Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Blablia87    03/06/2017    8 recensioni
“Everything you know about fear, about love, about connection, about identity is about to change. You are no longer just you.”
(Tutto ciò che sai a proposito della paura, dell'amore, della connessione, dell'identità sta per cambiare. Tu non sei più solo tu.)
[sense8!AU - Non è necessario conoscere o aver visto la serie, per la lettura]
[Johnlock][Accenni Mystrade]
[Mini long in tre parti]
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note iniziali: giovedì sera, come molti di voi sapranno già, Netflix ha annunciato la sua intenzione di non rinnovare sense8 per una terza stagione.
Oltre all’enorme dispiacere personale, mi sento un po’ “in colpa” verso quelle persone che mi hanno scritto che avrebbero iniziato la serie su mio suggerimento.
Non voglio dilungarmi troppo in questa nota, ma sentivo di dover riportare la notizia, in modo che chi non ha già visto la serie - e non sapesse della cancellazione – abbia tutti gli strumenti del caso per valutare se cominciarla o meno.
Il mio personalissimo (e - in quanto tale - assolutamente opinabile, se non proprio contestabile! XD) parere è che ne valga comunque la pena. Sono troppi i valori trasmessi dalla serie, troppo forti le emozioni e gli insegnamenti che trasmette, per non vederla almeno una volta.
E speriamo che Netflix - o qualsiasi altra piattaforma/emittente - ci dia almeno uno special conclusivo (cosa, a mio avviso, fattibilissima).
 
 
“Questa è la vita: paura, rabbia, desiderio, amore. Non provare più emozioni, non volerle più provare, è provare la morte. [...]
Io prendo tutto ciò che provo, tutto ciò che è importante per me e metto tutto questo nel mio pugno. E per questo combatto.”

(Sun – 1x11)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  “Gli amanti non si incontrano finalmente in qualche luogo. Sono sempre stati l’uno nell’altro.”
 
(Jalāl al-Dīn Rūmī)
 
 
 
 
 
 
  12. 
 
 
 
Il vento - in raffiche disordinate, caotiche - gioca tra i capelli del detective, muovendoli prima in avanti e poi, rapidamente, quasi con forza, indietro.
Sherlock - seduto sul basso parapetto, spalle alla terrazza - sente la porta che conduce alle scale aprirsi, cigolando sui cardini. Gli occhi fissi verso la strada sotto di lui, non si volta. In silenzio, aspetta che sia l’altro a parlare.
«Eccoci qui, finalmente» inizia Whispers, e la sua voce è molto diversa da come il detective l’aveva immaginata. È squillante, alta. Allegra. Non un sussurro basso e sottile, stridulo.
«Tu ed io. E il nostro problema. L'ultimo problema» continua, fermandosi a pochi passi dal detective. Solo allora Sherlock si gira adagio in sua direzione, trovandosi di fronte un uomo giovane avvolto in un elegante completo scuro, nero come i suoi occhi.
«È proprio noioso, vero?» prosegue Whispers, domandando all’altro - con un cenno della mano – il permesso di prendere posto accanto a lui. Dopo un attimo di attesa si accomoda ugualmente, un sorriso divertito sul volto, nonostante Sherlock non abbia accennato alcuna risposta. «Essere un Sapiens…» spiega, sporgendosi all’esterno, verso la strada pullulante di persone che si apre sotto di loro.  «Sai, per tutta la vita ho cercato delle distrazioni. E tu, la tua cerchia, eravate il mio ultimo passatempo.» Whispers muove la testa da una parte all’altra, lento, allungando uno ad uno i muscoli del collo. «Ora non ho più neanche voi... perché ti ho battuto. E sai una cosa? È stato fin troppo semplice.»
«Sono stato io a dirti dove trovarmi» ribatte Sherlock, allontanando lo sguardo dal viso dell’altro e tornando a fissare il frenetico brulicare di vita che anima la via di fronte all’ingresso dell’ospedale.
«Sbagliato… È stato Mycroft, a farlo» replica l’altro, ed il detective stringe i pugni per non cedere all’ira che, all’improvviso, sente scorrere lungo il corpo.
«Ora dovrò tornare a giocare con le persone comuni e, a quanto pare, anche tu sei solo una persona comune, proprio come loro.» Whispers si riporta verso l’interno del tetto, alzandosi con un movimento repentino, brusco.
«Ma sono felice che tu abbia scelto un edificio alto. È un buon modo per farlo» aggiunge, con voce docile, inclinando la testa da un lato.
«Farlo? Fare cosa?» domanda Sherlock, aggrottando le sopracciglia. Dopo qualche secondo si gira a sua volta verso il ballatoio, trovando Whispers di spalle, il capo leggermente reclinata all’indietro.
«Sai che adoro i giornali? Sono come fiabe. E anche piuttosto spaventose» risponde lui, senza dar segno si averlo sentito.
«Qualunque cosa tu abbia in mente… ti fermerò» afferma il detective senza scomporsi, la voce dura, distaccata.
«Pensi di riuscirci?» ride Whispers, voltandosi di scatto.
«Sì. E lo pensi anche tu.» Sherlock si alza a sua volta, pigramente.
«Sherlock… nemmeno tuo fratello o tutti i cavalli del Re riuscirebbero a farmi fare qualcosa che non voglio» sogghigna Whispers e, per un attimo, un’espressione folle gli adombra il viso.
«Certo, ma io non sono mio fratello…» Il detective si avvicina all’altro, passo dopo passo. Il Cannibale, divertito, non si allontana. Si limita a guardarlo, con curiosità mista ad eccitazione.
«Io sono come te. Pronto a fare qualunque cosa. Pronto a bruciare…» continua Sherlock, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso. «Pronto a fare ciò che le persone comuni non farebbero. Vuoi che ti stringa la mano all'inferno? - domanda, allungando una mano verso Whispers - Non ti deluderò.».
«No.» L’uomo prende le dita del detective tra le sue, stringendole prima con gentilezza, poi con sempre maggiore energia. «Sei solo una persona comune. Stai dalla parte dei “buoni”. Degli angeli.»
«Oh…» Sherlock si libera dalla presa con uno strattone secco, violento. Con un unico movimento fluido fa scivolare in avanti la mano, afferrando il polso dell’altro e affondando con forza i polpastrelli nella sua pelle. «Starò anche dalla parte degli angeli... ma non pensare nemmeno per un secondo che io sia uno di loro» ringhia, caricando un colpo con la mano libera e aiutandosi con l’altra a tenere fermo l’uomo davanti a sé.
L’altro, con un gesto repentino, si piega in avanti, costringendo il detective ad allentare la presa. Il polso piegato in modo innaturale, Sherlock sente le dita allargarsi, e la presa farsi meno salda. Colpisce Whispers su un fianco, ma il pugno è meno forte di come lo aveva preparato.
Piegandosi ancora, Whispers riesce a mettere in leva il braccio del detective, costringendolo a cedere. Solo allora - con un sorriso allegro sul volto - lo colpisce su uno zigomo, facendolo sbilanciare.
Sherlock porta le mani all’indietro, istintivamente, e sente i palmi aprirsi sotto il proprio peso non appena finisce, con violenza, a terra.
Ancora sul pavimento – il respiro affannoso e il sapore del sangue a riempirgli la gola - scorge con la coda dell’occhio John, sdraiato a pochi passi da lui.
«Bene bene bene…» ride Whispers, seguendo la traiettoria dello sguardo del detective verso un punto, apparentemente vuoto, poco lontano da loro. «La tua cerchia è arrivata?»
La sua voce allegra, raggiante, richiama il detective alla realtà, costringendolo a staccare lo sguardo del medico.
Con uno sbuffo dolorante, facendo leva con i palmi sulle ginocchia, Sherlock si riporta in piedi, pronto ad attaccare di nuovo.
 
