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Autore: CalimeNilie    07/06/2017    6 recensioni
Due donne si incontrano in una sala d'aspetto. Non si conoscono, non si sono mai incontrate, non sanno da dove vengono, ma si riconoscono.
Dal testo: "Lei è una pittrice, ci sa fare con i volti delle persone. Ma il viso bellissimo di questa ragazza continua a sfuggirle, i suoi lineamenti continuano a sgretolarsi e confondersi, tirandosi in immagini impossibili. Osserva ancora il suo profilo morbido, la curva ben disegnata del naso, le ciglia lunghe, la piega gentile delle labbra.
Prova per l’ennesima volta a riportare alla mente un ritratto di quella ragazza, cercando di inserirla in un contesto, in un paesaggio. L’unica immagine che le attraversa la mente, incoerentemente, è lo skyline magnificamente illuminato di New York, che si riflette in un paio di occhi verdi sgranati, occhi immensamente tristi.
(Come fanno degli occhi a essere tristi?)"
[Clexa, AU]
Genere: Angst, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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[“Mehr licht!”, “Più luce”, sono tradizionalmente le ultime parole pronunciate da Goethe in punto di morte. Si pensa che esse possano riassumere la concezione filosofica dello scrittore, secondo la quale, se un uomo vivo non concepisce la morte, la sua vita non finirà.]



 


Si è intrecciata i capelli, stamattina. Lo ha fatto senza pensarci, per il puro piacere di far scorrere le dita attraverso le ciocche morbide e scure per imprigionarle in una treccia ordinata. Non ricorda di averlo fatto, se ne accorge solo ora, mentre osserva distrattamente il proprio riflesso nello specchio appeso alla parete davanti a lei.
(Lo ha fatto senza pensare.)
C’è una ragazza, seduta in una poltroncina di spalle allo specchio, proprio di fronte a lei, che intercetta il suo sguardo e le sorride. Lexa risponde al suo sorriso e distoglie lo sguardo, seguendo con gli occhi il profilo del tavolino di mogano tra di loro, su cui sono appoggiate, alla rinfusa, numerose riviste.
Potrebbe sfogliarne una per ingannare l’attesa, ma ormai dovrebbe essere questione di minuti, prima che la segretaria che l’ha accompagnata in sala d’aspetto mezzora fa la chiami perché è arrivato il suo turno. Lexa dà una sbirciata all’orologio da polso, sperando che non ci voglia troppo, o farà tardi al lavoro. E lei non è mai in ritardo.
Si tormenta l’unghia del pollice destro, sospirando.
«Sei in ritardo?»
La voce, roca e bassa, le fa alzare la testa di scatto. L’unica persona nella stanza, oltre a lei, è la ragazza bionda seduta davanti a lei.
«Non ancora» dice, sorridendo a quella che in un qualsiasi altro momento considererebbe sfacciataggine, venendo da una perfetta estranea. Ma il tono della ragazza sembra sinceramente apprensivo, per cui Lexa è disposta a passarvi sopra.
«Che ore sono?»
Lexa guarda nuovamente l’orologio, strizzando gli occhi, cercando di decifrare i numeri sul quadrante. Alla fine si risolve ad allungare il polso verso l’altra ragazza, che ha un moto di sorpresa e si alza velocemente dalla sedia per avvicinarsi e leggere l’ora. Lexa arrossisce, quando realizza di averla fatta scomodare.
L’altra però non sembra farci troppo caso, perché, subito dopo aver dato un’occhiata veloce al suo orologio, si lascia cadere sulla poltroncina accanto alla sua, con uno sbuffo poco convinto.
Passa qualche minuto in cui nessuna delle due dice niente, alla fine Lexa arrischia uno sguardo in tralice nella sua direzione, solo per trovare la ragazza che la fissa apertamente e con attenzione. A entrambe viene da ridere, a Lexa più discretamente.
«È strano che non ci sia un orologio in questa stanza» fa notare la ragazza.
Lexa annuisce brevemente. «Sì, è strano.»

