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Autore: linguadigatto    29/05/2017    1 recensioni
S’inginocchiò solennemente sui fogli di giornale che aveva steso a terra; chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio respiro, così come aveva imparato a fare grazie al manuale di meditazione che aveva studiato poco tempo prima. Le pareti rosate del bagno che la circondavano scomparirono; rimase da sola con il suo corpo. Era arrivato il momento di iniziare: appoggiò le unghie sulla pelle morbida sotto la cassa toracica ed iniziò a scavare.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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S’inginocchiò solennemente sui fogli di giornale che aveva steso a terra; chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio respiro, così come aveva imparato a fare grazie al manuale di meditazione che aveva studiato poco tempo prima. Le pareti rosate del bagno che la circondavano scomparirono; rimase da sola con il suo corpo. Era arrivato il momento di iniziare: appoggiò le unghie sulla pelle morbida sotto la cassa toracica ed iniziò a scavare.

Erano ormai passati diciassette anni da quando, durante un bagno in mare, aveva ingoiato una boccata d’acqua salata e sabbiosa, sollevata dal fondale da un’ondata improvvisa e violenta. Se n’era resa conto dopo poche ore, prima ancora di lasciare la spiaggia: un piccolo granello era riuscito miracolosamente a sfuggire al suo sistema digerente e a depositarsi indisturbato in qualche interstizio tra i suo organi. Era una microscopica e curiosa irritazione, appena percepibile. L’aveva detto a sua madre, che le aveva consigliato, con serena condiscendenza, di smettere di dire stupidaggini. Il medico di famiglia aveva ribadito il concetto, soltanto usando parole più eleganti. Aveva provato a seguire i loro consigli, a non pensarci più, ma non riusciva in nessun modo ad ignorare la misteriosa sensazione di prurito che le arrivava, confusa ed indistinta, dai recessi più profondi del suo corpo. Ogni tanto aveva provato a raccontare della propria situazione ad un amico che le era parso particolarmente comprensivo, ma nessuno le aveva mai creduto. Si trattava, per tutti loro, di un’assurdità senza fondamento. Nessun libro di biologia ne parlava, nessun luminare della scienza aveva mai vinto un premio a riguardo. Sviluppò una gran passione per le conchiglie: ne collezionava di ogni foggia e specie. La sua preferita era una piccola ostrica; non si stancava mai di osservarne le valve, brutte e rugose all’esterno e lisce e luminescenti all’interno. Erano ormai passati parecchi anni dall’ultima volta che si era confessata con qualcuno: sua madre raccontava divertita di quel giorno sulla riva del mare come se si trattasse di un esempio di infantile stranezza. Ogni notte, tuttavia, quando si coricava, ella sentiva senza ombra di dubbio che c’era qualcosa incastrato nel poco spazio disponibile tra un organo e l’altro, come una goccia che cadesse da un rubinetto ad intervalli regolari in una stanza gigantesca, generando un eco deformato e reso irriconoscibile dalla distanza. Non la lasciava dormire e le rendeva difficile concentrarsi nel perfetto silenzio. Non sopportava le biblioteche, le chiese e i musei; restare a casa da sola la riempiva di un’insopprimibile irrequietezza. Soltanto il continuo brusio delle strade trafficate o dei parchi era in grado di darle sollievo; un oceano di continue vibrazioni era l’unica cosa in grado di distoglierla dal suo misterioso fastidio.