 
* * *
 
 
«Io non… non so più nulla.» John, stremato, incrocia le braccia sulla scrivania, appoggiandoci la testa. A contatto con la pelle fresca degli arti sente la fronte incendiarsi, bruciando per la stanchezza e la tensione accumulata.
«Molte volte sapere è meno importante di sentire.» Sarah, comparsa nel suo studio pochi minuti dopo il suo arrivo in clinica, sembra aver intuito tutto.
Sembra sapere che, nel cuore della notte, ha detto alla sua promessa sposa di essersi accorto di non amarla come dovrebbe.
Pare essere a conoscenza delle grida, delle porte sbattute. Del divano, e della valigia pronta vicino alla porta d’ingresso.
Ha parlato con Mary per tutta la notte e l’eco delle sue lacrime, e poi delle urla, continua a riaffiorare, come se la discussione avuta fosse il fondale di un mare di silenzi e bugie che riemerge solo quando – ancora incredulo – si rende conto di averne davvero attraversato le acque.
John sa di averla ferita. Delusa. E sa che averlo fatto per un uomo che – in realtà – non è nemmeno del tutto certo che esista. Una follia.
Ma quanto gli era rimasto addosso - tra le mani, nei respiri - dopo averlo stretto tra le braccia, era qualcosa che non sarebbe riuscito a nascondere. O ad accantonare. Se ne era reso conto immediatamente, non appena varcata la porta del proprio appartamento, il cuore ancora sdraiato su quel prato. Ancora steso, in frantumi, sul tetto di Baker Street.
«Senti di aver fatto la cosa giusta?» domanda Sarah, mentre qualcuno, dall’altra parte della porta, si avvicina al desk dov’è seduta. «Paziente. Lo registro e torno» espone, sbrigativa, prima di sparire.
John sospira, il viso chiuso tra le braccia e un senso di oppressione a stringergli il petto.
Ha fatto la cosa giusta, lo avverte distintamente. Ma ha la terribile sensazione di non riuscire più a tenere le redini della propria vita, del proprio corpo, delle proprie emozioni.
«È complicato, quando ciò che provi è amplificato da ciò che prova un’altra persona.» Sarah è di nuovo nella stanza. Si lascia cadere sul divano, gli occhi fissi sul medico.
«Non riesci a capire cosa provenga davvero da te, dal tuo volere, e cosa sia invece un riflesso.» Sorride, ripensando ai primi mesi dopo la tua nascita. A tutta quella paura che si mescolava all’eccitazione di riuscire a percepire altre persone, gli appartenenti della sua cerchia, in modo così profondo da divenire assoluto, totalizzante. «La verità, John, è che non ci sono più confini. Il tuo corpo, non ne ha. La tua mente. Ed il tuo cuore» prosegue, mentre il medico, lentamente, gira la testa verso di lei. «Se sei felice in modo folle, è perché entrambi lo siete. Se sei triste, lo sarete insieme. Se senti di amarlo...»
«Come si può provare amore per qualcuno che si è appena conosciuto? Come può essere, un’emozione, così… forte?» obietta lui, il viso ancora appoggiato alle braccia.
«Benjamin Disraeli diceva: “Non v’è amore se non a prima vista.” Ed era un Sapiens» ribatte lei, sorridendo. «Alla fine cosa racchiude, in sé, la parola “amore”? Quale concetti? Quali emozioni? Perché non è possibile, innamorarsi profondamente al primo sguardo?»
John schiude la bocca, per ribattere. Vorrebbe dire che per innamorarsi di qualcuno bisogna prima conoscerlo. Viverlo. Capire i punti in comune, e quelli divergenti. Le compatibilità, le affinità.
Sarah, la testa inclinata da un lato, lo osserva con fare indulgente.
«Sai perché si nasce in una cerchia, e non in un’altra?» gli domanda, dopo qualche secondo. Il medico scuote il capo, sollevandolo un po’ dalle braccia conserte.
«È una questione di compatibilità, chimica e biologia. Si nasce con chi saprà capirci, amarci e proteggerci. Si nasce con chi è il nostro destino.» La donna si morde un labbro, cercando di nascondere una commozione che si sta facendo largo nel suo petto, bloccando i pensieri e rendendo difficoltosi i respiri. «Sid è convinto che… - riprende, fermandosi per schiarirsi la gola e tentare di allentare il nodo dolce che sente muoversi attraverso le sue pareti – anche senza nascita, gli appartenenti ad una cerchia finirebbero comunque con l’incontrarsi, prima o poi. Non importa quanto lontano vivano, se abbiano età diverse, o l’oceano stesso li separi. Sono predestinati. E non si può sfuggire, al proprio destino» conclude, sorridendo piano in direzione dell’uomo che le è comparso di fianco e che – annuendo con convinzione, seduto sul divano – ha sillabato con lei ogni singola parola.
«Sid?» chiede John, guardandola fissare con affetto qualcosa nello spazio vuoto alla propria destra.
«Già… È un informatico… Vive a Sydney» risponde la donna, accarezzando con gentilezza il viso di Sid.
Lui, prima di scomparire, chiude la mano di Sarah tra le sue, appoggiandole un bacio sul palmo aperto.
«Ho capito di amarlo dopo la prima visita» ride lei, spostando nuovamente gli occhi su John. «Circa otto anni fa. Nessuna domanda, nessuna paura. Dall’amore non può venire alcun male, quando il cuore dell’altra persona è anche il tuo.»
Un nuovo paziente si ferma davanti al desk, oltre la porta chiusa dello studio, e la donna scompare.
John, rimasto solo, si da una spinta per poter tornare in posizione eretta con la schiena. È stanco, confuso, e nella testa un fruscio costante continua a soffocare i pensieri.
«Dove sei…?» chiede, a mezza bocca, cercando di visualizzare Sherlock. «Ho bisogno di parlarti.»
 
Un attimo dopo si ritrova a terra, sul selciato di un luogo che non riesce a riconoscere. Sorpreso si gira verso sinistra, in direzione di un ringhio sordo e basso nel quale riconosce il timbro di voce basso del detective.
Sherlock è a terra, poco lontano da lui, i palmi delle mani graffiati dal cemento sul quale hanno fatto presa per rallentare la caduta e un rivolo di sangue scuro a macchiargli il viso, scendendo dal naso fino alla bocca.
«Sherlock!» lo chiama e l’altro, sorpreso, si volta in sua direzione, il respiro affannoso e gli occhi spalancati.
«Bene bene bene…» ride qualcuno, poco lontano. «La tua cerchia è arrivata?»
Il detective stacca lo sguardo dal medico, riportandosi in posizione eretta con uno sbuffo soffocato. Allarga le gambe, distribuendo meglio il peso nel caso di un altro attacco.
«Che sta succedendo?» John si rialza in fretta, spostandosi di lato quel tanto da riuscire a vedere chi si nasconda dietro il corpo dell’altro.
Si ferma quasi subito, il fiato spezzato in gola, mentre Whispers appare oltre le spalle tese del detective.
«Credi davvero che fingere che non sia qui mi impedirà di trovarlo?» domanda il Cannibale, allegro, continuando a guardarsi attorno. «Credi davvero che ne uscirete incolumi?»
Sherlock lo ignora, piegandosi, pronto all’attacco.
«Dimmi dove sei.» John si porta al suo fianco, sfiorandolo. «Sherlock, dimmi dove sei!» sibila, mentre Whispers, un sorriso storto sul viso, si flette a sua volta.
«Sai qual è la parte migliore, nell’entrare nella testa dei Sensate?» ghigna, ondeggiando lento la testa da una parte e dall’altra. «Che puoi apprendere ogni loro abilità, come se fossero parte della tua cerchia» ringhia, scaraventandosi in avanti. Sherlock riesce ad evitare il primo colpo, allontanando la testa all’indietro. Il secondo, però, lo colpisce in pieno stomaco. Il detective si chiude in avanti mentre John - a pochi passi da lui - fa altrettanto, le mani strette attorno al ventre squassato dagli spasmi.
«Pugilato…» continua Whispers, sferrando un altro pugno, questa volta sul viso. «Jujitsu, Kick boxing…» elenca, cambiando stile di combattimento ad ogni colpo. Sherlock finisce a terra, il viso coperto di lividi violacei. John, steso di fianco a lui, rimette un fiotto di saliva e sangue.
Il detective prova a rialzarsi, ma il medico lo ferma con una mano. «Dimmi dove sei…» lo prega, rotolando verso di lui e cercando di rimettersi in piedi. «Dimmi dove sei…» insiste John, disperato. «Penserò io a lui fino al mio arrivo… ma devi dirmi dove sei, adesso.»
Sherlock chiude gli occhi per un attimo, deglutendo aria, saliva e sangue.
«Se muori adesso, morirò anche io» continua il medico, un dolore lancinante a serrargli i respiri. «Ti prego…»
Sherlock annuisce appena, socchiudendo le palpebre.
Mentre sente Whispers afferrarlo per la camicia per alzarlo dal suolo, volta la testa verso sinistra. Di fianco alla piccola porta in metallo scuro che porta alle scale, una targhetta metallica porta inciso il nome del St. Bartholomew's Hospital. Appena sotto, un altro cartello reca la scritta “Roof - Forbidden Access”.
«Ok… ok.» John si alza dal pavimento e, allo stesso tempo, si allontana dalla propria scrivania, nel suo studio. Sta perdendo sangue dal naso, ma non gli importa. Si pulisce con il dorso della mano e corre fuori dalla stanza, sotto gli occhi terrorizzati di Sarah, immobile dietro il bancone dell’accoglienza. Un anziano paziente, in piedi a pochi passi dal desk, si allontana di scatto, spaventato.
«Whispers?» riesce a sussurrare la donna, un nodo stretto attorno alla gola, mentre John la supera con passo veloce.
Lui annuisce appena, diretto all’uscita.
«Dove?» domanda lei, ma il medico è già in strada, gli occhi lucidi ed il fiato corto.
«Dove, John!» grida lei, seguendolo precipitosamente fuori dalla porta scorrevole.
Lui non le risponde. Si libera dal camice e - il petto in fiamme - comincia a correre, sperando di riuscire ad arrivare in tempo.
 