C’è un breve silenzio.
Clarke non riesce ad ignorare la sensazione pressante sul petto di aver già visto quella donna, altrove. C’è qualcosa, nelle sue dita affusolate e delicate, nei suoi occhi di un verde profondo, nei suoi capelli intrecciati con cura, che le sembra di conoscere già.
Lei è una pittrice, ci sa fare con i volti delle persone. Ma il viso bellissimo di questa ragazza continua a sfuggirle, i suoi lineamenti continuano a sgretolarsi e confondersi, tirandosi in immagini impossibili. Osserva ancora il suo profilo morbido, la curva ben disegnata del naso, le ciglia lunghe, la piega gentile delle labbra.
Prova per l’ennesima volta a riportare alla mente un ritratto di quella ragazza, cercando di inserirla in un contesto, in un paesaggio. L’unica immagine che le attraversa la mente, incoerentemente, è lo skyline magnificamente illuminato di New York, che si riflette in un paio di occhi verdi sgranati, occhi immensamente tristi.
(Come fanno degli occhi a essere tristi?)
Scuote il capo, allungando le gambe davanti a sé e infilando profondamente le mani nelle tasche del suo cappotto troppo leggero. Avrebbe dovuto prenderne uno più caldo, ormai sta iniziando a fare freddo, a New York. Se si fosse svegliata prima, stamattina, avrebbe potuto scegliere con più cura il proprio abbigliamento e indossare un altro giubotto.
«Sei in ritardo?» Questa volta è la ragazza dagli occhi verdi e le dita troppo lunghe a chiederlo.
Clarke le sorride. «Ero in ritardo anche prima di entrare qui. Vorrei solo non essere troppo in ritardo.»
«Lavoro impegnativo?»
Clarke annuisce. «Ultimamente in ufficio c’è molto da fare e questa è già la seconda volta che arrivo in ritardo, questa settimana, ma non posso davvero perdere questo lavoro. Io dipingo, ma non si fanno molti soldi dipingendo, sai. Quindi non posso essere licenziata, o mi toccherà tornare a casa da mia madre e questa è l’ultima cosa che desidero, al momento» spiega rapidamente e poi ammutolisce di colpo, chiedendosi perché diavolo stia raccontandolo a questa donna. «Ma non vorrei annoiarti» aggiunge quindi precipitosamente.
L’altra scuote il capo. «Non ti preoccupare, non annoi» dice cortesemente. «E poi non possiamo fare molto altro, oltre ad aspettare, no?»
Clarke annuisce e lascia vagare lo sguardo sull’abbigliamento curato della donna, tentando per l’ennesima volta di adattarla ad un contesto. Di solito è abituata a fare il contrario: di solito sono i paesaggi ad ispirarle i soggetti per i suoi quadri, mentre questa volta ha già un soggetto, un magnifico soggetto, già disegnato, e deve dipingerne lo sfondo.
(È dannatamente difficile, per lei, una pittrice.)
Probabilmente il suo sguardo puntato addosso e il silenzio che è calato nella stanza devono mettere a disagio la donna, che le tende una mano, arrossendo: «Io sono Lexa, in ogni caso» mormora.
Clarke si affretta a stringere la mano che quella le sta porgendo: «Molto piacere» dice con un sorriso. «Io sono...»
«Clarke.»
Il nome ristagna nella stanza. Ma non è stata lei a pronunciarlo. È stata Lexa.

