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Autore: Sophja99    03/06/2017    5 recensioni
Le meditazioni della zarina Elisabetta Alekseevna di fronte alla distruzione di Mosca dopo il terribile incendio del 1812, avvenuto nel corso della campagna napoleonica, e sulla sua seguente ricostruzione.
Storia partecipante al contest "Ogni mese, la sua città", indetto da cutepie sul forum di Efp.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Periodo Napoleonico
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Un fiore tra la cenere


D’inverno, né calore, né luce, né pien meriggio; la sera e il mattino si confondono, tutto è nebbia e crepuscolo, la finestra è appannata e non ci si vede bene. Il cielo è uno spiraglio, come l’intera giornata è una cantina: il sole ha l’aria d’un povero. Stagione spaventosa! L’inverno muta in pietra l’acqua del cielo ed il cuore dell’uomo.
(Victor Hugo)


Ottobre, 1812

Quella mattina era caduta la prima neve di fine ottobre, inaugurando la stagione invernale. Le fiamme dell'incendio si erano sopite ormai da giorni, portando via e distruggendo case, edifici, chiese e negozi e lasciando dietro di sé solo la cenere, che ora si confondeva con la candida neve al suolo.

La zarina Elisabetta Alekseevna non riusciva a credere che Mosca, un tempo la più grande e maestosa città dell'intera Russia, fosse stata ridotta a nulla più che rovine dal terribile incendio.

Con gli anni quello era divenuto il posto in cui preferiva stare e le piaceva rifugiarsi per sfuggire alla severa corte russa di San Pietroburgo, sebbene Mosca fosse anch'essa ben diversa rispetto alla sua terra di origine. Doveva pur ammettere che all'inizio per lei era stato difficile abituarsi a quella nuova realtà e alla vita in Russia. Il freddo degli inverni tedeschi non era minimamente paragonabile a quello russo. Oltretutto, la città da cui lei proveniva, Karlsruhe, si trovava in una delle regioni dal clima più mite della Germania, in cui l'inverno era meno rigido della media tedesca. La prima volta che era arrivata a San Pietroburgo, su invito dell'imperatrice di Russia Caterina, intenzionata a trovare una sposa adatta al nipote Alessandro, era rimasta stupita dal gelido clima russo, sebbene nel periodo in cui vi era andata per la prima volta fossero ancora in autunno, e da usi tanto diversi da quelli a cui era solita. A quei tempi era solo una bambina timida, di nome Maria Luisa, e ricordava ancora benissimo il timore che le aveva incusso l'imperatrice e i nobili di corte, con i loro intrighi e sorrisi falsi. Riuscì a trovare sollievo e sicurezza solo in Alessandro. Il loro amore era sbocciato lentamente e ingenuamente, come un fiore delicato e meraviglioso. Non fu semplice intendere l'uno i sentimenti dell'altro, poiché allora era anche lui un bambino molto insicuro, ma a Elisabetta bastarono poche settimane per innamorarsi e, quando si furono dichiarati l'uno all'altra, l'imperatrice si affrettò ad organizzare le loro nozze. E fu così che la piccola Maria Luisa divenne la donna e moglie Elisabetta Alekseevna.

Elisabetta si voltò a guardarlo. Alessandro era in piedi, fiero nelle vesti da imperatore che aveva indossato per tanti anni, senza neanche un attimo di riposo dagli impegni pubblici, politici ed esteri, soprattutto in quegli ultimi difficili anni. Quelli erano tempi duri per la Russia, ancora provata dalla disastrosa campagna di Napoleone, e sulle sue spalle era ricaduto il gravoso compito di mostrarsi forte di fronte al popolo stremato dagli interminabili e terribili anni di guerra. Lei però lo conosceva, perché gli anni di matrimonio, fitti non solo di amore, ma anche di difficoltà, infelicità, crisi e tradimenti, erano riusciti a rinsaldare almeno in parte il loro critico rapporto e ad avvicinarli. Infatti, aldilà dei problemi e delle sofferenze che avevano affrontato, l'affetto e la protezione che si davano non erano mai scomparse e mai erano state coperte dalla freddezza e dal disinteresse, che, eppure, spesso avevano minacciato di distruggere definitivamente il loro legame.