«Tutto qui, quello che sai fare?» lo canzona Whispers, le mani ancora serrate attorno alla sua camicia, riportandolo in piedi. «Speravo in uno scontro alla pari, come con tuo fratello in questi anni… sono molto deluso.» ride.
John, al fianco di Sherlock, sfiora con una mano la sua.
«Ci penso io, adesso» gli sussurra, cercando di stemperare la tensione che riveste le parole con un tono dolce, morbido. Il detective annuisce appena, reclinando la testa all’indietro. Si rilassa, sotto la presa decisa di Whispers, lasciando che John prenda il comando del suo corpo.
Un attimo, il tempo di un respiro, ed il medico si trova di fronte al Cannibale. Alza entrambe le braccia velocemente, lasciandole ricadere con un colpo secco, violento, sui polsi di Whispers. Istintivamente l’uomo allenta la presa, dando a John sufficientemente spazio per liberarsi con un brusco movimento laterale. Prima che l’altro possa reagire, il medico lo colpisce in pieno viso con un pugno. Whispers indietreggia, sorpreso, mentre sul volto gli affiora un sorriso soddisfatto.
«Con chi ho il piacere di…» domanda, ma John non gli da il tempo di concludere la frase. Carica un nuovo colpo che, però, l’altro para senza difficoltà, fermandogli il braccio con entrambe le mani.
«Non è bello picchiare qualcuno senza presentarsi…» insiste Whispers, l’arto di John ben stretto tra le dita.
«Mi chiamo John… Watson…» ringhia lui, girandosi in modo da usare la presa dell’altro come leva per atterrarlo. «Ex… Quinto Fucilieri… Nothumberland» continua, sbilanciandosi in avanti con tutto il peso. Finiscono a terra, insieme, e il medico punta sull’altro un ginocchio, in modo che gli sia difficile sollevarsi.
Whispers, a terra, annuisce. «Un ex militare… ora capisco» ansima, nella voce una vena di allegro compiacimento. «Immagino che avrei dovuto aspettarmelo… una mente geniale ed un buon combattente… chi meglio di voi come ultima barriera tra me ed il completo controllo.»
John si solleva appena, spostandosi in modo da posizionarsi sull’altro con tutto il peso. Whispers, sotto di lui, assume un’espressione raggiante. «La parte più divertente di tutto questo è il fatto che non abbiate capito perché vi volessi incontrare… Ma immagino che la colpa sia mia» sussurra, complice, e Sherlock è di nuovo padrone del suo corpo. John, ansante, li osserva qualche passo più indietro.
«So perché dovevi trovarci. Mycroft me lo ha detto» ribatte il detective, con un sibilo.
«Mycroft non ha capito niente. Non ha mai capito niente.» Whispers, ancora bloccato dal corpo del detective a cavalcioni su di lui, muove i fianchi, eccitato.
John - poco lontano - riesce a stento a trattenere l’istinto di riprendere il controllo per potergli sbattere ripetutamente e con violenza la testa a terra, fino a fargli capire in modo inequivocabile che non deve nemmeno provare a pensare di sfiorare Sherlock, in nessun modo.
«Lui crede che io voglia sterminarvi tutti… uno… a… uno…» sussurra Whispers, continuando a muoversi. Sherlock si ritrova in piedi, lontano da loro, senza neanche rendersene conto. John, di nuovo sopra Whispers, gli porta una mano alla gola, costringendolo a terra. Si china su di lui, furente, appoggiando la propria fronte contro la sua.
«Lo sai, John Watson, che quello che sto vedendo io è solo il viso di Sherlock Holmes a pochi centimetri dal mio, vero?» ride Whispers, ed il medico si allontana appena, il necessario ad evitare un qualsiasi tipo di contatto.
«Muoviti ancora, una sola volta, e giuro che dovrà essere qualcun altro a completare questa chiacchierata al posto tuo» ringhia, tornando al proprio posto subito dopo.
Sherlock si volta un attimo in sua direzione, trovandolo con il viso arrossato e le mani serrate.
«Ah, l’amore tra gli appartenenti ad una cerchia…» sussurra Whispers sotto di lui, divertito. «La cosa più naturale e, allo stesso tempo, più banale dell’intero creato.»
«Dimmi cosa vuoi» risponde il detective, ignorando le sue allusioni. «Dimmi cos’è che vuoi, davvero.»
«Oh, piccolo Sherlock… quello che voglio è che smettiate di nascondervi come topi… Perennemente impauriti, perennemente nell’ombra… Voglio liberarvi…» Whispers inclina la testa da un lato, uno scintillio allegro negli occhi. I capelli si allargano dietro di lui, trattenuti dal cemento della pavimentazione. «È per questo, vedi, che ci sono telecamere ovunque. Qui, come in ogni parte del mondo…» Ride, e il modo nel quale lo fa apre qualcosa in mezzo al petto del detective. Si volta, ma John è sparito. «Voglio che il mondo veda cosa un Sensate è in grado di fare… Voglio che creda che possiate, con il solo pensiero, distruggere e soggiogare le loro povere, piccole menti… Quello che voglio, Sherlock, è la guerra
La porta scura, poco lontano da loro, si spalanca.
John, il volto arrossato dalla corsa e dalla tensione, cerca con lo sguardo il detective, fino a trovarlo.
Per un attimo - il tempo di respiro - il pensiero che sia davvero lì, davanti a lui, lo tramortisce.
Il detective, la bocca socchiusa e gli occhi lucidi, guarda il medico ed ha l’impressione forte, potente, violenta, di essere divenuto completo solo in quel momento.
Si guardano - in silenzio - per qualche istante, e davanti a loro sembra schiudersi l’eternità stessa.
È la voce di Whispers, un sussurro lieve, a richiamare l’attenzione del detective.
«…no… no… ti prego» singhiozza. «Non voglio, non voglio morire! No, ti prego! Ti PREGO!» urla, e John scorge la pistola solo quando ormai è quasi del tutto nella bocca dell’uomo.
Sherlock abbassa gli occhi, sorpreso. Ancora seduto su di lui, dopo un secondo di esitazione, allunga una mano per cercare di bloccarlo, ma Whispers è più veloce.
Un boato esplode nell’aria, ed il detective rimane immobile, sbigottito, il braccio sospeso nell’aria e il viso coperto di piccoli schizzi di sangue.
«Sherlock!» John corre verso di loro, lasciandosi cadere a terra, vicino a dove l’altro è ancora bloccato, paralizzato.
Il medico abbassa lo sguardo, smarrito, su quanto rimane del volto di Whispers, mentre una chiazza scura si allarga sotto la sua testa, impregnando i capelli.
«Allontanati, andiamo…» sussurra il medico, staccando gli occhi a fatica dal foro che deturpa il viso del Cannibale e girandosi verso il detective. «Sherlock, allontanati…» ripete, poggiandogli una mano sulle spalle.
Il calore dell’altro, così reale, così tangibile, scuote il detective dal torpore che sente bloccargli i pensieri. Boccheggia, iniziando a sollevarsi.
«Sei davvero qui…?» domanda in un sussurro, aggrappandosi a John per riuscire a mettersi in piedi.
«Sì, sono qui» gli risponde lui, facendosi passare il braccio di Sherlock sopra le spalle in modo da poterlo sorreggere meglio ed aiutarlo ad alzarsi.
In lontananza, il suono delle sirene della polizia si mescola a quello di un elicottero in avvicinamento.
John, disorientato, si guarda attorno.
«È una trappola…» sussurra Sherlock, la testa a pochi centimetri dalla sua.
Le stesse parole escono dalla bocca di Sarah, ora in piedi di fianco al corpo esanime di Whispers.
«Non capisco…» mormora il medico, gli occhi sulla donna ma il volto girato verso quello del detective.
«Non sarà la BPO ad ucciderci uno ad uno…» singhiozza lei, negli occhi un terrore totale, completo, annichilente.
«Sarà il Governo stesso, a farlo…» conclude per lei Sid, apparso al suo fianco.
«Sono certo che la registrazione di quanto successo sia già sul tavolo di qualche politico…» Sherlock si stacca da John con forza, mentre il rumore delle eliche dell'aeromobile diventa più forte. La sua sagoma scura, metallica, è adesso visibile contro il grigiore del cielo ed il detective allontana con una spinta il medico da sé.
«Vattene» gli intima, iniziando ad indietreggiare, diretto al bordo.
«Sherlock, che diavolo stai facendo?!» John, gli occhi lucidi e la gola secca, si muove verso di lui, ma viene fermato da un gesto brusco dell’altro.
«Mi terranno sotto tiro, quando arriveranno. Devi andartene» gli ripete lui, cercando di forzare le parole ad uscire dalla barriera delle sue labbra secche.
«Non me ne vado da nessuna parte, senza di te!» esplode il medico, cercando di raggiungerlo.
«Non ha senso che ci prendano in due, lo capisci?!» grida il detective, ormai quasi sul bordo. «VATTENE!»
John si ferma, terrorizzato dall’idea che solo un passo separi l’altro dal basso cornicione di mattoni chiari dietro di lui. Alza le mani e indietreggia a sua volta, allontanandosi dal corpo di Whispers.
«Fa’ qualcosa!» implora Sarah voltandosi verso Sid, in piedi a pochi passi da lei.
«Non posso. La polizia è già qui» risponde lui, sul viso un’espressione di paura che la donna non gli ha mai visto prima.
«Lo uccideranno!» grida lei e John si gira a guardarla, atterrito. «E poi diranno che un Sensate ha ucciso uno degli esponenti più importanti dell’organizzazione nata per proteggerli! Che siamo senza controllo! I governi autorizzeranno azioni di attacco preventivo!» singhiozza Sarah, disperata, e Sid si morde con forza un labbro.
Si volta verso Sherlock, anche se sa che lui non può vederlo. Ha alzato le mani e, lentamente, si sta mettendo in ginocchio.
L’elicottero, ormai, è quasi sopra il tetto.
«Di’ al tuo amico di andarsene. Cercherò di tirarlo fuori, ma ci serve qualcuno in grado di fargli visita, in caso.» Sid aspetta di vedere un cenno d’assenso da parte di Sarah, prima di sparire.
«Va’ via, John» sussurra la donna, la voce ridotta ad un sussurro.
«No, non me ne vado» ripete il medico ancora una volta, mentre Sherlock posa su di lui uno sguardo implorante.
«Sid troverà un modo per aiutarlo, ma ci serve qualcuno che possa fargli visita, quando sarà in carcere» insiste lei, comparendo al suo fianco. «Ti prego…»
«Lo uccideranno…» geme il medico, il petto sul punto di esplodere. Sherlock, a terra, abbassa gli occhi.
«Non possono. Non così. Ma lo faranno in fretta, questo sì.» Sarah posa una mano su un braccio di John, premendo appena. «Ti prego, è l’unico modo…» lo implora.
Lui si volta a guardarla. La donna gli lancia un ultimo sguardo disperato. Poi, scompare.
«Sistemeremo tutto, te lo prometto» sussurra il medico, rivolto a Sherlock, mentre il velivolo - sopra le loro teste - comincia a scendere di quota. Il detective annuisce, deglutendo a fatica. Non ha la forza di alzare la testa, ma sente i passi dell’altro raggiungere la porta, e sparire lungo le scale.
«Tornerò appena possibile» lo rassicura John, adesso in ginocchio accanto a lui, poco più di un’ombra. «Non ti lascio» aggiunge, chinandosi in modo da potergli appoggiare le labbra tra i capelli scompigliati.
I passi pesanti e veloci dei poliziotti lungo le scale si fanno più vicini.
Sherlock può sentirli muoversi in piccoli gruppi, le pistole puntate di fronte a loro.
«Sono qui» ripete John, vedendo la porta che ha chiuso dietro di sé solo qualche attimo prima spalancarsi con uno schianto.
Due agenti, l’arma puntata sul detective, gli intimano di sdraiarsi. Lui, in silenzio, si porta a terra, permettendogli di ammanettarlo. Il volto girato verso sinistra, vede John un’ultima volta. Una lacrima gli sta solcando il viso. È nascosto un isolato più avanti, in un vicolo.
«Sono qui» sta ripetendo, ancora.
Poi, il calcio di una pistola colpisce Sherlock alla testa, e fa cadere il medico a terra.
Le mani contro il selciato, John rimane senza fiato.
Solo.
Il contatto si è interrotto.
 