Clarke. Non sa come facesse a saperlo. Clarke. Si fa schioccare il nome sulle labbra e nella testa più volte. Clarke. Clarke.
(Clarke.)
Clarke ha un sussulto sorpreso. «Sì. Come lo sai?»
Già, come lo sa? Lexa lascia andare la mano della ragazza bionda che la fronteggia, voltandosi dall’altra parte, verso la finestra che dà sul cielo nuvoloso di New York.
«Ci siamo già viste da qualche parte, per caso?» chiede ancora Clarke, stringendole tra le dita paffute l’avambraccio.
«No.» La risposta è secca, quasi rabbiosa. Lexa scuote leggermente il braccio per liberarsi della presa della ragazza.
«E allora come...?»
Lexa si alza in piedi velocemente. «Non lo so. Non ne ho idea.» Lei odia non sapere le cose, non è nemmeno abituata a non saperle.
(Di solito sa sempre tutto.)
«Noi due ci conosciamo già, vero?» domanda Clarke, alzandosi a sua volta.
Lexa si passa le mani sul viso. «No. Non è possibile. Non ti ho mai visto prima in vita mia.»
«Eppure conosci il mio nome» obbietta Clarke.
«Sì, già...» Lexa scrolla le spalle.
(Erano anni che non lo faceva.)
«Hai una faccia molto da Clarke.»
Si dirige verso la porta da cui è entrata. «Scusa, ho un appuntamento e sono in ritardo per il lavoro.»
«Come facevi a sapere il mio nome?» insiste la bionda, allungando una mano come per trattenerla. L’occhiata fulminante di Lexa la fa indietreggiare di qualche passo e la sua mano rimane lì, sospesa a mezzaria, tra di loro.
Clarke prosegue, la voce bassa e pressante: «Io sono sicura di averti già visto, da qualche parte.»
Lexa si tormenta i capelli (si è intrecciata i capelli, stamattina), senza guardare Clarke negli occhi. «Ero sul New York Times, la settimana scorsa» dice infine, in modo molto poco convincente.
«Il New York Times?» ripete incredula Clarke.
«Sì. Ho fatto una grossa donazione ad un ente benefico, per la promozione dei diritti della donna nei paesi in via di sviluppo. Hai mai sentito parlare dell’associazione TonDc
Clarke scuote il capo. «Non mi dice nulla» mormora.
Clarke. Clarke. Clarke. È solo un nome.
«Mi dispiace, devo andare» dice Lexa, abbassando la maniglia della porta d’ingresso e tirando verso di sé. La porta non si apre. «Come... è chiusa!» esclama, confusa.
«Come?» Clarke si alza subito in piedi. «Magari è solo incastrata.»
Raggiunge Lexa davanti alla porta e la invita a spostarsi, solo posandole una mano sulla spalla. Lexa osserva i muscoli delle braccia di Clarke che si flettono nello sforzo, mentre la ragazza tira e spinge la porta, determinata ad aprirla.
«Non posso crederci!» esclama dopo qualche istante, allontanandosi leggermente. «Quella donna, la segretaria, deve aver chiuso a chiave.»
«Intendi Anya?» domanda Lexa, guardandosi intorno nella stanza, alla ricerca di un oggetto con cui forzare la serratura.
«La conosci?» chiede Clarke, sorpresa.
«No» risponde Lexa, acquattandosi per esaminare la toppa della porta.
C’è un attimo di silenzio, in cui l’unico suono che Lexa distingue chiaramente è quello del proprio cuore che rintrona nella cassa toracica e quello del respiro di Clarke alle sue spalle.
(Lexa, invece, ha un respiro molto sottile.)
La donna infine alza lo sguardo su Clarke, che la sta guardando dall’alto con occhi sbarrati.
«Cosa c’è?» domanda, senza riuscire a trattenere un piccolo sorriso, al vedere sul suo viso quell’espressione. Clarke esita. Quando parla, la sua voce è pacata.
(Parla come se non volesse disturbarla, o spaventarla.)
«Come fai a sapere che la segretaria si chiama Anya?»