Solo lei, perciò, riusciva a vedere quanto in realtà suo marito fosse stanco e triste. Di fronte all'implacabile avanzata di Napoleone e al massacro della battaglia di Borodino, si era trovato costretto ad abbandonare con lei Mosca, una delle città più importanti della Russia e, un tempo, la più bella insieme a San Pietroburgo, lasciandola nelle mani dell'esercito nemico. Napoleone era riuscito a sconfiggere la barriera umana dell'esercito russo e a penetrare nella città, facendo la sua entrara trionfale. Mai, tuttavia, egli si sarebbe aspettato di trovarla deserta, eccezion fatta per i più anziani, infermi e poveri, che, nella fretta della fuga da Mosca, erano stati lasciati là. Il giorno dopo nella città venne appiccato un incendio, i cui responsabili non erano ancora stati individuati, che dilagò in fretta, prima in piccole aree e quartieri, per poi raggiungere quasi l'intera superficie di Mosca, favorito dalla cospicua presenza di edifici in legno. Questo tolse a Napoleone la possibilità di sfruttare e saccheggiare i viveri e le ricchezze abbandonati dai russi nelle loro case e palazzi.

Egli non riuscì a vedere altra via se non quella di tornare indietro e fare ritorno in Francia, perché, altrimenti, sarebbe rimasto bloccato nella città distrutta e disabitata senza i mezzi per nutrire e garantire la sopravvivenza dei suoi soldati e avrebbe dovuto affrontare l'intera stagione invernale, già di per sé dura da sopportare, non essendovi abituati, con la costante minaccia di sommosse in Francia e negli stati sottomessi fomentate dai suoi avversari.

La fuga precipitosa di Napoleone avrebbe dovuto rappresentare una vittoria per Alessandro e una prova della forza del popolo russo, poiché la loro patria era stata liberata dagli oppressori e conquistatori francesi, ma tutto ciò era accaduto a caro prezzo. Avevano perso quasi tutto, poiché anche altri villaggi e città erano state abbandonate e date alle fiamme per sottrarre ai francesi i loro depositi di cibo e sostentamento e indebolirli grazie all'avanzata del terribile inverno russo, oltre che alla forza del loro esercito e degli attacchi che questo aveva perpetuato. Molti avevano perso le loro case e i loro averi, nobili compresi, ed ora si ritrovavano senza più nulla in mano.

In seguito all'incendio, in qualsiasi parte della città si andasse, si potevano vedere solo ruderi e cadaveri di russi e di francesi incondizionatamente, chi ucciso durante l'incendio, chi per l'odio e sotto le armi dell'esercito invasore.

I francesi non avevano mostrato la minima pietà verso i numerosi russi che non erano riusciti (o forse non avevano trovato il coraggio) a fuggire e lasciar diventare i loro averi merci e premi dei soldati nemici. Molti di loro erano stati giustiziati mediante fucilazione, altri erano morti per malattia e per il freddo, indeboliti dalla scarsità di cibo. Anche dopo l'incendio e la fuga dell'esercito, i morti non erano diminuiti, bensì aumentati; solo che stavolta le vittime erano i francesi stessi. Quando questi se n'erano andati, avevano lasciato dietro di loro una scia di morte e corpi senza vita.

Ma la vera vittima della campagna francese in territorio russo e la più devastata, oltre al loro popolo, era stata Mosca. Quel giorno i russi stavano rientrando in città, pochi giorni dopo la partenza repentina di Napoleone, che al momento si trovava debole e lontano e non rappresentava più un pericolo per loro e la loro patria, logorato e decimato com'era il suo esercito. Però, mai avrebbero mai potuto anche solo lontanamente immaginare che Mosca fosse ridotta ad un cumulo di macerie.

Erano molti gli edifici scampati alle fiamme, tra cui diverse chiese, alcune ancora intatte, e il Cremlino, simbolo del potere politico e civile della città, ma altrettanti erano quelli distrutti dalla furia dell'incendio. Interi quartieri erano scomparsi, lasciando solo polvere e rovine al posto degli edifici, insieme all'eco dello splendore che erano stati un tempo.