Si sforzò di concentrarsi nuovamente sul proprio respiro; la pelle, irritata dalle unghie, iniziava a bruciare. Forse tanti piccoli graffi superficiali stavano iniziando ad aprirsi: represse l’istinto di guardare. Sapeva che se l’avesse fatto le sue mani si sarebbero certamente fermate. Era già successo tante altre volte in precedenza: una sola fugace occhiata aveva posto fine ai suoi tentativi prima ancora che potesse davvero metterli in atto. Il coriaceo e testardo istinto di autoconservazione che la natura le aveva fornito entrava in funzione con la stessa implacabile precisione di un sensore di collisione su un’automobile. Dopo molti esperimenti falliti aveva scoperto che la meditazione era in grado di cullarlo in una falsa calma abbastanza a lungo da permetterle di realizzare il suo piano. Era stanca di essere in perenne balia del suo silenzioso tormento; ne aveva abbastanza degli sguardi lontani e distratti delle altre persone. Avrebbe afferrato la prova con le sue stesse mani, a qualunque costo. Forbici, lame e altri utensili non avrebbero potuto esserle di alcun aiuto: non erano sensibili ed attenti quanto la punta di un dito, e utilizzarli alla cieca le era impossibile.

Affondò le unghie nella pelle con più forza e finalmente anche l’ultimo strato cedette: sentì sulle dita la consistenza umida e vischiosa del sangue. Continuò a inspirare ed espirare regolarmente mentre, con pazienza, allargava il taglio. Una grossa goccia le scivolò nell’ombelico, poi continuò la propria caduta nell’inguine. Con un po’ di fatica infilò all’interno della stretta fessura la mano destra; la prima cosa che sentì furono le incessanti contrazioni del diaframma. Fu avvolta da una sofferenza assordante, alla quale si sforzò di non prestare attenzione. Improvvisamente il suo cervello fu travolto dall’impellente necessità di svenire: la combatté con determinazione, un respiro alla volta. Tastò con delicatezza i lembi di muscoli e tessuti, cercando di percorrerne il perimetro con le dita. Sapeva che ciò che cercava non doveva essere troppo lontano, ma tradurre una nebulosa sensazione in un percorso tracciato su una mappa non era certo facile. Lo stomaco, piccolo e immobile, era in un angolo: aveva preferito tenersi a digiuno per un po’ prima di iniziare, per sicurezza. Gli scossoni che provenivano dal cuore erano molto più forti di quello che aveva immaginato. Seguì il contorno di una costola, passando l’indice su di essa: rischiò di perdere la propria sudata concentrazione nell’osservare con curiosità la consistenza dell’osso. Sfruttò i rabbiosi strilli del suo sistema nervoso periferico come l’eco di un pipistrello, cercando di individuare un ostacolo nel percorso dell’onda dolorosa. L’aria che le entrava nel naso era ruvida come ghiaia. Fece scivolare due dita dietro il fegato, strisciandole lungo la sua superficie: incontrò un oggetto duro e liscio, ma si rese presto conto che si trattava soltanto di una vertebra. Si affidò alla memoria dei libri di anatomia che aveva letto, riempiendosi la mente delle loro illustrazioni per distoglierla da quanto stava accadendo qualche decina di centimetri più in basso. Prese un lungo respiro: due dita si allungarono dietro il diaframma, rigido e contratto come un pezzo di legno. Dopo una manciata di secondi dovette ritirarle perché costretta ad espirare, ma dopo averlo fatto ripeté l’operazione: aveva sentito qualcosa di troppo piccolo per essere un osso. Provò ad afferrarlo ma l’oggetto le sfuggì, sgusciando poco più avanti. I successivi tentativi non andarono meglio. Prese fiato e coraggio, poi infilò, con un solo rapido gesto, l’intera mano destra nell’angusta fessura. Strinse gli occhi nel tentativo di resistere ad un dolore indescrivibile, che si spandeva in ogni dove con la forza irresistibile di un fiume che rompe violentemente i propri argini sotto una pioggia torrenziale. Con eroica determinazione posizionò l’arto nella posizione giusta, poi chiuse le dita e lo ritirò lentamente. Il passaggio di ogni nocca la ferì come la puntura di una vespa di dimensioni inaudite. Riprendendo stoicamente a respirare con regolarità appoggiò il dorso della mano sulla coscia destra e la aprì. Attese qualche secondo, poi schiuse faticosamente le palpebre. Un mare scarlatto e viscido: nel mezzo, un palmo pallido e tremante. Su di esso era delicatamente adagiata una perla, iridescente e perfettamente rotonda, accuratamente levigata.

   
 
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