Lexa tiene gli occhi puntati su di lei; ha ancora un sorrisetto incastrato sulle labbra. Alla fine si sistema dietro l’orecchio una ciocca di capelli sfuggita alla treccia e si rialza.
«Non lo so.» Ha usato un tono leggero, che Clarke non comprende appieno.
La ragazza osserva Lexa allontanarsi verso l’unica finestra della stanza e rimanere in piedi, incorniciata nel rettangolo di luce.
«Okay» ragiona ad alta voce la bionda. «Quindi tu conosci i nomi degli sconosciuti. E a me sembra di averti già conosciuto.»
Lexa si volta a guardarla. «Non c’è nulla di strano, Clarke. Può darsi che io e te ci siamo già incontrate.»
«Lo pensi davvero?» chiede dubbiosa Clarke e dall’espressione contrita di Lexa capisce che no, non lo pensa davvero. Quando lei, una pittrice squattrinata che lavora in uno studio legale per campare a fine mese, e quella donna potrebbero mai essersi incontrate, se non in questa sala d’attesa?
(Eppure.)
«Non è questo il nostro problema più urgente. Dobbiamo trovare un modo per uscire» fa notare Lexa, esaminando la finestra, che, curiosamente, nota ora Clarke, non ha una maniglia.
Clarke annuisce e si avvicina al tavolino, cercando qualcosa che possa tornare utile tra le vecchie copie di US Weekly e Harper’s Magazine. Si sente come in un vecchio videogioco punta-e-clicca, in cui non sa bene cosa deve cercare.
«Sai, è che non l’ho mai letto » commenta svagatamente la ragazza, perdendosi per un momento ad osservare la copertina di una rivista, da cui Jennifer Aniston la saluta allegramente.
«Cosa?» domanda Lexa, che sta perlustrando le due file di poltroncine disposte lungo le pareti.
«Il New York Times» risponde Clarke. «Non sapevo che avessi fatto quella cosa... della beneficenza.»
«Oh, non ti preoccupare, nessuno lo ha saputo, nemmeno i miei amici, finché i giornali non ne hanno parlato.»
Clarke sorride. «Sei una persona riservata, eh?»
Può benissimo immaginare Lexa che si stringe modestamente nelle spalle, mentre un amico, o un parente, le chiede spiegazioni per un articolo che ha letto su un giornale.
Lexa sorride di rimando. «Si può dire, sì.»
Dopo questa risposta, il silenzio torna nella stanza e per alcuni secondi, Clarke si affatica tra le riviste. Quando alza lo sguardo, trova Lexa che si guarda attentamente nello specchio, come se fosse stata incuriosita da qualcosa in particolare.
(Si è intrecciata i capelli, ed è bellissima.)
Clarke si avvicina. «Ehi, Raperonzolo» sbotta. «Non voglio interrompere, ma fino a un attimo fa volevi disperatamente uscire da qui.»
Lexa sobbalza sorpresa e si gira verso di lei, sfilando una forcina dai capelli. «Pensavo che potremmo provare a forzare la porta con questa» si giustifica, mostrandole la molletta con uno sguardo di scuse.
(Non ha senso: dovrebbe essere Clarke a scusarsi, non Lexa.)
Clarke si sente arrossire e si affretta verso di lei, mugugnando: «Buona idea.»
Mentre Lexa armeggia attorno alla serratura con la molletta, Clarke si dirige verso la finestra. All’improvviso la stanza sembra essere diventata ancora più piccola di quanto non fosse prima, l’aria più pesante.
(Com’è possibile che una finestra non possa essere aperta?)
Si fa rimbalzare il nome di Lexa tra le labbra. Non c’è nulla in questo nome che le suoni familiare. Familiare è invece il viso della segretaria («Intendi Anya?»), le sue unghie laccate di rosso, la sua voce secca e troppo autoritaria per essere quella di una semplice assistente.
Tamburella sul davanzale della finestra con le unghie. Ed è allora che capisce cosa c’è di strano.
(Ha iniziato a piovere.)
È la pioggia. Sta cadendo nella direzione sbagliata.

La serratura scatta con un click deciso e Lexa si affretta a spalancare la porta. Si volta verso Clarke con un sorriso, per invitarla a uscire, ma la trova davanti alla finestra, che fissa paralizzata oltre il vetro.
«Clarke?» chiama.
(Clarke.)
«Lexa.» La voce bassa di Clarke sembra venire da lontano.
(Perché il suo nome suona così bene sulle labbra di Clarke? Lexa. Clarke.)
La mora fa qualche passo verso la ragazza. «Clarke, va tutto bene?» domanda.
«No.»
(C’è qualcosa di sbagliato, Lexa lo sente.)
«Sta piovendo.»
Il tono in cui Clarke lo dice, la fa rabbrividire.
«Non pioveva, prima» nota.
«Non è quello» mormora Clarke, mentre Lexa si affianca a lei, davanti alla finestra. «La pioggia sta salendo verso il cielo, invece di andare verso terra.»
(Questo è sbagliato. Forse dovrebbe avere paura, ora. Ma non riesce: perché non riesce ad avere paura?)
«È strano, vero?» mormora Lexa, atona.
«Sì, lo è.»