Mosca, o ciò che ne rimaneva, si estendeva sotto ai loro occhi, dall'alto della Collina dei passeri, dove Elisabetta si era recata insieme al marito e a un manipolo di burocrati per constatare con i loro occhi i danni apportati a quella meravigliosa città, ora quasi irriconoscibile. Il fiume Moscova serpeggiava sinuoso e solenne nella città, passando in mezzo alla zona interamente bruciata di Mosca, quindi al Cremlino, che poteva scorgere da lontano, per poi fuoriuscirne. La zarina, inoltre, vide con estremo sollievo che la splendida cattedrale di San Basilio era rimasta praticamente intatta, mentre aveva saputo dai primi bilanci sulle perdite artistiche che erano stati distrutti i teatri Arbatskij e Petrovskij, così come la biblioteca Buturlin e l'università statale della città. Quel giorno gran parte dell'arte e della cultura russa contenuta a Mosca erano andate perdute, portate via dall'impeto del fuoco.

Abbassò lo sguardo, non riuscendo più a reggere la vista di una tale devastazione, e gli occhi le caddero su un minuscolo e innocuo fiorellino. Era tanto piccolo da poter essere scorto solo quando vi si guardava con particolare attenzione, soprattutto perché i petali bianchi si confondevano con la poca neve che era scesa. Forse era proprio per quel motivo che riusciva ancora a resistere, sebbene esso fosse già piegato sotto il peso di alcuni fiocchi che si erano posati sui suoi petali. Eppure, il fiore, nonostante fosse evidente che il freddo lo avrebbe fatto appassire e morire, continuava a sopportare quel fardello e a perseverare. Speranza, ecco cosa le venne in mente, guardando l'incredibile forza di quel piccolo fiore.

Non sarebbe stato affatto facile ricominciare; Elisabetta lo sapeva con assoluta certezza, soprattutto per le precarie condizioni economiche in cui Napoleone li aveva lasciati, ma era anche sicura che, con la stessa forza di volontà e fermezza che aveva loro permesso di logorare e sconfiggere lo sterminato esercito francese, sarebbero riusciti a ricostruire tutto e ripartire da dove quell'assurda campagna li aveva costretti a interrompere il normale scorrere delle loro vite, per affrontare la minaccia francese.

Avrebbero trovato il modo di ripartire e riedificare non solo Mosca, ma l'intero paese dalle macerie. Avrebbero sopportato il dolore e le ferite che quell'esperienza aveva lasciato loro e sarebbero andati avanti, con il medesimo coraggio che stava dimostrando quel fiore, all'apparenza tanto delicato e fragile.

Ce la faremo pensò Elisabetta, guardando il viso di profilo di Alessandro, che a sua volta stava osservando con preoccupazione malcelata ciò che era rimasto della città. Gli strinse delicatamente la mano, inducendolo a voltarsi verso di lei. Insieme.



Dicembre, 1819

Mosca stava ricrescendo dalle sue ceneri, avviandosi a tornare la città grande e florida che era stata un tempo. Nonostante la neve e il freddo pungente, gli operai continuavano a lavorare per ricostruirla e renderla quella di prima dell'incendio, che l'aveva lasciata spogliata e in gran parte distrutta.

Elisabetta si portò alle labbra il bicchiere colmo di caldo e pregiato vino, sperando che quello, insieme al fuoco che scoppiettava nel camino della stanza, riuscisse a riscaldarla a dovere. Non appena ighiottì il liquido e lo sentì scendere fino allo stomaco, con il suo consueto e ormai piacevole pizzicore, percepì il fresco farsi meno rigido di prima e più sopportabile.

Mentre appoggiava il calice ancora pieno su un tavolinetto, sentì qualcuno avvicinarsi a lei da dietro e toccarle le braccia con fare protettivo. Lei appoggiò la mano sulla sua e insieme, stretti l'uno all'altro, continuarono a guardare la città attraverso le ampie e leggermente appannate per il freddo vetrate di una delle tante stanze del Cremlino, ma senza dire nulla. In quegli ultimi anni avevano avuto fin troppe occasioni per farlo, soprattutto quando le loro conversazioni si erano tramutate in aspre liti, sia a carattere politico che sentimentale. Tuttavia, era evidente che in quegli ultimi anni periodo il loro rapporto si era riassestato all'improvviso, guarendo tutte le ferite che si erano reciprocamente provocati e le crepe createsi con gli anni. I ripetuti tradimenti e l'indifferenza con il tempo avevano congelato i sentimenti genuini che avevano provato duranto i loro primi incontri e agli albori del loro matrimonio. Solo la morte delle sue due bambine, Maria ed Elisabetta, e il profondo dolore che queste perdite le avevano portato erano stati in grado di riavvicinarli.

