominciavano a disegnarsi sulla sua pelle, nonostante fosse così giovane. Lif riposava accanto a lui, il corpo immerso nella vasca d’acqua, perfetta e immutabile.

«Vuoi tenere il bambino?» domandò ancora il Re.

«Io non…» cominciò a dire il Dio, ma Embla gli aveva già messo tra le braccia la piccola creatura. Il bambino era morbido come seta, e non appena fu tra le sue braccia aprì gli occhi, rivelando iridi di un intenso argento, come quelle del padre. Il piccolo gli sorrise, scoprendo piccoli denti acuminati, come quelli della madre e come quelli del Dio…

Il Dio non sapeva come tenerlo o cosa farci. Quella doveva essere la punizione di Embla per quello che lui aveva fatto alla gente del suo villaggio natio.

«Se vuoi saperlo, non ci sono stati morti tra la gente di Grete», comunicò Embla, quasi avesse letto i suoi pensieri attraverso l’impassibile viso del Dio, che non commentò quella notizia in alcun modo.

«Non dovrai più fare una cosa simile per proteggerci», sussurrò allora Embla.

Il Dio lo guardò.

«Non c’è bisogno di preoccuparsi», disse. «Noi Dei non siamo fatti per proteggere, né per amare» e diede di nuovo a Embla il bambino, prima di voltarsi e sparire.

 

«Quindi è qui che la storia si è svolta», il giovane lasciò che l’acqua bagnasse i suoi piedi, mentre camminava scalzo. La luce della luna illuminava la sua pelle d’ambra, strappava riflessi ai capelli scuri e sembrava fondersi con i suoi occhi d’argento; la lunga veste bianca era zuppa e pesava, ma lui non sembrava farci caso.

«Qui è cominciata», lo corresse il Dio dell’Eterno Sorriso. «Domani la corona verrà posta sulla testa di tuo padre. Embla diventerà ufficialmente il Re di entrambi i Regni, e i poteri degli Dei saranno sotto il suo controllo. Prima di quel momento, volevo che vedessi l’inizio della storia…».

«Quindi tu hai salvato mio Padre e mia Madre perché ti sei affezionato a loro e alla loro bella storia?»

Il Dio si alzò.

Camminò lentamente verso il ragazzo, e quando fu davanti a lui prese il suo viso tra le mani. Nello sguardo del giovane non vi era paura, perché difficilmente chi ha a che fare con gli Dei può aver paura.

«Li ho salvati perché le sirene non potevano amare, e ora amano. Li ho salvati perché gli Dei non possono amare, ma ora io… amo te».

Il Dio si chinò fino a toccare le labbra del ragazzo con le sue. Lo tenne stretto a sé, mentre il suo vestito bianco iniziava a tingersi di rosso e le sue gambe a tremare.

Quando lo lasciò andare il ragazzo cadde all’indietro, con dolcezza, nell’acqua limpida del lago. Il suo corpo galleggiò, portato via dalle piccole onde che il vento, o forse il Dio, avevano creato. I suoi occhi d’argento erano spalancati e fissi sulla luna.

«Ma guarda… allora non sei cambiato, bugiardo senza cuore!» una voce sorse dal nulla. Cinque figure sostavano al suo fianco, tutte osservavano quel corpo mortale la cui voce si era spenta.

Il Dio dell’Eterno sorriso rimase in silenzio fino a quando il corpo dell’amato non fu affondato nell’acqua. Presto il rosso del sangue si sarebbe espanso, fino a diventare solo una nuova parte dell’acqua, i pesci e le sirene l’avrebbero assorbito e il lago sarebbe tornato come un tempo.

L’acqua, che non aveva memoria, sarebbe rimasta per sempre limpida.

«Con questo sangue, io condanno i due popoli a unirsi», il Dio dall’Eterno Sorriso chiuse gli occhi. «Dall’unione delle Sirene e degli Uomini nascerà una nuova razza, e io condanno anche questa nuova razza, la condanno all’essere il nuovo scudo del Re che verrà; saranno la sua protezione, a costo delle loro stesse vite».

«Bah, ormai almeno Embla è morto», la figura alla sua destra sorrise. «E noi siamo liberi di imperversare per il mondo».

«Per fortuna, questo lui non potrà mai saperlo», lui riposava ormai sul fondo del lago. «L’ho portato via prima che sapesse della morte di suo padre e di sua madre».

I fratelli del Dio dell’Eterno Sorriso risero, sparendo uno a uno, ognuno diretto in una parte diversa del mondo, ognuno pronto a portare sventura a una delle razze che le loro stesse mani avevano creato.

«E condanno voi, fratelli», il sussurro del Dio dell’Eterno Sorriso carezzò l’acqua. «Vi condanno a non poter più uccidere un Re, perché d’ora in avanti ogni figlio di Sirena e Umano che nascerà sarà da voi amato e il dolore che proverete nel ferirli sarà così straziante da ridarmi, finalmente, il mio sorriso…»

 

  
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