 
 
 13. 
 
 
 
«Mycroft…» Una voce, lontana, conosciuta, familiare, lo chiama.
Lui, a fatica, socchiude gli occhi, sentendo il sapore metallico del sangue ancora in bocca. Muove gli occhi lungo la stanza, adesso disabitata, ingombra di macchinari medici.
«Whispers è morto…» sussurra ancora la voce e Mycroft, con estrema debolezza, abbozza un sorriso tirato.
«Sono morto anche io?» domanda, in un bisbiglio, quando i suoi occhi incrociano quelli di Greg, in piedi a pochi passi da lui.
«No. E cerca di non farlo nella prossima ora… stanno venendo per te.» Greg, con un sorriso, è scomparso. Al suo posto resta un uomo dalle iridi scure. Mycroft si ricorda di lui, lo ha conosciuto tanti anni prima, in un viaggio in India.
«Chi…?» cerca di dire, ma la saliva, vischiosa, gli ottura la gola, facendolo tossire.
«I rinforzi…» L’uomo gli si accosta, appoggiandogli una mano sul petto, sopra i vestiti lacerati e anneriti. «Whispers ci ha teso una trappola… nell’ultimo anno ha registrato atti di violenza perpetrata o presumibilmente compiuta da Sensate, ed ha preparato un dossier per farci dichiarare “pubblica minaccia”. Lo sai cosa prevede il trattato, in questo caso…» Mycroft geme, stremato. Vorrebbe chiedere come sia successo, e dove si trovi Sherlock, ma – forse per la prima volta in tutta la vita - ha paura di sentire la verità. L’uomo sembra leggere i timori tra le rughe profonde del suo viso, perché aumenta la pressione sul suo petto. «L’Arcipelago ha funzionato alla perfezione, Mycroft» si affretta a rassicurarlo. «Ed è solo merito tuo. Ci sono ribellioni ovunque, ovunque. I nostri, all’interno della BPO, stanno cercando di far rimuovere Richard Wilson Croome, affermando che lui sapesse quali crudeltà Whispers perpetrasse sulla nostra razza, violando ogni singolo articolo della carta di Cipro. I migliori hacker tra noi si sono messi a lavoro. Le casseforti sono state aperte, i fascicoli desecretati. Ora una copia di ognuno di loro si trova su ogni singola scrivania che conti qualcosa. E non è qualcosa che, semplicemente, si possa ignorare.»
«Sherlock…?» cede Mycroft e, per un attimo, il timore per la risposta che sta per ottenere annulla ogni altro pensiero.
«A Marshalsea, cella 187. Ma stiamo lavorando anche per lui» risponde l’uomo, aprendosi in un sorriso sincero.
«Il tuo inglese è migliorato, Raj…» sussurra Mycroft, un grazie nascosto tra le pieghe delle parole.
«Il tuo hindi, invece, è ancora incomprensibile» scherza l’altro, allontanando la mano ed interrompendo il contatto tra loro. «Resisti ancora per un po’. Va bene?» aggiunge, tornando serio.
Mycroft annuisce appena, chiudendo gli occhi di nuovo.
«Tuo fratello e la sua cerchia sono stati bravi, davvero» sente dire, ma la voce è già lontana, quasi un fruscio leggero. «Mai visto nessuno arrivare ad atterrare Whispers.»
Di nuovo solo nella sala operatoria, Mycroft sorride.
 
«Le coincidenze non esistono, Myc.» Aveva detto Gregory durante il loro primo appuntamento, appoggiando le labbra alle sue. «L’Universo non è mai pigro al punto da far scegliere al Caso.»
 
 
* * *
 
 
«Sherlock…!» È quasi mezzanotte quando John - maglietta stropicciata e jeans scuri - compare in un angolo della cella 187 di Marshalsea, il viso segnato dalla tensione.
Ha provato per quasi tutto il giorno – disperatamente - a far visita all’altro e, dopo ogni tentativo fallito, il silenzio è divenuto più doloroso, più desolante, sommandosi lentamente alla paura fino a trasformarsi in un’angoscia profonda. Un abisso sempre più ampio, scuro, opaco come – nonostante il sollievo di avere il detective nuovamente di fronte a sé – appare il suo sguardo nella penombra della stanza angusta.
 
Nel pomeriggio - dopo decine di prove, tutte vane – aveva cercato ristoro, stremato, in una caffetteria. Sarah era comparsa pochi minuti dopo, una visita breve, il tempo di metterlo a conoscenza del piano di Sid e dei tentativi che stava già compiendo per la sua attuazione. Per un attimo, John aveva rivisto se stesso – tutta la sua preoccupazione, tutta la sua apprensione - nel volto profondamente scavato della donna.
Alla fine, al termine dell’ennesima visita mancata, si era trascinato fino alla camera del piccolo albergo prenotato per la notte. Lì, il viso nascosto tra le mani, aveva atteso ancora, e ancora. Fino a quando – solo qualche minuto prima, in un impeto di ira mista a frustrazione – si era alzato di colpo, diretto in bagno, i passi incerti e le dita scosse da tremiti impercettibili. Aveva messo con foga la testa sotto il rubinetto del lavandino, aprendo l’acqua fredda in cerca di sollievo.
Pochi istanti, il tempo di tornare in posizione eretta, e le pareti in mattonelle bianche del bagno erano divenute ruvide, buie come l’intonaco grezzo del carcere dove, improvvisamente, si trova rinchiuso a sua volta.
 
«Dio» esala aprendosi in un sorriso esausto, mentre sottili rivoli d’acqua gli scendono lungo il collo, arrivando ad impregnare la stoffa della t-shirt. «Mi stavo preoccupando… Non riuscivo a mettermi in contatto con te in nessun modo…»
Sherlock – il viso tumefatto ed un grosso grumo di sangue rappreso sulla tempia sinistra - alza sorpreso gli occhi su di lui. «Mi hanno dato dei calmanti…» spiega con voce bassa, atona. Nella poca luce che illumina l’ambiente, sembra incredibilmente piccolo, fragile. John gli si avvicina in fretta, inginocchiandosi di fronte alla brandina sulla quale in detective è seduto, le mani sulle ginocchia e la testa bassa.
«Cosa ti hanno fatto…» sussurra l’altro, passandogli una mano sulla ferita, delicatamente. «Avrebbero almeno potuto fermare il sangue…» sussurra, e l’ira che gli fa fremere le mani si allarga anche nel petto del detective.
«Non è grave…» ribatte lui, ma John continua a spostargli piano i capelli, analizzando la ferita.
«Non avrebbero dovuto comunque toccarti» sibila il medico, gli occhi arrossati.
«John… davvero» Sherlock gli ferma la mano, portandosela sulle gambe. «Non è importante.»
Il medico, con un respiro profondo, si rialza, andandosi a sedere accanto al detective.
«Sid sta cercando di farti uscire» inizia, e adesso sono entrambi nella camera d’albergo. Sherlock aggrotta le sopracciglia, confuso.
«Perché non sei a casa?» domanda, ma una parte della sua mente, del suo cuore, conosce già la risposta.
«Ho deciso di smettere di mentire» sintetizza John, e sa che sarà sufficiente. Porta le dita tra quelle dell’altro e stringe appena, con dolcezza.
«Chi è Sid?» chiede il detective dopo aver fissato in silenzio, per qualche attimo, il volto dell’altro.
«Il ragazzo di Sarah, la segretaria della clinica dove lavoro.»
«Sensate?» Sherlock inclina la testa da un lato, stupito.
«Sensate» conferma John, di nuovo in cella. Si guarda attorno, scorgendo in un angolo il vassoio con il pasto serale dell’altro, ancora intonso.
«Devi mangiare…» gli dice, nella voce una vena di preoccupazione.
«Quando sarò fuori di qui» ribatte Sherlock, chiudendosi nelle spalle in un chiaro segnale di disinteresse.
«Non sappiamo quanto tempo ci vorrà, ancora…» ribatte John, cercando di far comprendere all’altro quanto il digiuno fino allo scarceramento non sia una strada percorribile. «Stiamo cercando di arrivare alla registrazione delle telecamere di sorveglianza di Bart’s, ma sono dati ben protetti e…»
«Eliminare la registrazione non fermerà il piano di Whispers.» Sherlock si alza, muovendosi avanti e indietro nella piccola stanza d’hotel.
«No. È vero.» Il medico scuote la testa, mentre piccole gocce d’acqua si liberano dalle ciocche bionde che gli ricadono sulla fronte, bagnandogli il viso. «Ma cancellare il video è solo una piccola parte del piano» spiega, raggiungendo l’altro e bloccandolo per le braccia, le mani strette con gentilezza poco sopra i suoi gomiti. «Fidati, ti tireremo fuori» sussurra con convinzione, gli occhi seri e lo sguardo sicuro. Il detective resta immobile qualche secondo, cercando di capire se quello che sente aprirsi in mezzo al petto ogni volta che si trova così vicino all’altro occupi i pensieri di John quanto fa con i suoi.
«Non permetterò a nessuno, di torcerti un capello» continua il medico, e la furia nei suoi occhi è calda come i respiri che Sherlock sente spezzarsi in gola.
Restano così - fermi l’uno di fronte all’altro, gli occhi e le mani tenacemente legati tra loro - fino a quando Sherlock, un nodo stretto con forza attorno alla trachea, non si china, posando le labbra su quelle socchiuse dell’altro.
John gli fa spazio tra i respiri, ricambiando il bacio.
«Ti tirerò fuori da qui» gli soffia sul viso quando, più di un minuto più tardi, riesce a staccarsi da lui. Le mura scure della cella sono umide, si accorge il medico non appena Sherlock – indietreggiando di qualche passo - ci poggia le spalle, alzando il viso verso il soffitto buio.
«Cerca di riposare.» John allunga una mano verso di lui, e aspetta di sentire la presa dell’altro attorno al proprio polso prima di guidarlo verso la brandina. «Dormi un po’. Io resto qui» gli sussurra sedendosi all’estremo del materasso, in modo che Sherlock, sdraiandosi, possa appoggiare la testa sulle sue gambe.
Il detective rimane in piedi per qualche secondo, incerto.
«Sparirai non appena mi sarò addormentato…» dice, e sa che il medico ne è consapevole esattamente quanto lui.
John annuisce, piano, ma gli fa cenno comunque di distendersi.
«Presto potremo dormire vicini, e non importerà chi dei due prenderà sonno per primo» mormora, mentre il detective si accovaccia sul materasso logoro. «Presto potrò guardarti dormire senza la paura che tu scompaia tra le mie dita» aggiunge, passando una mano, lenta, tra i capelli dell’altro.
Lo accarezza, adagio, ancora, e ancora.
Lo fa fino a quando, un senso di vuoto incolmabile al centro del petto, non resta solo – la mano sospesa nel vuoto – nel silenzio di una stanza d’albergo.
Sherlock - nella penombra della cella - si porta istintivamente una mano alla testa, cercando le dita dell’altro nel sonno, il loro calore ancora sulla pelle.
 