«Avete un appuntamento?»
Conosce quella voce, ne è sicura.
Non la conosce come si conosce il volto di una celebrità, o si conosce un deja-vu. La conosce.
«Anya» dice, voltandosi.
La segretaria è incorniciata nella porta che Lexa ha aperto poco fa. Quando Clarke pronuncia il suo nome, ha un sussulto di sorpresa.
«Sì. Avete un appuntamento?» ripete.
Lexa prende in mano la situazione. «Avevo un appuntamento, ore fa.»
(Ore?)
«Sto ancora aspettando il mio turno, a quanto pare, e devo essere al lavoro tra poco» continua Lexa e Clarke sorride: è stata cortese ma ferma, severa ma giusta.
«Impossibile» dice Anya, impassibile. «Non ci sono appuntamenti segnati per oggi.»
Clarke si lascia sfuggire un gemito. «Ma come?! Stiamo aspettando da un’eternità.»
Anya si avvicina. Sul suo viso c’è un sorriso piccolo, quasi complice.
«Tra quanto deve essere al lavoro?» chiede, rivolgendosi a Lexa.
E allora succede una cosa strana: Lexa impallidisce. Quando parla, lo fa in modo esitante: «Tra mezzora, credo.»
«Credo?»
Il silenzio nella stanza sembra allungarsi e stillare in gocce minuscole sul pavimento di mogano.
«Non lo avete ancora capito?» continua Anya.
«Cosa?»
(Cosa?)
«Capito cosa
«Nemmeno tu, Clarke?» mormora Anya, spostando lo sguardo su di lei. «Tu sei una pittrice, dovresti averlo capito.»
Clarke scuote il capo, confusa.
«Tu sai che c’è qualcosa di sbagliato.»
(Sì, ma cosa?)
«Sta piovendo» prova Lexa. Il suo tono sembra immensamente stanco, ora.
«Non è la pioggia» nega Anya, senza staccare lo sguardo da Clarke, che inizia a sentirsi in imbarazzo sotto i suoi occhi attenti.
Si guarda per l’ennesima volta intorno: la piccola sala d’aspetto non sembra aver nulla di strano, con le sue brave poltroncine di pelle, il tavolino di mogano su cui sono ammucchiate le riviste, lo specchio.
(Forse...)
Si avvicina alla superficie piatta e lucida, che le rimanda indietro la sua figura, pallida e smorta nel riflesso.
(Sta piovendo, di fuori. Piove verso l’alto.)
C’è un momento, in cui la realizzazione la colpisce. È l’attimo in cui si sente pronunciare con voce tremante: «Lexa, per favore, girati verso lo specchio.»
(Quello è l’attimo.)
Lexa non fa domande, si volta, e i suoi occhi verdi sono in quelli blu di Clarke, ma attraverso la superficie perlacea dello specchio. Luci dorate, riflesse negli occhi verdi di Lexa. Occhi immensamente tristi, in cui Clarke si specchia, e annega, e si salva.
(Come è possibile che degli occhi siano in grado di salvare una persona?)
Quello è il momento. «È la luce» dicono le sue labbra. «È sbagliata.»
Non c’è abbastanza luce, negli occhi di Lexa. Nei suoi occhi, dovrebbe esserci molta più luce. E non importa che questa sia la prima volta che li vede, Clarke sa che gli occhi di Lexa sono molto più belli di così. Lei è una pittrice: lei lo sa.
(Lo sa.)
La pioggia, fuori, cade con più violenza, andando a nascondersi dietro lo spesso manto di nubi che copre il cielo.
«Non c’è abbastanza luce, in questa stanza» dice. «Piove, ma dovrebbe comunque esserci più luce.»
«Più luce...» ripete Lexa, assorta.
«Eppure» continua Clarke, passando un dito sulla superficie dello specchio. «In questo specchio c’è molta più luce che in questa stanza.»
«Come è possibile?» domanda Lexa.
Clarke guarda Anya, che annuisce. «La pioggia sta cadendo verso l’alto» dice la bionda.
«E quindi?»
«Lexa» usa volontariamente un tono basso e rassicurante. «Siamo dall’altra parte dello specchio.»