Il prematuro decesso di Maria, a solo un anno di vit,a la gettò in uno stato di profonda infelicità e depressione, peggiorato dopo che ebbe ascoltato la notizia che suo marito aveva iniziato ad intrattenere una relazione amorosa con la principessa polacca Maria Czetwertynska. Lei allora tentò di attenuare la sofferenza che si portava dentro riprendendo i contatti e riallacciando una relazione con il suo vecchio amante, Adam Czartorysky, e in seguito il capitano Aleksej Ochotnikov. Dopo tre anni rimase incinta, forse dello stesso Aleksej. Non avrebbe mai potuto sapere la vera identità del padre della piccola, poiché lui morì pochi giorni dopo la sua nascita e la bambina, che aveva chiamato con il suo stesso nome, Elisabetta, lo seguì dopo soli quindici mesi di vita.

Entrambe le sue bambine non vissero abbastanza per far comprendere alla zarina cosa volesse dire essere una madre, né per permetterle di vederle crescere nella stessa felicità che lei aveva sperimentato in giovinezza e diventare donne. Quando aveva abbracciato per l'ultima volta il corpicino fragile e morente della figlia, il dolore che aveva sentito nel cuore era stato talmente forte da farle pensare che non sarebbe più riuscita a riprendersi da un tale colpo.

Odiava ricordare quei terribili giorni: si era sentita abbandonata e sola come mai prima e aveva trascorso ogni singolo minuto a piangere nello stesso letto in cui la sua piccola Lisinka era stata data alla vita, per poi vedersela privare così brutalmente. A quell'epoca non riusciva più a vedere speranza di redenzione e rinnovata felicità per la sua anima. Continuava a chiedersi perché un simile fardello fosse toccato a lei e ad augurarsi di poter morire anche lei per non dover essere più costretta a sopportare un tale dolore e per poter rivedere ancora una volta le sue tenere bambine.

Alla fine, però, aveva davvero ritrovato la speranza: Alessandro le era stato vicino notte e giorno, confortandola e aiutandola a poco a poco a ritrovare la voglia di vivere e a riscoprire il suo affetto per il marito, che, tutto sommato, non aveva mai smesso di provare, nonostante le crisi e le difficoltà. Lui le era stato vicino quando nessun altro avrebbe potuto farlo e con la sua presenza costante e rassicurante l'aveva guarita.

Ed ora i tempi in cui erano costretti a trovare calore e conforto tra le braccia di altri amanti erano solo un ricordo lontano. Non erano certamente una coppia perfetta e pienamente felice, perché mai sarebbero potuti esserlo con l'ombra delle sofferenze e tradimenti che si portavano dietro come macigni, ma l'importante era solo l'amore che provavano l'uno per l'altra e che ancora li univa.

Di pari passo con il loro rapporto, anche Mosca stava lentamente guarendo dalle ferite lasciate dall'incendio. All'improvviso ripensò a quel piccolo e fragile fiore che aveva notato durante il loro ritorno a Mosca, successivamente all'accaduto. Si chiese che fine avesse fatto dopo tanti anni: era riuscito a sopravvivere all'inverno? Era morto o, invece, era cresciuto tanto fino a diventare una pianta grande e rigogliosa, rinata con l'avvento della primavera?

Se lo immaginò forte come appariva allora, alto anche in mezzo alla neve e alla cenere. Alla fine la speranza e l'amore avevano sopraffatto la morte e la distruzione, lasciando di essi solo il lontano e doloroso ricordo. Avevano ricostruito ciò che avevano perso e Mosca stava gradualmente tornando quella di un tempo, così come il loro matrimonio. Continuò ad osservare rapita la maestosità della città su cui stavano cadendo fitti fiocchi di neve, mentre pensava: Ce l'abbiamo fatta, mon trésor. Mosca è rinata, grazie alla speranza e alla nostra forza.

   
 
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