 
 
 14. 
 
 
 
«John… JOHN!»
Il medico si sveglia di soprassalto, il viso di Sarah a pochi centimetri da suo.
Istintivamente si porta il lenzuolo sul petto nudo, cercando di coprirsi. «Sarah… cosa… che succede?» domanda, la bocca impastata dal sonno e dalla sorpresa.
«Non c’è tempo per questo!» si spazientisce lei, indicandogli con un rapido gesto della mano gli abiti - abbandonati su una delle sedie della camera - e facendogli cenno di vestirsi. «Alzati. Preparati. Muoviti!» lo incita e il medico, ancora confuso, scende in fretta dal letto, avviandosi con passi esitanti verso i vestiti.
«Che succede? Sid è arrivato alle registrazioni…?» chiede, mentre si infila con gesti scoordinati maglietta e jeans.
«Sì. Ma è successo molto più di questo!» esclama lei, entusiasta. «E non me lo perderei per nulla al mondo, fossi in te!» aggiunge, voltandosi verso il piccolo televisore appeso sopra la porta della stanza. «Puoi accenderlo?» domanda poi, mentre John termina di allacciarsi le scarpe. «Metti la BBC News.»
«Inizio a preoccuparmi…» ribatte lui, ma si allunga comunque verso il comodino, afferrando il telecomando. Sarah, in silenzio, prende posto accanto al medico.
Con un lieve ronzio, lo schermo si accende.
Due uomini, seduti dietro una larga scrivania di vetro sabbiato, stanno discutendo animatamente di qualcosa.
«Alza il volume!» lo incoraggia Sarah, gli occhi rivolti al monitor. John annuisce, trovandosi improvvisamente nell’abitazione dell’altra, seduto con lei sul divano del salotto.
Sid - in piedi dietro di loro, nello spazio tra il sofà e la parete – si china in avanti, appoggiandosi allo schienale per poter abbracciare la donna.
«È John?» le domanda allegro in un orecchio. Lei annuisce, con un sorriso.
«Sid ti saluta» dice poi, rivolta a John.
«Oh, grazie!» ricambia il medico, guardandosi attorno. «Saluti a te, Sid…!» aggiunge, incerto, lasciando vagare gli occhi lungo la stanza senza riuscire a vederlo.
«Alza il volume!» ripete lei, di nuovo nella stanza d’albergo. John abbassa gli occhi sul telecomando, in cerca del tasto giusto.
La voce dei due uomini riempie la camera poco dopo, rimbalzando sulle pareti ricoperte di carta da parati chiara.
«Cosa ne pensi, di questo improvviso cambio al vertice della BPO, colosso internazionale della ricerca medica?» chiede il primo, con tono serio.
«La BPO è, in parte, sotto il controllo del Governo Centrale, e sovvenzionata con fondi pubblici. Se il Primo Ministro ha ritenuto che Croome non fosse più la persona adatta a gestirla, era nei suoi pieni diritti destituirlo dalla carica di amministratore delegato» ribatte l’altro mentre John, le sopracciglia aggrottate, si volta verso Sarah in cerca di risposte.
«Non capisco…» ammette, e la donna sorride bonariamente.
«Capirai» gli sussurra, tornando a prestare attenzione allo schermo.
«Si hanno già anticipazioni su chi sarà chiamato a sostituire Croome alla direzione?» domanda ancora il primo uomo, avvicinandosi all’altro come a voler ascoltare un pettegolezzo rivelato a mezza voce.
«Indiscrezioni provenienti da fonti affidabili – e autorevoli - parlano di Mycroft Holmes, funzionario governativo di comprovata esperienza, come prossimo leader del colosso di ricerca medica. Trovo…»
Il medico - gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa – si volge di scatto verso Sarah, seduta nuovamente accanto a lui sul divano. La donna, un enorme sorriso sul volto, alza la testa verso Sid. «Ha capito, adesso» lo informa, e l’uomo le appoggia un bacio su una tempia.
«Allora digli di prepararsi. Le udienze per le scarcerazioni iniziano alle undici in punto» sussurra lui, prima di sparire.
Nella camera d’albergo, Sarah appoggia una mano sulle spalle tremanti di John.
«Come… come avete fatto?» le domanda il medico, una felicità violenta a mozzargli il respiro e le parole.
«L’Arcipelago» svela lei, allegra. «Esiste da anni, ma eravamo tutti così spaventati… che per molto tempo abbiamo finto di non ricordare la sua esistenza.»
«L’Arcipelago…» ripete John, percependo quasi – nel pronunciarlo - il senso celato dietro quel termine così particolare, evocativo.
«C'è una rete tra di noi, con rami in tutto il mondo. Lo chiamiamo l'Arcipelago, perché è questo, ciò che siamo: apparentemente soli in superficie, ma connessi nel profondo» conferma involontariamente Sarah, poco dopo. «Qualcuno che conosci parla con qualcuno che conosce, che a sua volta propaga l’informazione con le persone con le quali è venuto direttamente in contatto. È stato proprio Mycroft Holmes, quando le cose alle BPO iniziarono ad andare male, a scegliere l’Arcipelago come ultima misura di sicurezza.» La donna scuote la testa, improvvisamente assorbita da quel ricordo.
«Lo hai mai conosciuto?» domanda John, smorzando l’audio della televisione nella propria stanza.
«No. Ma lo ha conosciuto Rajad, un compagno di studi di Sid. A proposito di Sid» Sarah si alza di scatto e John, sul divano, si solleva istintivamente a sua volta. «Mi ha detto che devi prepararti, le udienze per i rilasci cominciano alle undici.»
«Rilasceranno Sherlock?» chiede il medico, e quasi non riesce a trovare la forza di far uscire le parole dalla gola secca.
«Senza video e con un fratello a capo della BPO, dubito che i poliziotti collusi con Whispers abbiano i mezzi per poterlo trattenere più a lungo» risponde la donna, ma lui non la sta più ascoltando. È di nuovo a Marshalsea, gli occhi fissi su Sherlock voltato verso il muro, intento a vestirsi. Ha la schiena coperta di lividi violacei, e John inclina la testa da un lato mentre un’espressione di sordo furore gli abbuia gli occhi, mischiandosi alla preoccupazione ora aggrappata – quasi dolorosamente - alle rughe ammassate attorno alla bocca.
«Cosa ti hanno fatto?» sussurra, teso, avvicinandosi a l’altro.
Il detective, colto di sorpresa, si gira verso di lui con ancora la camicia stretta tra le mani. Un ricciolo scuro, bagnato, gli ricade sugli occhi spalancati.
«Sei ricoperto di lividi.» John ha gli occhi scuri, e la voce roca. Sherlock alza le spalle, scuotendo con noncuranza la testa.
«Te l’ho detto, che mi hanno sedato» dice, con voce bassa.
«Ma non mi hai detto che ti avevano picchiato» ringhia l’altro. Può sentire la schiena bruciare e dolere, adesso, esattamente nei punti dove quella dell’altro è ricoperta da ecchimosi profonde.
«Hanno solo cercato di fare “il loro lavoro”, immagino» ribatte il detective, iniziando ad indossare la camicia. «Trovare nomi, connessioni, estorcere confessioni…»
John, di fronte a lui, lo aiuta a chiudere i bottoni, gli occhi bassi e i respiri veloci, superficiali.
«Mio fratello è appena stato qui» gli dice Sherlock, cercando di tranquillizzarlo. «Non ha un bell’aspetto… ma sembra che il suo volto tumefatto abbia giocato un ruolo fondamentale, nel convincere il Primo Ministro che fosse la persona giusta per presiedere il consiglio direttivo della BPO» aggiunge, arricciando il naso.
«Ero venuto proprio per dirti questo…» risponde John, ma la voce trema sotto la collera che ancora lo attraversa. «Dovresti…» si blocca, fatica a trovare le parole. «Dovresti mettere qualcosa, tra la pelle e il cotone della camicia. Per evitare che la cute strofini contro il tessuto. Dovresti chiedere…» riesce a dire, dopo essersi schiarito la gola.
«Vieni all’udienza. È questo, ciò che chiedo» lo interrompe il detective, fermando le mani dell’altro, ancora intente a far passare i bottoni della camicia all’interno delle asole. «Il resto non importa. Sono lividi, John. Spariranno.»
Il medico si morde un labbro, alzando gli occhi sul viso dell’altro.
«Potrai curarli, o non farlo, quando sarò fuori di qui.» Sherlock si china in avanti, appoggiando la fronte a quella del medico. Quel contatto, più di qualsiasi altra parola, riesce a placare la furia del medico. Chiude gli occhi, e lascia che i capelli umidi dell’altro bagnino i suoi.
 