Lexa non capisce e lei di solito capisce sempre tutto. Come è possibile che siano finite dentro uno specchio? Sembra assurdo anche solo pensarlo.
Interroga Anya con lo sguardo.
«È vero» annuisce questa. «In parte.»
«In parte?» ripete Lexa.
«Non ricordi nulla, Lexa?» domanda la segretaria.
Lexa aggrotta le sopracciglia. «Di cosa?»
«Guarda nello specchio.»
Scettica, Lexa fa un paio di passi verso lo specchio, lucido, in cui si riflettono lei e Clarke. Ora che ci fa caso, anche lei nota che la luce nel riflesso è diversa.
«Non vedo nulla» mormora.
Clarke si volta verso di lei, lo sguardo grave. «Non devi guardare lo specchio, devi guardare nello specchio.»
(Dentro lo specchio, dall’altra parte.)
C’è un attimo, in cui inizia a capire.

C’è lei, e una strada affollata, che conosce.
Gli occhi blu di Clarke, la sua voce un po’ roca che la chiama, il suo sorriso che le spezza il volto in due.
(Un dolore improvviso, che sa di freddo, contro lo stomaco.)
Gli occhi di Clarke che crollano. Qualcosa di duro che colpisce la sua testa, il suo collo che si piega, sotto i suoi capelli intrecciati.
(Stamattina si è intrecciata i capelli.)
(Se non avesse perso tempo a intrecciarsi i capelli.)
 I suoi occhi che artigliano il cielo, un peso sullo stomaco.
Le mani di Clarke tra le sue, tra le sue, tra le sue
dov’è il viso di Clarke, il viso di Clarke, vuole vedere il viso di Clarke.

Lexa si allontana dallo specchio, tenendosi una mano sul petto. Indietreggia, fino a toccare il muro con le spalle.
«Non è possibile» dice, la voce tremante. «Sto sognando.»
«No, Lexa» interviene Clarke, avvicinandosi a lei per prenderle una mano tra le sue.
La mora la guarda spaventata. «Chi sei tu?»
(Ora è spaventata.)
Clarke distende lo sguardo. «Mi dispiace tanto.»
«No.»
«Mi dispiace, Lexa» continua Clarke.
«Per favore.»
«Ma noi...»
«Non dirlo, ti prego.»
«Lexa...»
«Clarke, per favore.»
«Lexa. Noi siamo morte.»

(Se non si fosse svegliata in ritardo.)
Lexa, in fondo alla strada, all’incrocio. Si è intrecciata i capelli, stamattina. La vede di spalle, è bellissima.
(Eppure.)
Devono incontrarsi dall’altro lato della strada, davanti all’ingresso di Central Park.
(Se non l’avesse chiamata.)
Lexa si volta, riconoscendo il suo nome e la voce che la chiama.
È così bella, che potrebbe dipingerla in questo attimo per sempre, nella luce perfetta di questa mattina autunnale.
(Se Lexa non fosse così bella.)
Capisce troppo tardi cosa rende Lexa così bella, in questo momento.
(È la sua fragilità.)
Vede il taxi giallo troppo tardi. Urla, ma la sua stessa voce le risulta distorta.
Il volo verso la strada.
Le sue mani che artigliano quelle di Lexa.
Il respiro nel petto tagliato in due dal metallo gelido della paura.
Lexa, sotto di lei, sotto di lei, sotto di lei
ma dove sono i suoi occhi?