Quando li riapre, la camera d’albergo è vuota, e l’orologio di fianco alla porta d’ingresso segna le dieci e venticinque del mattino.
John afferra il cappotto abbandonato sopra la piccola scrivania in legno chiaro della stanza ed esce in fretta, il cuore che batte con violenza nel petto ed un sorriso timido – carico di speranza - a rischiarargli il volto.
 
 
 
 15. 
 
 
 
John, seduto in fondo alla piccola aula adibita alle discussioni sulle scarcerazioni, guarda con aria attenta i giudici prendere posto dietro la lunga scrivania in mogano scuro sistemata nella parte opposta della stanza. Alle loro spalle, nuvole grigie e cariche di pioggia si inseguono veloci oltre le alte finestre dai vetri opachi.
Nervoso, apre e chiude ritmicamente le dita delle mani, appoggiate sul cotone scolorito dei jeans. Vorrebbe visitare Sherlock, fargli sapere che è lì, ma non è certo che sia il momento migliore. Con molta probabilità sta spiegando alla polizia, per l’ultima volta, la sua versione dei fatti. La sua presenza finirebbe con l’essere una distrazione, più che un sostegno.
«Il dottor Watson, immagino.» Un uomo dall’aspetto distinto, in completo scuro, prende posto accanto a lui. Si tiene con forza una mano contro lo sterno e, sul viso, porta i segni di un pestaggio recente.
«Mycroft…?» domanda John e l’altro si limita ad annuire in silenzio, con un movimento lento della testa.
«Penso di dovermi complimentare con lei, per il modo nel quale Jim Moriarty è stato atterrato su quel tetto» riprende l’uomo dopo qualche secondo, con voce atona. «Una leva perfetta.»
«Perché crede che non possa essere stato Sherlock?» chiede John, muovendosi impercettibilmente sulla sedia, a disagio.
«Mio fratello ha la mente di un scienziato o un filosofo, ma ha deciso di essere un detective. Questo lo rende sicuramente molte cose, alcune delle quali inimmaginabili per la maggior parte di noi… ma, di certo, non un combattente addestrato.» Mycroft si gira verso il medico, lo sguardo serio ed il mento leggermente alzato.
«Mi dispiace. Non mi sono accorto della pistola» scuote la testa John dopo qualche secondo, combattendo l’istinto di abbassare gli occhi.
«Non si può avere il controllo su ogni cosa. Soprattutto all’inizio» risponde Mycroft, calmo. «È già molto che sia riuscito a combattere mentre correva lungo le strade di Londra.»
«Come…» comincia il medico, ma la campanella sopra la porta d’ingresso richiama la loro attenzione. Uno squillo acuto, aguzzo, che copre le sue parole, inghiottendole. È il segnale che Sherlock sta per essere portato a cospetto dei giudici.
«Mio fratello le ha mai detto quale sia il mio lavoro?» sussurra Mycroft, alzandosi con fatica dalla propria sedia, in modo che la sua figura sia distintamente visibile agli uomini e le donne in toga dall’altra parte della stanza.
John fa cenno di no con la testa, spostando gli occhi verso la commissione con espressione accigliata.
«Bene. Probabilmente, come al suo solito, esagererebbe. Ama ripetere che io sia il Governo inglese. In verità ho solo un piccolo ruolo dirigenziale, all’interno dell’autorità che ci amministra. Sono a capo dell’organo di controllo della sicurezza pubblica» continua l’altro, con voce bassa. John sgrana gli occhi, girandosi verso l’altro con la bocca socchiusa per la sorpresa.
«Quindi, so della sua corsa perché-»
«Mi ha visto correre» conclude il medico.
«Non io personalmente, è abbastanza palese. Ma mi è stato riferito. Al di là degli usi abietti che alcune persone decidono di farne, abbiamo un ottimo sistema di sorveglianza.» Mycroft si porta una mano alla cravatta, sistemandosi il nodo con un movimento misurato. Per un istante, il pensiero che Whispers abbia provato ad usare come un’arma un altro mezzo – oltre alla BPO - nato con lo scopo di proteggerli gli appesantisce le spalle, obbligandolo ad abbassarle. Qualche attimo dopo - quando la porta dietro di loro si apre e Sherlock, i polsi stretti posteriormente dalle manette, viene scortato da due agenti verso il centro della stanza - torna ad assumere una postura eretta, rigida.
John vorrebbe alzarsi, ma la mano di Mycroft - rigorosa, ferma - lo blocca al suo posto.
Il medico, allora, compare per un attimo al fianco di Sherlock. «Sono qui» gli sussurra, prima di sparire. Il detective, immobile di fronte ai giudici, accenna un sorriso.
«Sa come funzionano le visite, dopo che tra appartenenti a gruppi diversi si è instaurato un contatto visivo?» domanda Mycroft con tono vagamente irritato, voltandosi verso John. Il medico aggrotta la fronte, in silenzio, ma sa perfettamente cosa l’altro stia per dirgli.
«La vedo, adesso. E se le impedisco di alzarsi per non distrarre mio fratello in questo momento, non significa che può comparire dove vuole all’interno della stanza per sottrarsi al mio consiglio.»
«Più che un consiglio, sembrava un’imposizione…» sussurra John, ma la sua voce viene coperta da quella del giudice seduto al centro della fila.
«William Sherlock Scott Holmes, numero di matricola 19870312» dice, rivolto ai colleghi, con tono stentoreo. «Signor Holmes, ha rilasciato spontanea dichiarazione di fronte ad un membro del tribunale?» domanda poi, voltandosi a guardarlo. Il detective, a voce bassa, risponde di averlo fatto.
«Ha dichiarato la sua completa estraneità ai fatti a lei imputateti, conscio che un suo eventuale rilascio – in parte o in toto - di una falsa testimonianza sia da considerarsi grave reato e atto di offesa verso questa corte?»
Di nuovo, Sherlock annuisce. «Sì» ribadisce, con voce ferma.
«Il Consiglio ha deciso, all’unanimità, per la sua scarcerazione. Non potrà comunque allontanarsi da Londra prima che ogni documento prodotto - dal suo arresto fino al momento del suo rilascio - sia stato registrato e depositato. Ha capito?»
«Sì. Ho capito» conferma lui, sentendo uno dei poliziotti avvicinarsi.
«William Sherlock Scott Holmes, la dichiariamo libero di andare, fermo restando l’obbligo di dimora presso il suo domicilio, fino a data da comunicarsi.»
Qualche secondo dopo, il detective riesce a portarsi le mani davanti al viso, libere. Si osserva con interesse i polsi doloranti, attraversati da piccoli segni rossastri. I giudici, in silenzio, attendono di vedere il cancelliere apporre la propria firma in calce al verbale appena redatto. Poi - uno alla volta – si alzano, recandosi a sottoscrivere a loro volta il documento prima di avviarsi con passo spedito verso le porte laterali alle loro spalle.
L’ultimo, prima di uscire, rivolge a Mycroft - nuovamente in piedi, un’espressione altèra sul viso - uno sguardo d’intesa. Lui, rapido, ricambia con un cenno del capo, mentre un abbozzo di sorriso gli stira le labbra.
I poliziotti aspettano, ai due lati del detective, che tutti i giudici lascino dall’aula. Poi, velocemente, si avviano lungo il corridoio, uscendo a loro volta.
Solo dopo aver sentito la porta chiudersi dietro i due agenti Sherlock si volta, lento, cercando con gli occhi John e trovandolo in piedi accanto al fratello.
Per un attimo restano immobili, un sorriso impercettibile in bilico ai bordi delle labbra.
«Immagino che adesso vogliate restare soli» inizia Mycroft, atono, recuperando il proprio ombrello dalla sedia ed indirizzando al fratello uno sguardo serio, ma disteso.
«Dottor Watson, è stato un vero piacere, incontrarla» aggiunge poi, abbassando la testa in segno di saluto in direzione di John.
«Piacere mio» gli risponde lui, imitandone il movimento.
Mycroft lancia un’ultima occhiata al fratello, in silenzio, prima di avviarsi con passo lento verso l’uscita.
Il detective resta fermo, muto. Aspetta di vederlo uscire dalla stanza, prima di comparire al suo fianco mentre compie i primi passi attraverso il lungo corridoio che conduce all’ingresso del tribunale. «Grazie» gli sussurra, posandogli una mano su un braccio. Un tocco veloce, rapido, che Mycroft accoglie con stupore. «Serba con cura il ricordo di questo momento, perché non capiterà più che io dica una cosa simile» aggiunge con sguardo divertito il detective, prima di sparire.
Mycroft si ferma per un attimo, lasciandosi andare ad un breve sorriso. Poi, con calma, una mano allo sterno ed una sull’ombrello, si avvia verso l’uscita del tribunale. Dietro di lui, quieto, un gruppo di uomini, donne, bambini, si unisce ai suoi passi. Li percepisce, ma non si volta. È l’Arcipelago, e sa che da quel momento governerà con lui la BPO e le sue operazioni.
«Vogliamo andare a vedere il nostro ufficio?» chiede a mezza voce, alzando uno sguardo su Raj, ora in piedi accanto a lui.
«Che dite, vogliamo andare a dare un’occhiata al nostro ufficio?» domanda lui, voltandosi, e la domanda comincia a girare di orecchio in orecchio, in modo che possa giungere a tutti.
«Mi sembra un’ottima idea» sorride l’uomo, tornando a volgersi verso Mycroft dopo qualche secondo.
«Bene. Perché abbiamo molte cose, di cui parlare» ribatte lui, iniziando a scendere la scalinata posta di fronte all’ingresso principale del tribunale. «Molte cose da cambiare.»
 
 
 
 Epilogo 
 
 
 
John aspetta di vedere Mycroft chiudersi la porta alle spalle, prima di portare nuovamente gli occhi su Sherlock, ancora immobile al centro della stanza.
Gli sorride, esitante, e non sa se avvicinarsi o meno. Il detective, la testa leggermente inclinata da un lato e le labbra socchiuse, riporta le braccia lungo i fianchi, incerto su cosa fare.
«Posso…?» domanda il medico dopo qualche secondo, accennando un sorriso dubbioso.
«Sì. Direi… direi di sì» risponde l’altro, sentendo il petto iniziare a farsi stretto, incapace di contenere del tutto il battito del suo cuore e la paura - mista a desiderio - che sembra avvolgerlo, aumentando ad ogni pulsazione.
«Ok… bene» sussurra il medico, cominciando a muovere qualche passo incerto in direzione dell’altro.
Quando, dopo qualche secondo, si trovano l’uno di fronte all’altro, riescono solo ad allungare una mano in modo da sfiorarsi. Basta un tocco leggero, accennato, per riempire gli occhi di lacrime e svuotare i respiri. Per un attimo, uno soltanto, il medico ha la sensazione di riuscire ad accarezzare se stesso, la propria anima. È come una scarica elettrica continua, una muta comunicazione tra due organismi simbiotici.
«Sei davvero qui?» domanda, ed il detective annuisce appena, abbassando la testa in modo da poterla appoggiare a quella dell’altro.
«Dio…» esala John, il corpo teso al punto da tremare. Il sudore sulla pelle di Sherlock, fresco, sembra quasi una fiamma, a contatto con il suo. Si sente avvampare, ma il fuoco che lo avvolge è ristoratore come acqua fredda in una giornata d’arsura.
«Andiamo a casa… vuoi?» sussurra il detective, e non riesce a trattenere un brivido. Ha freddo, un freddo così forte, totale, da sembrare cocente.
«Casa?» chiede con un sussurro John, gi occhi chiusi e i capelli dell’altro a mescolarsi ai propri.
«Baker Street» mormora Sherlock, abbassando le palpebre a sua volta.
Il medico annuisce, prima piano, poi con maggior convinzione. Poco lontano, le loro ombre si fanno visita, unendosi in un bacio nel quale sembra rannicchiarsi, per un attimo, l’intero universo.
 
La signora Hudson si affaccia nel salotto pochi minuti dopo il loro arrivo. Accoglie la notizia del trasferimento di John – che il detective le comunica senza giri di parole, in modo risoluto, fermo - nella stanza al piano superiore con sollievo evidente e sguardo gioioso. John e Sherlock ne hanno parlato durante tutto il tragitto per tornare a Baker Street, e la scelta è parsa la più logica, e naturale, ad entrambi.
«Almeno saremo in due, adesso, a controllare le follie di questo benedetto ragazzo!» commenta la donna, allegra, porgendo una mano in direzione del medico. «Solo una cosa: io sono la padrona di casa, non la vostra governante» si affrettata a sottolineare, e John annuisce con forza, rassicurandola di non aver alcuna intenzione di confondere le due cose.
«Poi dovrai spiegarmi, caro, cosa sia accaduto al tuo viso. E perché io sia dovuta rimanere lontana da casa mia per ben due giorni, in attesa di una tua chiamata» aggiunge lei, rivolgendosi a Sherlock. «Il tuo messaggio mi ha molto impensierita, lo sai? Non si fanno queste cose, ad una donna della mia età!» lo sgrida bonariamente, ammiccando in direzione del medico.
«Ha ragione, signora Hudson» le concede il detective, appoggiandole una mano sulle spalle. «Ma avevo una piccola cosa di sistemare, e non potevo permettere che corresse qualche rischio. Lo sappiamo tutti che senza di lei crollerebbe l’Inghilterra!» aggiunge e John, a pochi passi da loro, non può che notare quanto profondo sia l’affetto che li lega.
La donna scuote la testa, sorridendo. Da un paio di pacche sul petto di Sherlock, con premura, prima di staccarsi da lui, diretta alla porta. «Ragazzo mio, chi riesce a capirti è bravo!» ride, fermandosi sul pianerottolo e girandosi in direzione di John. «Lei dev’essere un uomo davvero straordinario, se Sherlock l’ha scelta» afferma, affettuosa.
«Ci siamo scelti a vicenda» replica il detective e la donna, sorpresa, non riesce a trattenere un moto di commozione.
«Meglio che vada…» sussurra dopo un secondo di spaesamento, emozionata, sparendo in fretta lungo le scale.
«Deve volerti veramente molto bene…» commenta il medico, girandosi verso Sherlock con il viso disteso.
«Certo che me ne vuole. Ho fatto arrestare suo marito!» ribatte lui, sorridendo davanti all’espressione smarrita dell’altro. «Thè?»
«Prima occupiamoci della tua schiena» risponde John, tornando serio. «Hai una cassetta di pronto soccorso?»
 
«Non ti muovere… ho quasi finito.» John immerge ancora una volta una garza nell’acqua fredda, appoggiandola con attenzione sulla cute arrossata dell’altro.
Seduto a cavalcioni su una delle sedie del salotto - le braccia appoggiate allo schienale che ha davanti - Sherlock chiude gli occhi con forza, cercando di trattenere un gemito di dolore che, lo sa, finirebbe solo con l’aumentare la rabbia che si agita nel petto dell’altro ad ogni medicazione che compie sulla sua schiena.
«Non dovresti essere così teso» gli dice dopo qualche secondo, quando lo shock del contatto tra l’acqua gelata ed il caldo dell’epidermide irritata si è alleviato, mitigato. «Sono solo lividi.»
«Sono lividi sulla tua pelle» ribatte il medico, chiudendo con violenza la cassettina bianca del primo soccorso. «Perché, esattamente, non dovrei essere “teso”? O furibondo?»
«Perché esserlo non li farà sparire prima» risponde il detective, calmo. «E non cambierà quello che è successo.»
John si blocca, sul viso un’espressione pensierosa che si rispecchia nei movimenti inquieti delle mani.
«Non puoi cambiare il passato, John. Non è in tuo potere.» Sherlock gira la testa verso di lui, gli occhi azzurri fissi sul suo volto serio.
«Sarei dovuto rimanere con te, su quel tetto» sussurra il medico, scuotendo la testa.
«Sei rimasto con me» gli ricorda Sherlock, aspettando di sentire il respiro dell’altro farsi più leggero, meno affannoso. «Sei con me dal primo momento nel quale ho incrociato lo sguardo su quel divano» dice, indicando con un cenno della mano il sofà alla loro destra. «Probabilmente ci sei da sempre, dal primo vagito.»
Il medico socchiude gli occhi, aggrottando la fronte.
«Ho fatto un po’ di ricerche, prima di incontrare Whispers, su quel tetto.» Sherlock si alza, scendendo dalla sedia con un gesto fluido. «Alcuni scienziati hanno scritto articoli e libri sulla possibile esistenza dell’Homo Sensorium» spiega, andando a recuperare il proprio computer, abbandonato sul tavolo della cucina. «Diversi di loro sostengono che gli appartenenti ad una cerchia condividano il primo pianto, nascendo nello stesso esatto momento. Che questo li leghi l’un l’altro ancor prima che i loro geni si risveglino» legge, il pc aperto stretto tra le mani.
«Quando sei nato?» chiede poi, alzando gli occhi sul medico.
«Il sei gennaio» risponde lui, abbozzando un sorriso davanti all’espressione stupita dell’altro.
«Oh…» sussurra il detective, sbattendo un paio di volte le palpebre, meravigliato. «Sì… è probabile che fossi lì davvero dal primo momento» aggiunge, mentre il medico si avvicina a lui con passi lenti.
«Bene» inizia John, togliendogli il computer dalle mani, e appoggiandolo con delicatezza sul bracciolo della poltrona di stoffa alla propria destra. «È meraviglioso, saperlo» continua, voltandosi nuovamente verso l’altro. «Così saprò di esserci stato dal primo momento fino all’ultimo» gli soffia sulle labbra, portandogli una mano su una guancia e spingendolo verso di sé.
Sherlock si lascia guidare, docile, aspettando di sentire la pressione delle labbra dell’altro sulle sue, prima di schiuderle.
C’è qualcosa, nel sapore di quel bacio, che ricorda al medico un giorno di primavera di molti anni prima, l’odore del mare in tempesta che si infrangeva sulla scogliera dalla quale – curioso – si era affacciato, ancora bambino, con le mani strette all’erba alta e il ventre a terra.
Per Sherlock, invece, ha l’odore dei campi aridi del Sussex, gialli come il sole che li bruciava rendendo la terra dura sotto i suoi piedi scalzi.
Ha il dolore della solitudine, ed il piacere della lettura.
John ci scorge la paura della morte, chino su un campo di battaglia, e le lacrime di gioia di scoprirsi vivo.
Restano così, immobili, uniti, fino a quando anche l’ultimo ricordo, l’ultima emozione, non è passata da l’uno a l’altro. Fin quando l’ultimo pianto non è stato consolato, e l’ultima risata condivisa. Fin quando non restano che loro, soli, spogliati di ogni cosa, di ogni pudore. Nudi come si erano incontrati anni prima, per un secondo, il miracolo della nascita ancora addosso - tra le dita, su ogni centimetro di pelle - ed un filo invisibile a legarli.
John si stacca per primo, respirando con affanno sul volto dell’altro. Ha freddo e, allo stesso tempo, si sente bruciare.
Sherlock, il viso arrossato e gli occhi lucidi, lo guarda per qualche secondo, cercando di capire dove finisca il proprio corpo, e dove inizi quello dell’altro. Dove terminino i suoi pensieri, i suoi desideri, e dove inizino quelli di John.
«Vorresti…?» inizia il medico, ma non riesce quasi a parlare. Trema, spaventato che qualcosa mandi in frantumi il miracolo di cristallo che ha davanti agli occhi.
«Vorresti?» gli fa eco Sherlock, mordendosi le labbra, e John non ha mai desiderato nulla in tutta la vita tanto quanto adesso desidera stringere l’altro tra le braccia.
Il detective lo sente. Percepisce quella necessità come propria, un riflesso forte e tirannico di ciò che si agita nelle sue vene, nei suoi respiri.
Sono le loro ombre, in un angolo della stanza, a dirsi reciprocamente che sì, lo vogliono più di ogni altra cosa al mondo. Loro, le bocche di nuovo vicine, si stanno invece sfilando gli abiti, veloci.
«Ti farai male…» riesce a dire John, a fatica, mentre l’altro finisce con la schiena contro il muro di fianco alla porta della cucina. «Non voglio che ti faccia male» insiste, e Sherlock si blocca, cercando di riprendere fiato.
«Vieni…» riesce a dire dopo qualche secondo, a singhiozzi, afferrando la mano dell’altro e portandolo verso la propria stanza, veloce, attraverso il corridoio in penombra.
Dietro di loro, in un angolo della sala, le loro ombre si mescolano, a terra, in un movimento ritmico e pulsante.
Senza parlare, in silenzio, il medico accompagna Sherlock sul letto, facendolo sdraiare con attenzione. Lui, la testa inclinata all’indietro e le labbra socchiuse, aspetta solo di sentire John muoversi su di lui come già sta facendo, nel loro salotto.
C’è un attimo, un attimo preciso, unico, perfetto, nel quale John scivola in lui nello stesso momento e con la stessa intensità con cui - nell’altra stanza - i loro stessi spiriti, il loro essere, stanno facendo altrettanto. Le ombre spariscono, lasciando solo il piacere di sentirsi, percepirsi, in ogni più piccolo aspetto, respiro, movimento.
Ad ogni spinta Sherlock inarca la schiena, cercando di aggrapparsi con le dita al corpo dell’altro, steso sopra di lui. John, ad ogni gemito dell’altro, sente i propri aumentare, amplificarsi, sdoppiarsi.
Una spinta e Sherlock lo sta guardando, con i capelli umidi e le labbra arrossate, socchiuse. Una spinta ed è sdraiato di schiena, i segni dei lividi quasi invisibili nel rossore della pelle. Un’altra e sono abbracciati, uniti, e John lo bacia con tanta foga da sentir dolore i muscoli del viso.
Continua a muoversi, John, e attorno a loro il paesaggio muta costantemente, ad ogni brivido, ad ogni gemito, ad ogni goccia di sudore che si stacca dai loro corpi.
Sono in prato, poi nel mare. La sabbia calda li circonda, sostituita poi dal fresco delle tegole del tetto sopra le loro teste. Sono ovunque, in ogni luogo riescano ad arrivare con la mentre. Prima è John a muoversi dentro di lui, e un attimo dopo è Sherlock a scegliere come e quanto in profondità spingersi.
«John…?» lo chiama il detective quando, sdraiato sotto di lui, sente di non riuscire a trattenersi oltre.
«Sherlock» gli risponde l’altro, in ogni luogo si trovino. Nel silenzio di una spiaggia deserta, nella confusione di una piazza affollata. In posti persi nel tempo, ed in altri che non hanno mai visto, che riescono solo ad immaginare.
L’ultima spinta, l’ultimo respiro, l’ultimo gemito si mescolano tra loro con così tanta forza che John ha l’impressione che non riuscirà mai più a staccarsi dall’altro. Che si siano fusi, insieme, in un unico corpo che può sopravvivere solo se resta unito, ansimante, bollente, coperto di sudore, baci e lacrime di gioia.
Sono di nuovo a Baker Street ed il letto, attorno a loro, sembra un campo di battaglia. John, scosso dei tremiti, si accascia vibrante e fremente accanto all’altro, il viso arrossato dallo sforzo e dal piacere.
Sherlock ha solo la forza di girare il volto verso di lui, mentre un brivido lo scuote, facendolo tremare.
«Dio…» sussurra il medico, allungando una mano per sfiorarlo. Un tocco leggero, lieve, che quasi riesce a percepire, a sua volta, sulla propria pelle.
Sherlock socchiude le palpebre, stremato.
Vorrebbe dormire, ma ha il terrore che John possa sparire non appena avrà chiuso gli occhi.
«Dormi» gli sussurra lui, passandogli una mano tra i capelli bagnati. «Io resto qui.»
«Sei sicuro…?» domanda il detective, la voce impastata.
«Mi troverai qui ad ogni risveglio. Te lo prometto» mormora John, con un sorriso. «Non importa chi dei due prende sonno per primo» aggiunge, mentre il detective si accovaccia di fianco a lui. «Siamo qui. Siamo davvero qui. Insieme» termina a voce bassa, continuando a muovere le dita, lente, tra i capelli di Sherlock, già addormentato.
Dopo qualche minuto si gira su un fianco a sua volta, appoggiando la fronte a quella dell’altro. Chiude gli occhi, prendendo sonno quasi subito.
 