Il viso di Lexa è bagnato di lacrime.
«Mi dispiace» dice, ma non sa a chi lo sta dicendo, non sa perché.
«Anche a me» annuisce Clarke, stringendole forte una mano. Lexa la guarda.
Clarke.
Ovviamente. Era ovvio, che fosse lei. È sempre stata lei. Sorride, tra le lacrime, perché non può non sorridere a Clarke. La sua Clarke.
«Perché siamo qui?» domanda, rivolgendosi ad Anya, passandosi una mano sul viso, per asciugarsi alla meno peggio le lacrime.
Anya le sorride. Non è più la segretaria severa di poco fa. «Perché vi perdoniate a vicenda» risponde.
«Perdonarci?»
«Siete morte entrambe per colpa dell’altra.»
C’è un breve silenzio.
«Quindi questa cos’è? Una specie di sala d’attesa per i conti in sospeso?» sbotta alla fine Clarke, con una mezza risata. Anche Lexa sorride.
«Una specie» annuisce Anya, stringendosi nelle spalle.
«È assurdo» dice la mora. «Non ho bisogno di perdonare Clarke. Ha provato a salvarmi.»
Clarke sorride, guardando Lexa. «E io non devo perdonare te, dal momento che mi sono buttata sotto quel taxi di mia iniziativa.»
«È stato un gesto stupido e avventato» fa notare Lexa, lanciandole un breve sguardo di rimprovero.
Il sorriso sul viso di Clarke si allarga. «Ma molto eroico.»
Rimangono a guardarsi negli occhi, mano nella mano, felici solo di essere insieme all’altra, qualcosa di simile a una muta confessione d’amore che passa tra loro, finché la voce di Anya non le richiama alla realtà: «È ora» dice.
Clarke e Lexa la guardano in attesa, senza smettere di tenersi per mano.
Anya sorride loro e tende una mano verso Lexa. «Vieni con me» mormora.
Lexa fa un paio di passi verso di lei, continuando a tenere la mano di Clarke stretta nella sua. Si volta verso la ragazza.
«Mi dispiace, Clarke» dice.
«Non devi scusarti» la interrompe Clarke.
«Non mi sto scusando. Mi dispiace solo di non aver avuto più tempo.»
La gola di Clarke si secca, il che è davvero ingiusto, visto che al momento è una specie di fantasma, e le sensazioni di questo genere dovrebbero essere ormai storia passata.
«Anche a me dispiace» si risolve a dire, affidando a uno sguardo le tante cose che vorrebbe dirle in realtà. Sa che Lexa capirà: lo fa sempre.
«Sappi solo» continua Lexa, emozionata, «che se ne avessi avuto la possibilità, avrei voluto passare tutto il tempo che mi era rimasto con te.»
Le mani di Clarke stringono di più quelle di Lexa, mentre prova a ricacciare indietro le lacrime e a sorridere. È Lexa a liberarsi della stretta e seguire Anya fuori dalla sala d’aspetto.
(«Dove mi porti?» la sente chiedere.)
Clarke si volta verso la finestra, per non vederla uscire. La luce, però, la vede lo stesso, nel riflesso dello specchio.
Per un attimo, la stanza si illumina proprio della luce perfetta.

 

 

 

 

Angolo della vergogna
Questa è la prima storia che pubblico in questa sezione e ora sono l’Ansia. È una storia a cui mi sono affezionata molto, in corso di stesura, anche se la forma finale non mi soddisfa totalmente.
Voglio specificare alcune cose, forse poco chiare, riguardo alla trama:
1. Clarke e Lexa non possono leggere l’orologio, perché ormai non c’è “più” tempo. Allo stesso modo non possono leggere le riviste (che nessuno tocca mai) perché sono lì solo per dare una parvenza di normalità.
2. Lexa ricorda il nome di Clarke, mentre Clarke no; quest’ultima ricorda invece il viso dell’amata. Questo segna una differenza di carattere tra le due: la prima è più pragmatica.
3. Il motivo per cui Lexa è in ritardo è perché si è fermata a intrecciarsi i capelli. Questo suo ritardo causerà la sua morte.
4. Anya è lo psicopompo, in questa storia. Anya è, anche nella serie, il personaggio senza il quale Clarke non avrebbe mai conosciuto Lexa e viceversa.
5. Clarke che chiama Lexa, nel “flashback”, è puramente ispirato al mito di Orfeo ed Euridice. Quando Lexa si volta, perde per sempre Clarke.
Grazie a chiunque abbia letto; se ne avete voglia, fatemi sapere cosa ne pensate.

Nina

   
 
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