 
Il vento, in piccole folate scomposte, accarezza l’edera abbarbicata su quanto resta della parete est di St. Dunstan, risuonando tra gli archi ormai vuoti delle finestre.
Due ombre passeggere, fugaci, compaiono nell’esatto punto dove - nel 1941, lacerate da una bomba tedesca - le centenarie pietre della chiesa si sono ripiegate sopra l’altare.
Sdraiate a terra, addormentate, si tengono per mano con forza, e respirano all’unisono.
 
Insieme.
 
Come hanno sempre fatto, da quando sono nate.
 
 
 
 
 
  
 
 “Non so esattamente cosa spinga due persone a legarsi. Forse la sintonia, forse le risate, forse le parole. […] O forse accade perché doveva accadere. Perché le anime sono destinate a trovarsi, prima o poi.”
 
(Paulo Coelho)
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Sono stata a lungo in dubbio sullo sviluppo della scena sul tetto ma, dopo molte riflessioni, ho pensato che fosse la soluzione “più in linea” con il personaggio (sia come Whispers che, soprattutto, come Moriarty). Jim ha lavorato a lungo nella BPO, raccogliendo materiale da usare come arma. Per lui si tratta di una partita a scacchi e, pur di vincere, è disposto a sacrificarsi come in qualità di pedina fondamentale. Per molto tempo (diciamo fino alla conclusione della s4! ^_^’’) sono stata fermamente convinta che Moriarty si fosse sparato, al termine della seconda stagione di Sherlock, per lo stesso identico motivo.
 
Eccoci qui. Dopo tre settimane, questa piccola (piccolissima!) immersione nell’universo sense8 si è conclusa.
Ho amato davvero molto scrivere questa storia (e non escludo di tornare a farlo!), e spero di cuore che il tempo passato in sua compagnia possa essere stato piacevole. ^_^
Vi ringrazio, come sempre, per aver letto fin qui. Per aver commentato, aggiunto la storia a qualche categoria, condiviso con me i vostri pensieri, sensazioni ed emozioni.
Questo viaggio – come del resto tutti i precedenti - non avrebbe avuto senso senza voi dall’altra parte, quindi grazie ancora per avermi accompagnata in questa avventura.
 
 
 
 
Rubo – a chi vorrà continuare a leggere – qualche secondo per condividere una cosa che mi sta molto a cuore: l’inizio di un altro viaggio che, però, si svolgerà al di fuori di questo luogo.
Ho cominciato a pubblicare su questo sito il 4 gennaio del 2016 e, in quei giorni, avevo da poco finito di scrivere il manoscritto di un romanzo giallo.
Il titolo iniziale - quello con il quale lo hanno conosciuto parenti e amici, lo stesso usato per le prime spedizioni alle case editrici, quello impresso sulla prima pagina di pile e pile di fogli stampati in copisteria per le correzioni - era “Rebus”. A ripensarci adesso, sembra passato un secolo.
In questo anno e poco più, a quel manoscritto è successo un po’ di tutto.
Ha cambiato titolo, divenendo “Brainteaser”. Ha partecipato ad un concorso nazionale, arrivando tra i finalisti come opera scelta dalla Scuola Holden, che si è poi presa carico – per sei mesi - di fargli da agenzia letteraria. Infine, è approdato ad una piccola Casa Editrice siciliana, la Smasher Edizioni, che lo ha voluto nel proprio catalogo.
Durante questi passaggi ho spesso gioito, condividendo piccoli e grandi traguardi con chi mi era accanto (comprese alcune persone – che reputo amiche a tutti gli effetti - conosciute proprio su EFP). Ogni tanto c’è stata qualche ferita da curare, e momenti di stanchezza da superare. Più volte mi sono chiesta se avrei mai avuto un porto davvero sicuro per Sasha ed Alex, i due protagonisti.
 
Vi scrivo tutto questo per raccontarvi la fine di questo percorso (in parte lontano ed in parte così vicino a quelli che, ogni giorno, compiamo tra le pagine di questo sito) che è anche l’inizio – come vi accennavo - di un nuovo viaggio:
 
Brainteaser uscirà il 7 giugno.
 
Come ho avuto modo di scrivere su Facebook, e poi su Twitter, sono felice e – allo stesso tempo – terrorizzata.
Per questo vorrei chiedervi, se possibile, un favore.
Come già fatto in fase di trasferimento all’estero vi domando, se vi va, di dedicare un piccolo pensiero positivo (un po’ come i “Pensieri Felici” che facevano volare i Bambini Sperduti in “Hook - Capitano Uncino”! XD) per me ma, soprattutto, per Sasha ed Alex (che sono di certo più importanti).
 
Sarebbe bellissimo iniziare questa nuova fase con la compagnia del vostro sostegno emotivo.
 
 
Grazie, ancora una volta e come sempre, a chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.
 
 
 
 
 
Il viaggio comincia laddove il ritmo del cuore s’espone al vento della paura.
(Fabrizio Resca)
 
 
 
 
 
P.S.: Vi lascio con la copertina del romanzo (che amo profondamente). Se volete, cliccandoci sopra verrete portati alla scheda del libro sul sito della Casa Editrice. ^_^
 
 
 



 
   
 
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